Chi è il prof. Flavio Pajer, 

Sulle problematiche dell’educazione, della cultura religiosa e della cittadinanza, con oltre quarant’anni di ricerche – teoriche e sul campo – e dibattiti sulla pedagogia, la scuola e la religione, il prof. Flavio Pajer (n. Belluno 1939, membro dei Fratelli delle Scuole Cristiane, congregazione laicale fondata da G. B. de La Salle, patrono universale degli insegnanti), si colloca tra i più autorevoli studiosi ed interpreti del senso religioso nella formazione umana-civile ed ecclesiale dopo il Concilio Vaticano II. L’impegno professionale, sul piano teologico-pastorale-catechetico e pedagogico-didattico, e la sua vocazione intellettuale si articolano tra il mondo accademico – in Italia, in Europa, in Africa – la manualistica scolastica, la saggistica, la direzione di riviste professionali come Religione e Scuola e Rivista lasalliana, la fondazione e redazione di testate digitali come EREnews e Global RE, la promozione di convegni di studio, le rassegne bibliografiche[1], relazioni e interventi vari nella pubblicistica scientifica e divulgativa.

Questo magistero scientifico, pedagogico, di testimonianza civica e morale, si incentra sull’istruzione religiosa nei sistemi educativi scolastici. Tiene ben presenti sinotticamente sia il “caso italiano” che i percorsi multiconfessionali e le tendenze sovranazionali della dottrina e degli Organismi, in cui ha svolto e tuttora ricopre ruoli e consulenze in un orizzonte europeo e globale, nell’evoluzione della modernità e della società post secolare.

Una vita di servizio qualificato e sapiente alla crescita dei ragazzi-giovani e degli educatori, e una cultura -senza enfasi- enorme, narrata attraverso due recenti volumi complementari: un agile saggio storico sull’IR nei sessant’anni dell’Europa unita[2] e un corposo “volume silloge” dedicato al quarantennio neo-concordatario italiano[3]. Come pedagogista delle religioni e comparatista dei sistemi europei di istruzione religiosa, ha accompagnato più generazioni, anche tra di noi, nella ricerca scientifica e nell’iniziazione all’apertura alla laicità e all’orizzonte sovranazionale dell’IR, affiancando la ricerca ermeneutica promossa dal prof. Zelindo Trenti (1934-2016) dell’Università Pontificia Salesiana.

ERMES ritiene di svolgere  un servizio, inconsueto dal punto di vista editoriale ma prezioso, col  lasciare spazio alla lunga narrazione autobiografica che si intreccia con la storia dell’evoluzione scolastica e il rapporto della società e dell’educazione con la dimensione culturale religiosa.

L’intervista

Educazione, una “utopia necessaria”

Siamo eredi di una straordinaria stagione culturale, quella che, a cavallo del millennio, ha osato rielaborare a livello europeo e internazionale i capisaldi dell’educazione e innovarne le strategie operative. Dalle prospettive delineate da Jacques Delors[4] sul “tesoro” e “l’utopia necessaria” dell’educazione per le sfide del terzo millennio (complessità, globalizzazione, crisi, cambiamenti, democrazia e pace…), aggiornate poi nello sforzo di “ripensare l’educazione verso un bene comune globale”, si è passati – attraverso un concerto planetario di tante voci (UNESCO, Libro Bianco UE, Trattati, Consiglio, Commissione, Parlamento, Fondi strutturali, Next Generation EU, OCSE, ONU, Agenda 2030, S. Sede e il Patto educativo globale) ai problemi emergenti e ai valori ispiratori e generatori quali: i “quattro pilastri”, long e wild life learning,  comunità educante, società della conoscenza, competenze chiave, visione funzionalista e personalista, alleanza educativa intergenerazionale e tra sistema formale-non formale-informale, TIC, STEM…

Di quale “utopia” vecchia e nuova dobbiamo sentire assolutamente bisogno nelle sfide più attuali, quale lo scopo e l’organizzazione da ritenere imprescindibili e verso cui incamminarci insieme come governance, nel mondo scolastico e da insegnanti, anche alla luce di qualche tendenza internazionale emergente e più significativa?

FP – Una domanda colossale questa che mi poni, una parete vertiginosa da sesto grado! Ma anziché prospettare in astratto una improbabile “utopia” tra quelle che hai evocato – tutte rispettabili, anzi indifferibili – preferirei cominciare col dire con quali utopie concrete, cioè con quali sfide educative mi sono incontrato nel mio percorso biografico. Iniziavo, oltre cinquant’anni fa, i miei otto anni di studio e poi di docenza accademica all’Institut Catholique di Parigi (1972-1980), quando usciva dall’Unesco il Rapporto Faure sulle nuove strategie dell’educazione[5]. È stato per me un primo giovanile tuffo nell’oceano delle utopie della nuova educazione post-bellica, educazione che doveva essere internazionale (si parlava ancora di Terzo Mondo), scientifica (ma non scientista), democratica (ma non populista), integrale (ma non integrista). Ma quegli anni ‘70 erano attraversati anche da un’altra utopia convergente, seppur in apparente controtendenza, quella dei pedagogisti della “morte della vecchia scuola” (Illich, Reimer, Freire), cronologicamente e culturalmente vicini al nostro don Milani. Vecchie e nobili reminiscenze, ideali coltivati sin da allora dalla cattedra e dalle pagine delle mie prime riflessioni in riviste divulgative, ma acqua passata. Ricordo però ancora che una sera, invitato a un dibattito pubblico alla Maison des Sciences de l’Homme per il decennale del mitico Maggio ‘68 parigino, mi trovai per fortuita coincidenza quasi gomito a gomito con Edgar Morin, non ancora una star a quel tempo, ma che avvertii subito come un affascinante profeta di una visione cosmopolita dell’educazione, e del quale anche in seguito ho tenuto d’occhio le sempre stimolanti pubblicazioni, che lì per lì sembrano eversive o avveniristiche, ma che si rivelano poi quasi sempre indovinate e molto realistiche. Appena avevo un pomeriggio libero, mi infilavo volentieri a curiosare le novità in qualche ricca biblioteca della città, per esempio nella fornitissima FNAC che trovavo a due passi dalla mia residenza, o ad assistere a mostre e simposi internazionali organizzati dalla sede parigina dell’Unesco.  A queste diverse fonti mi abbeveravo come docente in erba per dare nerbo ai miei corsi e seminari in tema di “analisi delle istituzioni educative” che l’ISPC (Institut supérieur de pastorale catéchétique) della facoltà teologica mi chiedeva di fornire a una platea largamente internazionale di studenti e studentesse provenienti da quattro continenti.

È stato, quello parigino, un interessante percorso accademico, inaspettato anche per me, ma troppo breve, perché bruscamente interrotto da una seconda imperiosa chiamata alle armi, proveniente stavolta dall’Italia, dalla editrice Queriniana, che – avendomi dapprima coinvolto nel gruppo fondatore della rivista Religione e Scuola (1971-72) – volle poi accollarmi la direzione della stessa rivista (1980-1988), proprio durante gli anni febbrili del dibattito preconcordatario e della prima applicazione della nuova Intesa. E fu subito un ritrovarmi catapultato nel bel mezzo di una concretissima utopia educativa, quella di ripensare per l’Italia una cultura religiosa scolastica oltre lo steccato confessionale, oltre l’esclusiva mainmise di una sola chiesa sulla scuola pubblica, oltre un concetto pretestuosamente non negoziabile di una atipica laicità all’italiana, oltre la rivendicazione dei soli diritti religiosi della comunità cattolica maggioritaria a scapito dei basilari diritti civili delle minoranze culturali e religiose e della società tutta, già allora visibilmente plurale. Un’utopia sostenuta allora in sintonia con un solido manipolo di esponenti della cultura del calibro dei politici Scoppola, Monticone, Gozzini, dei professori Pazzaglia, Ardigò, Corradini, Butturini, Mencarelli, Prenna, Galli e tanti altri “cristiani a modo loro”. Un’utopia oltretutto condivisa da una forte maggioranza degli ottomila insegnanti di religione in esercizio (specie nelle secondarie superiori), allora abbonati alla nostra rivista mensile.

Sappiamo come e perché tutto quel bel sogno sia andato ad arenarsi quel 18 febbraio 1984. Ne ho ragionato a lungo in quel mio volume che citavi poco fa (Scuola e religione in Italia. Quarant’anni…, vedi nota 3), e non intendo qui ripetermi. Fu vera gloria quella firma del nuovo accordo? “Ai posteri l’ardua sentenza”. Ma fin d’ora, una sentenza in negativo la stanno decretando le migliaia di studenti che ogni anno più si astengono dall’iscriversi al corso di Irc. Per tagliare corto, diciamo solo che, anche in quel caso, come la Storia ci ha più volte mostrato, è stata la Realpolitik delle istituzioni ingessate ad avere il sopravvento sulle pur nobili e fondate utopie delle persone pensanti.

 

 Conversione spirituale, culturale, pedagogica ed ecumenica oltre l’eurocentrismo occidentale

Gli eventi posteriori però dimostrano che non ti sei affatto perso d’animo, e che, a volte, una singola battaglia momentaneamente persa può dare origine a successive rivincite che compensano ampiamente un episodio apparentemente abortito. È stato così anche per te?

FP – Indubbiamente! Perché si è incaricata poi la mia ulteriore vicenda professionale a farmi sperimentare dal vivo altri sprazzi di utopie educative con le quali non potevo evitare di misurarmi. E qui, se mi permetti, tanto per esemplificare, dovrei rievocare brevemente almeno tre diversi “casi impossibili”, altrettanti iceberg contro cui mi sono impattato, forse “sanza lodo e sanza infamia”, ma uscendone almeno salvando la pelle.

Il primo: durante gli oltre vent’anni del mio insegnamento romano alla Università Salesiana di Roma, mi è stato chiesto dai miei superiori di scendere annualmente in Costa d’Avorio per ben otto semestri annuali (alternandoli con i semestri impegnati all’UPS), per dare corsi al Celaf (Centre lasallien africain), incorporato nell’Università cattolica dell’Africa occidentale, con sede nella capitale Abidjan. Un centro creato dai primi anni ‘90 dalla mia congregazione per la formazione dei quadri dirigenti dell’educazione cattolica e in parte anche pubblica, a servizio di una dozzina di paesi dell’Africa francofona. Sono stati semestri in cui, paradossalmente, ho capito meglio i testi, allora molto in voga, della Teologia della liberazione latino-americana, praticando però in terra africana e nel vivo del dialogo d’aula, un mio tentativo, ovviamente inarrivabile, di una “pedagogia della liberazione”. Una pedagogia in cui il primo ad essere liberato e a imparare di più ero proprio io, il bianco occidentale post-coloniale ormai disincantato, perché erano loro – studenti universitari senegalesi e congolesi, malgasci e persino haitiani – quelli che mi aprivano gli occhi di fronte agli immani problemi continentali dell’alfabetizzazione di massa, della decolonizzazione, dell’intercultura, dei miti tribali, della diversità religiosa… In quelle aule, anno dopo anno, toccavo con mano lo spessore incommensurabile, utopico appunto, di un’educazione sempre in fieri, di un rapporto politico-educativo non più gerarchico né strumentale, di un modello inedito d’uomo e di società che ancor oggi il nostro presuntuoso Occidente tardo-illuminista e ipertecnologico si ostina a considerare “minorenne”.

Ho così anche sperimentato, in quegli anni ’90 di ripetuti andirivieni con l’Africa, la netta differenza di postura tra l’insegnare a classi di studenti in buona parte non europei come avevo avuto a Parigi e poi a Roma, e l’insegnare a studenti multietnici ma nativi e residenti nello stesso continente come quelli che mi ascoltavano ad Abidjan: con i primi ti senti facilmente “il docente accademico”, sicuro di fronte a studenti diciamo così immigrati da altre culture, che postulano il tuo sapere accademico che essi candidamente presuppongono ‘superiore’, con i secondi ti devi sentire inevitabilmente anche “co-discente” con loro, perché sei tu lo straniero sulla loro terra (Paolo direbbe ‘dover farsi greco coi greci’), e se non vuoi fare il colonialista dell’ultima ora, devi stare sul loro terreno, pur senza abdicare demagogicamente alla tua funzione docente, ma cercando di carpire la filigrana delle loro culture native, intuendo le loro reazioni di fronte a problemi pensati magari incautamente “all’occidentale”, proponendo visioni e pratiche educative che siano almeno compatibili con i canoni ancestrali della loro antropologia e delle loro “pedagogie indigene”. Ho insegnato in Africa, ma l’Africa mi è stata anche maestra. Insomma, potrei scrivere anch’io “la mia Africa”[6], ma resisto a nostalgie emotive…

Un secondo imprevisto tuffo in un bagno culturale alternativo l’ho vissuto nella Romania del dopo-Ceaucescu, quando i due unici vescovi cattolici romeni di Bucarest e di Jasi invitavano, durante i mesi estivi dei primi anni ‘90, alcuni docenti volontari di Facoltà romane a darsi il turno nelle comunità cattoliche del paese – una assoluta minoranza, circa un 5% rispetto al 95% di ortodossi – per un “aggiornamento pastorale, liturgico, catechistico” dei fedeli e delle religiose. Comunità cattoliche che, caduto il regime, stavano per uscire da decenni di asservimento e persecuzioni, tra cui il divieto assoluto di tenere in casa o di mettere in circolazione scritti religiosi. Valga per tutti l’episodio di una numerosa comunità di religiose piuttosto anziane che, in pieno luglio 1994, mi dicevano di aver sentito parlare che a Roma c’era stato un concilio un trent’anni prima, ma dei cui documenti non avevano ancora potuto leggere una riga! Venivamo così a conoscenza di drammi interni alle comunità cattoliche, bisognose di essere (ri)alfabetizzate da zero; di tensioni a non finire dei cattolici con la chiesa ufficiale ortodossa, per cui neppure la semplice nozione di “educazione ecumenica” poteva avere senso in quel contesto di secolari reciproche ostilità. E per me, che presumevo di disporre almeno dell’abc del discorso ecumenico declinato all’occidentale, significava misurarmi frontalmente con una sfida che sfiorava l’assurdo. Più che una sfida, un’altra utopia da far cascar le braccia. L’esperimento collegiale delle nostre generose incursioni estive in terra romena “per dare una mano a fratelli e sorelle di fede” si è poi concluso abbastanza presto, non appena le comunità locali davano prova di poter camminare con le proprie gambe. Nel frattempo, però, e fino al presente, decine di migliaia di romeni ce li siamo trovati sotto casa, accanto alle nostre parrocchie e i loro figli dentro le nostre scuole, se non altro a dare corpo a un flebile ecumenismo intra-cristiano che l’Italia mono-religiosa, ma in via di diventare pluri- e post-religiosa, non aveva ancora conosciuto.

 

L’opzione europeista nel rapporto tra cultura e religione

Non posso tacere poi – ed è il terzo esempio – l’altra utopia coltivata nei miei ultimi decenni, la più vasta e temibile, nella quale mi son trovato coinvolto tangenzialmente e limitatamente al campo dell’istruzione religiosa: l’utopia dell’Europa unita, che (ricordo) nasceva come “Europa dei Sei”, col Trattato di Roma, proprio nell’anno della mia lontana maturità scolastica. Perché mai – me lo son chiesto più volte durante questi decenni – dovremmo pretendere che le nazioni europee si uniscano politicamente, quando le stesse Chiese cristiane sono divise da secoli e restano tuttora disunite? Diamo per scontato che società civili e comunità religiose residenti nello stesso territorio non possano coincidere, ma perché mai, almeno in ambito di educazione etico-religiosa pubblica, i corsi scolastici non tentano di “europeizzarsi”, fatta salva casomai una ragionevole attenzione prioritaria alla storia nazionale e all’identità culturale della propria confessione? In altre parole, mi dico: perché spagnoli e italiani studiano a scuola solo il cattolicesimo, greci e romeni solo l’ortodossia, scozzesi e scandinavi solo il protestantesimo? Che Europa unita è mai questa, se nemmeno le confessioni cristiane possono parlarsi tra loro a cominciare dai banchi di scuola? E così, ancora lungo questi decenni di Europa unita, milioni di ragazzi europei hanno continuato ad ascoltare insegnanti di religione autorizzati dalla propria confessione; insegnanti che non potevano sviluppare se non un programma approvato dalla propria chiesa. Ancor oggi, in molti casi, specie nell’area dei paesi cattolici mediterranei e nell’area slavo-ortodossa, non si è lontani dal voler perseverare a garantire gelosamente queste mono-culture cristiane tuttora imperanti nell’organigramma dei rispettivi sistemi educativi. Segno inequivocabile che, nonostante il mantra che “a scuola non si fa catechismo” e nonostante gli imperativi  della didattica inclusiva e interculturale, la mentalità adulta prevalente in ambito religioso rimane quella di non disturbare la gracile fede dell’alunno, neppure per  aprirlo a leggere la diversità (anche religiosa) che lo circonda, neppure per dargli un nuovo alfabeto per capire meglio la propria e l’altrui identità.

 

Educare alla cittadinanza europea

E oltretutto, dopo il Trattato di Maastricht, non c’è anche una neo-cittadinanza europea da educare con e oltre la tradizionale educazione alla cittadinanza nazionale? Sappiamo, per esempio, di manuali di storia civile per le secondarie superiori dell’Alsazia e del Palatinato, scritti di comune accordo tra autori francesi e tedeschi, al fine di far arrivare alla maturità studenti capaci di dismettere le reciproche ostilità mentali nei confronti dell’eterno nemico d’oltre Reno. Ma nessun esperimento analogo in alcun paese, a mia conoscenza, è stato ancora tentato in campo di cultura religiosa da un paese all’altro, da una confessione all’altra. E non è solo colpa di quelle discusse “radici cristiane” che non sono entrate nel dettato della Costituzione europea a causa del veto francese e olandese. Perché la Charta oecumenica, sottoscritta dai responsabili delle principali Chiese d’Europa, fin dal 2001 incoraggiava i cristiani a servire democraticamente la scuola di tutti, e diffidava le chiese locali dal servirsi della scuola pubblica per perseguire i propri fini pastorali o proselitistici. Fini ovviamente impliciti e men che meno dichiarati, ma che non possono che aver effetti divisivi nella comunità scolastica.

Nobili intenti, rimasti però pressoché lettera morta. E ben venga allora il progetto già avviato (come mi informano da Strasburgo) di una ristesura di quella Charta, a 25 anni dalla prima edizione, purché dalla retorica declamatoria di tanti documenti si cominci a passare anche al realismo dei fatti, alla volontà politica. Ma sappiamo tutti come l’Unione, giunta col fiato corto a queste ultime stagioni, sia purtroppo oberata da altri e ben più gravi problemi sul tappeto (non ultimo i populismi disgregatori), al punto da far temere persino per la sua ‘tenuta’ istituzionale in quanto Unione.

Faccio notare, tra l’altro, che persino il Consiglio d’Europa, prodigo di tante sensate direttive in tema di educazione-scuola-religioni durante il ventennio a cavallo del millennio, sembra si sia improvvisamente quasi ammutolito nell’ultimo quindicennio. E d’altra parte le stesse Chiese cristiane d’Europa stanno attraversando crisi su crisi (si pensi solo, all’Ovest cattolico e protestante, all’inedita caduta statistica dei fedeli effettivi o ai fenomeni scandalistici, e all’Est, all’insostenibile rivalità acuitasi tra chiese ortodosse in seguito alla guerra russo-ucraina).  Per cui quello spontaneo ottimismo europeistico, che la nostra generazione poteva ancora nutrire decenni fa, oggi trova purtroppo più motivi di sfiducia che impulsi per continuare a impegnarsi. I tempi sembrano volgere al pessimismo, ma questo non autorizza a demordere. Tra l’altro, le imminenti elezioni europee possono incoraggiare aspettative per un’eventuale ripresa al meglio.

A proposito di Europa, puoi esplicitarci in sintesi il senso che ha avuto e ha tuttora per te il lungo impegno che ti ha portato ad allargare gli orizzonti e privilegiare un interesse speciale per l’Europa e in particolare a investirti professionalmente per la cultura religiosa scolastica nell’Unione?

FP – Anche qui, se permetti, partirei da un paio di cenni autobiografici. Ero ancora docente a Parigi quando il direttore dell’ISPC, il catecheta Jacques Audinet, mi pregò di sostituirlo nella sessione dell’Equipe Européenne de Catéchèse, che quell’anno (1976) si teneva proprio a Roma. Partecipai alla sessione, e venni cooptato come membro permanente dell’associazione in rappresentanza dell’Italia (presidente dell’Equipe europea era allora don Emilio Alberich, che mi avrebbe poi avuto anche come docente invitato all’UPS). Pochi anni dopo l’imprevista cooptazione nel club dei catecheti europei, a rincarare la dose, mi trovai pure coinvolto nel Gruppo fondatore del Forum europeo per l’insegnamento della religione, gruppo che nacque nel 1984, in Lussemburgo, per iniziativa dei due maggiori responsabili dell’insegnamento religioso cattolico di Germania e di Francia. Una iniziativa cattolica – va ricordato a onor del vero – nata al seguito di analoghi gruppi di ricerca già collaudati e funzionanti in ambito di Chiese protestanti del centro-nord Europa, notoriamente assai vivaci e pionieristiche in fatto di democrazia educativa e di servizio alla scuola pubblica. Dalla mia iscrizione formale a questi due cenacoli europei – paralleli ma non intercambiabili – ha avuto inizio una ininterrotta ‘militanza’ pluridecennale sul campo, che mi ha tenuto sulla breccia non solo come partecipante alle regolari sessioni periodiche dei due gruppi di ricerca (non meno di una quarantina), tenute di volta in volta in un paese diverso e su temi di riconosciuta attualità, ma spesso anche come relatore o visiting professor in tale o tal altra università (la Cattolica di Lovanio, la Lusitania di Lisbona, le Facoltà teologiche di Lugano e di Bucarest, la Libera università Menéndez Pelayo di Valencia, ecc.), o come consulente nel Bureau du Commissaire aux Droits de l’Homme (Strasburgo, 2000-2008), o come membro del comitato scientifico dell’Enseignement catholique francese (Parigi 2002-2014), o ancora come membro dell’Observatório de la Libertad religiosa in Spagna (Madrid dal 2022), nonché come collaboratore saltuario con centri culturali, con editori, con riviste accademiche. Insomma, una ridda di appuntamenti che mi ha costretto a stare nell’occhio del ciclone o – diciamo così – a ‘ballare’ ininterrottamente sulla ‘graticola europea’ per oltre un quarantennio.

 

Dalla esperienza nelle istituzioni sovranazionali ai progetti di ricerca

In particolare, fu durante il quadriennio della mia presidenza del Forum europeo (2002-2006) che mi trovai cooptato anche come consulente della Intereuropean Commission on Church and School del Consiglio d’Europa, organismo para-politico di ricerca e di indirizzo culturale, interconfessionale nella sua composizione di una quindicina di membri, ma a gestione protestante. Visto che in tutti gli incontri periodici che andavamo organizzando con il Forum, il Leitmotiv era l’immancabile richiesta di una reciproca informazione aggiornata, e di prima mano, sui sistemi educativi dei vari Paesi e in particolare sull’evoluzione dei rispettivi modelli di insegnamento religioso, presi l’iniziativa di raccogliere in una newsletter periodica le news e la bibliografia che mi facevo pervenire dai vari membri del Forum – rappresentavano una buona quindicina di Paesi – per rilanciare poi notizie ed eventi ai quattro angoli d’Europa, e nacque così l’European Religious Education News, o EREnews. Testata digitale trimestrale che ho tenuto viva dal 2003 al 2020, quando l’ho voluta affidare alle cure editoriali del Dipartimento di studi umanistici dell’Università Roma Tre, perché la promuovesse alla dignità di vero e proprio Journal accademico. Il Dipartimento ha accettato di buon grado la sfida, e devo ammettere che l’impegno editoriale di Roma Tre si è svolto lodevolmente dall’inizio 2021 a tutt’oggi. Nel frattempo, specie per soddisfare la domanda di diversi docenti universitari europei già fedeli sottoscrittori della mia precedente newsletter, ho avviato per conto mio il nuovo bollettino di aggiornamento bibliografico Global RE, che tenta di monitorare e selezionare il meglio della produzione critica non solo europea, ma mondiale, in fatto di religious education e di religious studies[7].

Sappiamo che anche nel ventennio delle prestazioni come docente presso l’UPS di Roma non è mai venuto meno il tuo impegno verso la promozione della cultura religiosa nella scuola e nell’università in Europa. Come vedevi ieri, e come vedi oggi, quel problema?

FP – Certo, non posso dimenticare, per esempio, gli incontri biennali di Religions- Pädagogik tra noi italiani dell’UPS e le agguerrite associazioni professionali dei Religious Educationalist tedeschi (DKV e AKK). Incontri di estremo interesse, che permettevano confronti bilaterali tra strutture e strategie educative comparabili, incoraggiavano critiche e autocritiche sulle rispettive epistemologie in teologia catechetica e in pedagogia-didattica della religione, oltre che favorire ovviamente una rete di amicizie e di feconde cooperazioni professionali tra colleghi alla pari. Una joint-venture appassionante, unica nel suo genere, che però, come sappiamo, è stata lasciata cadere purtroppo qualche anno fa, a causa di obiettive difficoltà (in parte economiche) da ambo le parti, e personalmente mi è rincresciuto parecchio perché ho sentito venir meno un prezioso insostituibile ‘ponte’ di transito delle teorie e delle pratiche del sistema tedesco verso il sistema Italia e viceversa. Non possiamo infatti dimenticare il fatto che molte delle nuove legittimazioni cultural-pedagogiche che l’Italia ha adottato per il proprio insegnamento religioso dagli anni ’80 in poi hanno avuto origine e sviluppo grazie anche ai robusti orientamenti e impulsi che non solo le Chiese tedesche, ma soprattutto l’Università statale con l’organico delle sue facoltà di teologia confessionale e i rispettivi curricoli di Religionspädagogik, andavano proponendo fin dall’inizio degli anni ’70.

Mi sembra superfluo ricordare qui che la Pedagogia della Religione intesa come disciplina accademica alla tedesca – e non già come forzoso o compiacente adeguamento della Didattica catechetica all’Ir scolastico, come si è trascinato per lungo tempo in Italia – sia stata e sia tuttora il volano effettivo di tante riforme didattiche, capace di captare i segnali dell’evoluzione dei linguaggi religiosi, di individuare le mutazioni antropologiche delle nuove generazioni, di formare nuove figure di insegnanti competenti nell’intercultura, nell’inter-religiosità, nell’intergenerazionale. Si dirà che anche l’Italia fruisce di strutture universitarie confessionali per promuovere la Pedagogia della religione – l’UPS ne è un esempio d’eccellenza – ma il vantaggio delle facoltà cattoliche e protestanti tedesche è di poter operare in sinergia sistemica dentro strutture accademiche statali, condizione che consente appunto un esigente confronto alla pari, non gerarchico, non strumentale, tra scienze accademiche di diversa natura e finalità.

Ecco, ho riepilogato con questi brevi richiami i miei trascorsi professionali in Europa. Superfluo dire di quanto mi sono avvantaggiato in questi miei itinerari di lavoro in lungo e in largo attraverso il Continente. Il meglio l’ho appreso dalle persone che ho incontrato: colleghi d’insegnamento, esperti di diritto e di politiche educative, testimoni ecumenici delle confessioni cristiane, autorità civili e religiose delle città che ospitavano i nostri convegni. Persone cui devo la prima riconoscenza, anche se i loro volti e i nomi – me ne rincresce – sbiadiscono ormai inesorabilmente anno dopo anno nelle nebbie di un passato che si allontana…

 

Lo sguardo sul presente del Continente

Ma torniamo alla realtà dura e cruda dell’Europa d’oggi: purtroppo, dal febbraio del ‘22, come sappiamo, il trauma di una guerra fratricida scoppiata nel cuore del continente è venuto a infrangere il sogno di un’Europa pacificata, una guerra che nessuno di noi europei occidentali avrebbe potuto immaginare dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dei conflitti interetnici nei Balcani. Si è così riaperta una ferita mortale che spegne brutalmente, speriamo solo temporaneamente, quel sogno wojtyliano di un’Europa “a due polmoni” e di Europa “casa comune”, e che viene a compromettere anche il coraggioso progetto bergogliano di Fratelli tutti nonché la Lettera sulla fratellanza universale, noto come Documento di Abu Dhabi. Presi insieme, questi documenti dovrebbero fungere da magna charta per ogni futuro insegnamento di cultura religiosa in Europa, se è vero che tutte le società europee hanno cessato da tempo di essere mono-confessionali e se è vero che la cultura e l’ethos europei si riconoscono da secoli nelle radici storiche delle tre fedi abramitiche.

 

Che modello di  scuola nel contesto contemporaneo

Il rapporto complesso ma irrinunciabile tra scuola e religione, tra immanenza e trascendenza –  con la perpetua dialettica tra educazione religiosa confessionale e non, tra la conoscenza dei fatti religiosi nelle discipline curricolari e l’istruzione religiosa isolata in un corso a frequenza facoltativa, tra un cattolicesimo italiano in perdita di numeri e una società a tendenza plurireligiosa – storicamente si vede affrontato spesso da noi in chiave ideologica o confessionale, in termini di potere ecclesiastico. Occorre chiedersi di che religione vogliamo parlare. E quali  debbano essere i compiti della scuola pubblica nei confronti dei diritti di libertà religiosa di ogni alunno, nessuno escluso.

Quale attualità ha e può avere quindi nell’agenda mondiale e nell’Europa della laicità e delle religioni plurali, il binomio scuola-religione?

FPPrima di pensare al rapporto bipolare scuola-religione, permettimi di dire anzitutto una parola sul polo scuola in quanto tale. Banale ripeterlo, ma penso che lo specifico della scuola in quanto agenzia educativa della società civile andrebbe meglio riconosciuto e rispettato anche da noi, proprio perché ci diciamo credenti e professionisti dell’educazione. Suo ruolo primario è istruire, o, meglio, è “Educare istruendo”, come titola bene uno degli ultimi suoi libretti l’amico Lino Prenna (Ave, 2022). Sto ribadendo un dato che dovrebbe essere scontato, ma che non lo è in una società come quella italiana che ha nel suo DNA il secolare imprinting del cattolicesimo romano. E nemmeno oggi, con un cattolicesimo diventato minoranza, vediamo segnali seri di un recupero del senso dello Stato, della sua Costituzione, della sua laicità. Al contrario, l’attuale declino della stessa democrazia mi pare sintomo vistoso di una società in perdita di valori primari immanenti, e non solo di quelli trascendenti. In tale contesto la scuola, mi sembra, è comunemente vista da due angolature chiaramente improprie se non devastanti: scuola come succursale asservita strumentalmente al mondo dell’impresa, e scuola come arengo di facile persuasione ideologica in funzione del mainstream del momento.

 

Interrogativi di fondo

Vale ancora accanirsi a insegnare religione in tale scuola? Sì, si può, anzi si deve, ma a condizione di saper contribuire a debellare almeno qualcuna delle tante tare che l’istituzione si porta addosso dal suo passato e rincarate nel suo presente. Non sto a elencare i deficit strutturali del sistema che tutti conosciamo, ma se si accetta di lavorare in quel sistema come titolari di religione, va messa in conto l’implicita corresponsabilità politica ed etica, e non solo didattica, che ci si assume. E allora una delle due: o si lotta, solidalmente con tutto il corpo docente e amministrativo, per risanare il sistema dalle sue derive anti-educative (dall’anonimato burocratico, dall’arrivismo individualistico, dai diritti conculcati delle minoranze culturali e religiose, dalla gestione imprenditoriale o dalla strumentale gerarchizzazione delle discipline curricolari…), o invece, se si resta a scuola solo per salvare il proprio pur legittimo posto di lavoro e il salario, si diventa inevitabilmente complici di una realtà che difficilmente si armonizza con i valori di un Vangelo che poi – ecco la contraddizione! – si pretende di spiegare come documento-base in quello stesso ambiente. In altre parole, insegnare religione a scuola è diventato un lavoro “pericoloso”, in controtendenza, nella misura in cui l’ambiente stesso contraddice oggettivamente, istituzionalmente, quanto ti si chiede di insegnare a parole. Si rischia, cioè, una palese contraddizione in re, e non solo in verbis.

 

Compiti immani per la religione scolastica

Certo, non lo dimentichiamo: la religione va insegnata oggi “nel quadro delle finalità della scuola”. Sacrosanto presupposto più che necessario, ma non sufficiente. Occorre che la forza della cultura religiosa non si limiti al suo pur efficace e dignitoso apporto didattico (il che già non sarebbe poca cosa), ma che la materia e il suo insegnante provochino un impatto olistico (starei per dire un intervento umanitario e sanitario) sulle strutture stesse dell’educazione scolastica nel suo insieme o almeno in qualcuno dei suoi deficit più vistosi. Penso a un Ir scolastico che osi umilmente, ma arditamente, porsi come presidio di un minimo etico discrezionale da salvaguardare sia nei presupposti teorici dell’idea di educazione posta in essere, sia nella qualità del funzionamento istituzionale, delle condotte del personale coinvolto, delle pratiche didattiche. Compito immane, nei confronti del quale l’Idr non può e non deve buttarsi da solo nella mischia come novello don Chisciotte che lotta col vento, ma quanto meno deve saper associarsi con le sinergie dei colleghi delle altre discipline, dell’apparato amministrativo, e tirando in ballo persino il proprio Ordinario che gli dà la patente per insegnare.

A questo proposito: perché mai dev’essere solo quest’ultimo a legittimare l’Idr con un formale benestare curiale, e perché invece non dovrebbe essere altrettanto lecita, e talvolta necessaria, una benvenuta parresia dell’insegnante – da credente e fedele diocesano non cessa di essere cittadino! – nei confronti di un’autorità ecclesiale che ignorasse o transigesse sui deficit dell’ordinamento pubblico? Insomma, l’Idr, e prima di lui il suo vescovo, fino a che punto sono consapevoli di rendersi conniventi e complici nei confronti di un funzionamento antievangelico, o talora persino antiumano, del sistema scuola se la lasciano “indisturbata” nel suo degradarsi? Non sto sognando una impossibile mitica scuola ideale, ma penso solo ai realistici richiami, anzi ai ripetuti imperativi che ci sono pervenuti in tutto il secondo Novecento da profeti della scuola come Illich, Freire, don Milani, Nussbaum, Morin. Cultori dell’educazione e credenti che non hanno ceduto all’ipocrisia di anteporre o sovrapporre fini trascendenti in una agenzia educativa se prima non ne erano strutturalmente garantiti i fini immanenti, costitutivi della qualità umana dello stesso atto educativo. Torna a galla, insomma, quel noto monito delle democrazie costituzionali e, prima ancora, della classica etica cristiana, che recita: “servire la scuola, non servirsene!”

 

  Tra scelta “concordataria” e nuovi orizzonti

Nel dibattito scientifico sia dei giuristi ecclesiasticisti che dei pedagogisti emergono perplessità circa la permanenza dell’istituto concordatario nel nostro sistema educativo. A quaranta anni dalla revisione – in un presente ormai ampiamente secolarizzato, multi-religioso e post-religioso – ci si interroga sulla validità di un’intesa tra le due autorità che si spartiscono diplomaticamente il potere di incidere sull’anima dei cittadini nel momento più delicato della loro minor età. E che dire di un insegnamento legittimato in base all’assunto che i “principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”?

Perciò: quale dovrebbe essere il ruolo da assegnare alla cultura religiosa, senza monopoli ed egemonie superate nei fatti e nelle idee (anche del Magistero), nella ridefinizione del patto di cittadinanza e dell’alleanza educativa tra le generazioni di oggi, e magari, di domani?

FP – Nella risposta precedente ho accennato alla centralità del primo termine del binomio scuola-religione. Vengo ora al secondo, alla cultura religiosa. Parlando di religione in ambito di educazione scolastica, non si può non partire da una distinzione ancora confusa purtroppo in larga parte dell’opinione pubblica italiana, ma diventata ormai fondamentale e imprescindibile nella prassi e nella letteratura scientifica, e persino in quella divulgativa: un conto è l’insegnamento (sia pur oggettivo in chiave culturale) di una singola tradizione religiosa (come l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam, il buddhismo…) o di una  particolare versione di fede vissuta, di tradizione confessionale (come il cattolicesimo, l’anglicanesimo, il sunnismo…); e altro conto è “iniziare alla religione”, o alla lettura del “fatto religioso”, nel senso di alfabetizzare sull’universo dei linguaggi, riti, simboli, codici etici del fenomeno religioso universale. Il primo tipo risente ancora dei criteri storico-geografici territoriali tipici della nascita degli stati nazionali del 7-800, che dovevano vincolare il proprio sistema educativo allo studio della lingua nazionale, della storia nazionale e generalmente anche della confessione cristiana nazionale. L’attuale assetto concordatario praticato in Italia ha privilegiato ancora questo primo profilo tradizionale (di sentore “romantico-ottocentesco” come ebbe a dire il sen. Scoppola), fondandolo su ragioni in parte plausibili ma in parte caduche, considerando anche che certe ragioni tuttora accettabili sono chiaramente esposte alla caducità più o meno prossima. E infatti conosciamo lo scotto che l’Irc sta pagando e pagherà per questa sua scelta di campo.

 

Percorsi  necessari e attuabili della “iniziazione alla religione” 

Il secondo profilo, quello che chiamo “iniziazione alla religione”,  risulterebbe invece, a mio parere, non solo più coerente con il ruolo della scuola pubblica e democratica, non solo più rispettoso della diversità culturale e religiosa della “clientela” scolastica, ma anche pedagogicamente più funzionale e promettente per l’alfabetizzazione religiosa dell’intera generazione crescente. D’altronde, sul versante dell’iniziazione cristiana o del catechismo parrocchiale, la fuga dalla chiesa di oltre tre quarti dei ragazzi all’indomani della cresima, non suggerisce proprio ancora nulla ai responsabili pastorali della chiesa? Entriamo in un tempo (ma già ci siamo in pieno) in cui ci sarà sempre più bisogno di familiarizzare bambini e adolescenti con un alfabeto e una grammatica del comportamento religioso dell’umanità di ieri e di oggi, nel mentre le varie discipline curricolari offrono loro una grammatica della lingua materna, l’abc del sapere matematico e scientifico, l’habitus all’esercizio critico del pensiero, l’abilità motoria e informatica, il gusto creativo dell’arte… Religione, dunque, ancora “fondamento e coronamento dell’istruzione”? Sì, certo, ma a condizione di pensarlo nell’oggi, questo fenomeno ‘religione’, ben oltre cioè il ristretto concetto pseudo-teologico gentiliano ricorrente cent’anni fa, ma oggi divenuto irriconoscibile e impraticabile, perché identificava abusivamente tout-court religione (=genere) con fede cattolica (=specie).

 

Risignificazione non autoreferenziale della “religione”

È infatti avvenuto da tempo, e sta verificandosi rapidamente sotto i nostri occhi, uno spettacolare allargamento semantico del termine ‘religione’. Basti dare uno sguardo al settore ‘religione/religioni’ di una qualsiasi buona libreria; basti consultare i curricoli più aggiornati di studi religiosi delle attuali facoltà teologiche, oppure cliccare il lemma ‘religione’ su qualsiasi motore di ricerca: la constatazione più elementare è che non si contano più le scienze (positive e avalutative) della religione entrate ormai in dialogo necessario con le scienze propriamente teologiche o valutative. Queste ultime non hanno più vita a sé stante e non può mancare loro un sano e doveroso dialogo alla pari, senza più priorità gerarchiche delle une sulle altre. E, se permetti un altro cenno autobiografico, vorrei qui citare una mezza paginetta che ricordo di aver scritto nel mio blog durante i giorni reclusi della pandemia di due anni fa. Mi ero annotato, sotto il termine religione, una dozzina di esperienze atipiche o di episodi che – tra il folcloristico e l’interesse pedagogico – avevo vissuto attraversando meridiani e paralleli del Pianeta in occasione dei miei viaggi culturali in comitiva (organizzati per lo più dalla Queriniana o dalla associazione BIBLIA), o in occasione di interventi a corsi e convegni internazionali. Ecco quella paginetta narrativa:

•In estremo Oriente, all’ingresso di una grande industria di Osaka, alle 8 di mattina, ho assistito al rito della processione di decine di manager e impiegati giapponesi in giacca e cravatta, ma raccolti in silenziosa meditazione: era il normale inizio della loro giornata lavorativa • A Varanasi (Benares), sulle rive del Gange, ho assistito alla cremazione di cadaveri avvolti in bianchi lenzuoli e adagiati su pile di tronchi, mentre, a distanza, vedevo galleggiare altri cadaveri trascinati lentamente dalle schiume super-inquinate del fiume sacro • In quella che fu l’Anatolia centrale, in Cappadocia, mi sono inoltrato negli stretti cunicoli sotterranei per ammirare le chiese scavate nella roccia vulcanica e gli affreschi policromi lasciatici dai cristiani delle prime generazioni • Nel Messico della cultura maya, mi sono affacciato sull’orlo di quel grande pozzo naturale, il Cenote, noto agli archeologi da quando hanno scoperto nel profondo delle sue acque melmose i resti di sacrifici umani di epoca precolombiana • Nella moderna Brasilia del revival neopentecostale, ho visto una folla di “fedeli entusiasti” che entravano in un tempio all’ora del rito: in fila indiana, a passi di danza, a braccia alzate e mormorando invocazioni impercettibili, hanno cominciato a percorrere strani cerchi concentrici disegnati sul pavimento • A Gerusalemme, nonostante gli spintoni della ressa, sono riuscito a entrare nell’edificio del Santo Sepolcro e lasciarmi “affogare” da luci, colori, fumi d’incenso e di ceri, e da quanto di più esorbitante e soffocante può escogitare la plurisecolare devozione sincretista • Nel monastero ortodosso di Voronetz, nell’alta Romania, sono rimasto estasiato di fronte a quel capolavoro di affreschi biblici, che coprono letteralmente le pareti esterne della cappella, méta di continui pellegrinaggi, chiamata a ragione la “Cappella Sistina dell’Oriente” • A Los Angeles sono rimasto impressionato al visitare la lussuosa ultramoderna sede mondiale di Scientology, e analogo effetto mi aveva fatto il grandioso Tempio centrale della Rissho Koseyi-kai a Tokio: per analogia, quasi due nuovi “Vaticani” del XXI secolo, che competono con quello originale di Roma • Come non bastasse, a Yamoussoukro, in mezzo alle foreste della Costa d’Avorio, mi hanno portato a vedere la ricostruzione, o fac-simile in dimensioni reali, della Basilica di S. Pietro inclusa la piazza e il colonnato del Bernini: un ibrido architettonico spettacolare che fa entusiasmare gli uni e rabbrividire altri, me compreso • Ai tempi delle mie discese annuali ad Abidjan, chi mi svegliava al mattino non era il trillo della sveglia, ma la voce del muezzin dall’alto di un minareto distante poche centinaia di metri. E nel percorso quotidiano di soli 10 km in auto tra la residenza comunitaria e il Centro accademico dove tenevo le lezioni, passavo davanti a non meno di una quindicina di diversi templi, chiese, sètte d’ogni tipo e colore •Nei pressi della Alexanderplatz di Berlino, un giorno ho sostato in meditazione silenziosa, insieme a decine di altre persone anonime, nella “Sala del silenzio” dedicata a tutte le fedi e a nessuna in particolare • Finché ultimamente mi è capitato di trovare in libreria Nelle mani di Dio (ed. il Mulino 2021) a firma dell’amico prof. Marco Ventura, dal sottotitolo intrigante ma assai convincente: La super-religione del mondo che verrà. Come dargli torto? mi sono detto. Nulla di eccezionale in questo ‘rosario’ di episodi (e ne avrei altri da rievocare), ma mi si comprenderà se, a forza di lungo andare per il largo mondo, non sono più in grado – al pari di tanti nostri contemporanei – di declinare la parola ‘religione’ come la potevano declinare e vivere, per esempio, i miei nonni e i miei genitori, peraltro cristiani esemplari al loro tempo. Ma torniamo al nostro tema.

 

   Tra antichi assiomi e nuovi valori, oltre il riferimento al “patrimonio storico”

So bene che circola ancora la vecchia obiezione: “conviene insegnare prima la religione in cui si è nati, e poi casomai insegnare le altre religioni”. La mia contro-obiezione è questa: a scuola non si tratta tanto di dare il primato né alla religione di nascita né alle altre religioni. Si tratta invece di “iniziare” (nel senso forte del termine) alla capacità di pensare per simboli (e non solo per concetti e nozioni), di capire la diversità-complementarità dei sistemi di significato esistenziale che sono le religioni (e non solo insegnare uno dei sistemi escludendo altri altrettanto significativi). Questo appunto sarebbe il vero “patrimonio storico” da salvare e promuovere nella scuola di tutti in una società multireligiosa. Il gran parlare oggi di scuola inclusiva è un nuovo patetico flatus vocis se non si prendono sul serio queste premesse elementari.

Quanto poi al cattolicesimo come “patrimonio storico del popolo italiano”, come citavo poc’anzi, va ricordata una cosa nota a tutti: che la cultura italiana, specie quella scolastica e universitaria – complice la riforma Gentile e non solo – resta un po’ malata di storicismo. Sarà anche merito del Pettazzoni e dei suoi epigoni se l’Italia gode del prestigio internazionale di una grande e stimata scuola di Storia delle religioni. Ma conosciamo anche a quali limiti conoscitivi, a quali unilateralità, a quale fatale nozionismo, vada incontro lo studio di quelle materie umanistiche insegnate nella nostra scuola quasi sempre e solo in chiave storica, quali la Letteratura, la Filosofia, l’Arte… In effetti una iniziazione di base alla dimensione religiosa dell’umano può conciliarsi facilmente con approcci di ispirazione simbolica, psicologica, etnologica, linguistica, filosofica, ermeneutica, etica, senza escludere approcci più circoscritti e “regionali” come quello teologico, liturgico, spirituale. Per dire, insomma che, oltre alla supercitata “storia delle religioni” come possibile alternativa al corso confessionale (persino il ministro Profumo, innocuamente, l’aveva ventilata anni fa!), personalmente guarderei anche ad altri approcci possibili.

 

   I nodi dell’insegnamento, il ruolo della formazione di cultura religiosa per gli insegnanti e l’università

Oltretutto, del cattolicesimo come patrimonio storico se ne dovrebbero interessare, per coerenza epistemologica e disciplinare, diverse altre materie curricolari. Ma anche qui inciampiamo subito contro un altro italico deficit della formazione docente: la mancata o carente formazione iniziale accademica alla dimensione religiosa insita nella propria disciplina ‘profana’. Una buona classica scusa di tanti docenti per addossare al solo IdR il compito ‘teologico’ (a volte, purtroppo, solo ideologico) di affrontare temi e problemi che, insiti nei saperi secolari, andrebbero anzitutto trattati con i rispettivi criteri della critica letteraria, dell’analisi storica, della argomentazione filosofica, della lettura artistica. E qui viene a galla l’altro annoso problema, quello dei titolari di prestigiose discipline, anche didatticamente provetti, che ignorano tutto o quasi della dimensione religiosa della propria disciplina, e, d’altro lato, il problema di IdR che sanno solo di religione, nel migliore dei casi. Come si sa, viviamo di un’insana “divisione del lavoro” che fa torto anzitutto alla dignità della cultura religiosa. Si capisce allora come nell’esempio del sistema educativo tedesco non si possa diventare insegnanti di religione se non si dispone almeno di una seconda laurea ‘laica’, e si capisce quanto sia in ritardo l’università italiana che ancor oggi – a parte rarissime isolate eccezioni – non avverte l’ineludibile necessità di includere nell’organico delle sue scienze anche i saperi accademici sulla religione.

Da noi, insomma, si ritiene che vada sempre bene, anzi è prassi imperativa indiscussa, somministrare religione fintanto che l’alunno è ‘in-fante’ (etimologicamente: incapace di parola propria), ma poi, paradossalmente, si stende un velo di silenzio sul fatto religioso quando lo studente, entrato all’università, può diventare capace di pensiero autonomo e critico.

 

   Religione e Scuola: “semper reformandae”

Quale realismo e quale apertura profetica al futuro occorrono, al fine di garantire alle nuove generazioni il diritto di tutti (oltre l’avvalersi e il non-avvalersi) all’istruzione religiosa nel quadro del diritto-dovere umano e costituzionale all’istruzione e formazione? Per il sapere religioso e le sue competenze nel cantiere della scuola pubblica, oltre al miglioramento qualitativo dell’offerta didattica, esistono spazi per sperimentare pratiche didattiche  innovative e alternative più radicali?

FP – In un intervento sul quindicinale Rocca di qualche anno fa, proponevo il superamento di alcune endiadi che hanno finito per ingessare – a volte con fondamento, più spesso abusivamente – quasi tutti i discorsi che si producono in Italia in fatto di Irc. Una delle endiadi è il classico binomio “stato-chiesa”. Lo sappiamo: sono i due poteri istituzionali che si sono accordati, in ossequio a regole diplomatiche, per dare alla scuola una disciplina chiamata Insegnamento della religione cattolica (a rigor di termini, sarebbe stato meno ambiguo e più appropriato chiamarlo Insegnamento sulla religione cattolica). Ma c’è un terzo potere, ignorato purtroppo negli accordi, e che avrebbe invece tutto il diritto di interloquire con le due predette autorità diplomatiche, ed è il potere della scienza, in particolare delle scienze della religione. Ora il soggetto istituzionale dedicato a elaborare scienza, lo sappiamo, è l’Università, sia essa statale o ecclesiastica o libera. Essa è la sede attrezzata e legittimata a sviluppare ricerca, ad analizzare fenomeni, a collaudare metodi, a interpretare testi, a formulare curricoli disciplinari. Nel nostro caso, essa produce quel tipo di saperi alti, teologici e umanistici, a cui si devono ispirare necessariamente i contenuti disciplinari di un curricolo scolastico come nel caso dell’Irc. Il binomio stato-chiesa non può esaurirsi in una formale procedura politico-diplomatica di buon vicinato, perché ne va della qualità e consistenza dei contenuti culturali da insegnare nella materia di cui i due contraenti decidono la funzione cognitiva ed educativa. Stato e Chiesa non possono più ignorare quell’interlocutore decisivo che è l’Autorità accademica, pena sottoscrivere un’intesa che manca dell’avallo della terza insopprimibile competenza.

 

    Regime concordatario controverso e nuove legittimazioni per l’IR

Una futura revisione del concordato? Prima o poi si dovrà pur arrivare anche a quella scadenza, e sperabilmente si dovrà riconoscere l’autorevolezza scientifica degli Studi religiosi, il cui apporto innovativo potrebbe proprio essere quello di disegnare il profilo di una disciplina curricolare in area religiosa che risponda ai requisiti di credibilità accademica e insieme di funzionalità pedagogico-didattica, tali da rendere proponibile tale disciplina alla totalità degli alunni, superando così anche quell’altra discutibile bipolarità – pedagogicamente inaccettabile in una scuola dell’inclusione –di alunni avvalentisi e non avvalentisi. Nelle nostre aule entrano ormai da anni indistintamente alunni bianchi e neri, nativi ed immigrati, battezzati e agnostici: sarà sempre più stridente una norma anomala e divisiva che prevede l’avvalersi o meno del corso di religione. Ci fosse almeno il contrappeso di una seria materia alternativa, ma i troppo saggi giuristi e canonisti della nostra Corte costituzionale hanno decretato che non si può imporre l’obbligo di una materia alternativa quando la religione è materia facoltativa! Una trovata giuridica che lascia allibiti, perché dà il segno che il diritto-dovere all’istruzione religiosa è solo un omaggio gratificante, ad libitum, da prendere o lasciare a discrezione o capriccio di chi se ne vuol servire. Così legiferando, lo Stato italiano (complice la Chiesa cattolica) lancia implicitamente un preciso devastante messaggio: “la cultura religiosa non è un diritto universale – la scuola pubblica non la considera un valore per tutti – restare ignoranti in religione non contraddice l’educazione ai valori della comune cittadinanza…”. Nel resto d’Europa problemi del genere sono stati risolti ragionevolmente da decenni; l’Italia invece, forte della sua “singolare laicità”, ancora una volta ha scelto di fare da sé.

 

  Buone prassi, segni dei tempi nuovi

 Buone pratiche innovative? Ne esistono, anche negli angoli più remoti della Penisola. Conosco insegnanti che, a proprio rischio, sfidano la comoda regola del “si è sempre fatto così”, per tentare vie alternative senza essere eversive. Sono esperienze che nascono fortunatamente in un dato contesto, ma proprio per questo non sono generalmente esportabili in altri ambienti. Tra l’altro, la morte di riviste specializzate che fino ad anni recenti riportavano spesso casi esemplari di buone pratiche della base, non incoraggia un’informazione sul “nuovo che avanza” anche nella scuola di religione, e aggrava anzi la solitudine silenziosa di molti insegnanti. Ma vorrei qui citare, tra tante altre, almeno l’esperienza di un IdR di Parma, che ha pubblicato la sua tesi di master sostenuta all’Istituto di Studi Ecumenici di Venezia, avente per oggetto la sperimentazione pluriennale di un curricolo interreligioso collaudato nelle sue classi di secondaria superiore[8]. Ne raccomanderei volentieri la lettura perché il volumetto è una chiara concreta dimostrazione che, quando inventiva pedagogica e coraggio professionale vanno a braccetto, qualcosa di buono e di ottimo può venire anche dalla scuola di religione delle nostre provincie.

 

   Un vissuto paradigmatico e i suoi riflessi

Ritornando al piano dell’esperienza personale, in un momento di bilanci, alla luce della vocazione pedagogica e culturale di studioso e di “religioso-laico”, per F. Pajer (ispirato al carisma della spiritualità educativa di san G.B. de La Salle), la trattazione sistematica e approfondita dei problemi e dei valori della educazione religiosa hanno esercitato un ruolo costante e  fondamentale.

Che significato ha avuto e può ancora rappresentare questa ricca biografia? Quale contributo (peraltro già pubblicamente riconosciuto) ci si può attendere nell’ area della pedagogia religiosa, in particolare circa il dialogo con le altre culture e confessioni, circa la maturazione della laicità della scuola e della società?

FP – Si sa che non è per nulla facile conservare equidistanza e obbiettività di giudizio quando si è invitati a entrare nel discorso autobiografico. Lascio piuttosto che “parlino” i fatti, prima e più delle parole. Rimando intanto alla serie di vicende biografiche già accennate all’inizio di questa conversazione. Aggiungerei ora un altro dato, forse non indifferente, per contestualizzare un certo taglio ‘secolare’ (o, se si vuole, laico) che ho cercato di evidenziare nelle mie attività, anche quelle di natura religiosa: è la mia affiliazione a una congregazione religiosa canonicamente laicale: nata laicale oltre trecento anni fa e rimasta integralmente tale, nonostante subdoli tentativi esterni anche recenti (alcuni provenienti persino da autorità vaticane!) di introdurre anche da noi la clericatura, magari sul presupposto vetero-teologico dal sapore tutto tridentino che, da preti, gli insegnanti riscuoterebbero maggior impatto educativo (!?). A tal proposito, ci ha pensato piuttosto un certo don Giovanni Bosco, che, 150 anni fa, da cappellano del nostro liceo lasalliano “Collegio S. Giuseppe” di Torino tuttora attivo, si è fatto venire l’idea di fondare lui una congregazione di educatori preti, e, tanto per rincarare la dose, pure il suo successore, il beato don Michele Rua, era stato alunno delle scuole lasalliane torinesi…

Penso dunque che non sia solo per caso che dalla mia originaria vocazione allo stato religioso laicale abbia avuto impulso quel mio spontaneo insistere sulla laicità della scuola, del suo insegnamento, dell’insegnamento della religione compreso. Dirò di più: l’essere teologo e pedagogista non-prete mi ha agevolato non poche volte, sia in Italia che in Europa, un’intesa più facile con persone e istituzioni solitamente aliene dal mondo della chiesa. E poi un tratto che mi è naturalmente consentaneo è il tenermi a debita distanza da quegli apparati istituzionali che non garantiscono la promozione della persona, ma a volte ne mortificano la progettualità e l’inventiva. Mi è capitato così di interrompere impegni di lungo corso presso tale o tal altra istituzione committente (università, o casa editrice, o rivista…), quando la qualità del lavoro e delle relazioni la trovavo maggiormente garantita in contesti alternativi anche se meno prestigiosi. Cito un caso tra altri: quando dopo un ventennio di sano e libero funzionamento del Forum Europeo per l’Ir, il Gruppo fondatore originario, composto statutariamente di studiosi e di docenti specialisti democraticamente cooptati, andava infoltendosi sempre più di chierici funzionari inviati dalle rispettive Conferenze episcopali, quasi a voler controllare ex auctoritate l’operato di docenti e ricercatori, personalmente mi sono sentito in dovere di sottrarmi a una rielezione per un secondo mandato quadriennale alla presidenza del Forum. Senza rimpianti e senza inutili contestazioni, ma solo uno scuotere evangelicamente “la polvere dai calzari”.

Questo mio muovermi elasticamente da un ambiente all’altro, e anche geograficamente da un paese all’altro, penso abbia contribuito non poco a darmi una visione meno ‘provinciale’ dei problemi e delle relative soluzioni da cercare. Il lavorare a lungo gomito a gomito con colleghi europei, per esempio, mi ha aiutato molto a relativizzare i problemi della scuola italiana o a vederli da angolazioni meno scontate. Un certo cosmopolitismo, se non esonera dal rischio di cadere nel dispersivo e nel frammentario, risulta una buona risorsa per lavorare meglio in casa propria. Conoscere un po’ da vicino il puzzle delle diverse laicità europee mi ha convinto a non prendere per oro colato la laicità così come si pretende di difenderla in Italia. Il lavorare nella e per la scuola di stato mi ha sollecitato a impegnarmi di più e meglio anche nella scuola paritaria. Non ho mai messo in scala gerarchica le case editrici che mi chiedevano e mi chiedono contributi di mia competenza, ma mi sono premurato di saggiarne l’affidabilità culturale. Sono stato più che soddisfatto del buon esito dei manuali di religione che mi è capitato di fornire durante più decenni, ma ho anche saputo dire di no a ulteriori inviti, pur allettanti, quando in coscienza mi dicevo che non potevo essere l’autore buono per tutte le stagioni, soprattutto in una materia come la cultura religiosa, quando cambiano la società e la chiesa, cambiano i giovani, cambiano i linguaggi, e non puoi pretendere di indovinare l’approccio giusto ad ogni volger di stagione.

 

    Un triplice invito e la responsabilità degli IdR

Nel volume “Scuola e religione in Italia”, con la consueta parresia, si dichiara di avere percorso il filo di una riflessione pluridecennale con riferimento all’ “evolversi incerto” delle riforme scolastiche, ai “riposizionamenti tattici della Chiesa italiana”, agli “alti e bassi del cammino dell’Irc e degli IdR”, assistendo ai “rapidi cambiamenti culturali e religiosi che hanno investito il Paese”. Gli stessi attuali IdR e quelli in formazione, che si spera possano accedere ora legittimamente alle prove di concorso, vivono la consapevolezza della “incompiutezza” di un processo continuo di cambiamento e di “fragilità” in cui si muove questa professione.

Che messaggio ti senti di lanciare anche per gli IdR, sulla strada che li attende per dare dignità alla cultura e all’educazione religiosa, quali fattori rilevanti di umanizzazione?

FP – Evidentemente, non intendo affatto atteggiarmi ad araldo di proclami altisonanti e nemmeno fare l’eco di quei messaggi ufficiali e ufficiosi che la nostra Conferenza episcopale dirama, almeno annualmente, per incoraggiare l’opinione pubblica ad aderire alla proposta Irc. Il mio vorrebbe essere un semplice modesto triplice invito.

Il primo lo rivolgo a quanti si interessano professionalmente di scuola, in sostanza agli insegnanti di ogni disciplina e agli amministratori, per ricordare loro che la cultura religiosa non è affatto una esclusiva del prof. di religione; che siamo usciti da buon tempo dall’epoca in cui di religione parlava solo il prete o la catechista; che il perimetro semantico di ‘religione’ va ben oltre il solo cattolicesimo e oltre le altre religioni storiche, per attingere oggi tendenze di pensiero post-religioso che vanno dal post-teismo alle visioni non religiose. Per ricordare, in fondo, che l’analfabetismo religioso non è solo quello di chi ignora teologie e catechismi, ma di chi ignora che ogni persona umana in quanto tale, a prescindere da ogni credo, è un soggetto religioso da riconoscere nei suoi diritti, da rispettare nelle sue scelte, da educare nelle sue potenzialità.

Un secondo invito lo proporrei alla “gente di chiesa”, tentata a volte di pensare alla scuola come a un territorio di conquista, dove praticare la parenesi della ‘buona parola’. Gente di chiesa che magari non si interessa affatto di guarire i mali dell’istituzione per avviare processi di risanamento, per realizzare una “buona scuola”, ma che si affretta solo per un proselitismo di corte vedute. Anche la scuola, direi soprattutto la scuola, “non è uno spazio da occupare ma un processo da avviare” (Francesco dixit).

Di conseguenza il terzo invito, che rivolgerei agli insegnanti attuali titolari dell’Irc: l’invito a non programmare più gli alunni, e il loro futuro, a propria immagine e somiglianza. Ogni educatore è sempre pronto a dichiarare che educa per la libertà dell’alunno, compresa quella di coscienza, di pensiero, di religione, ma di fatto scatta anche nel rapporto educativo scolastico un certo “istinto genitoriale” di veder rivivere nei minorenni il bagaglio di valori, di certezze, di stili di vita propri dell’adulto. Il rischio, lo si capisce facilmente, è quello di educare per un mondo e una chiesa che non esistono più. Non credo che la maggioranza degli insegnanti di religione mirino a simile traguardo.

 

   Rapporto con  la visione ermeneutica

Concludiamo la conversazione, tornando all’amicizia e alla collaborazione feconda con il compianto prof. don Zelindo Trenti e la sua “scuola di pensiero” sulla visione ermeneutica, elaborata  nella DEE (Didattica Ermeneutica Esistenziale).

La svolta antropologica ed ermeneutica della ricerca sulla sfera morale-religiosa della formazione umana, quale conforto e riscontro trova negli orientamenti internazionali in merito al rapporto della dimensione etica-spirituale dell’esperienza umana con l’educazione e la scuola?

FP – Pur avendo conosciuto e lavorato per anni accanto a don Zelindo all’UPS (ma lo avevo avuto apprezzato collaboratore a Religione e scuola, negli anni ’80, quando lui era ancora insegnante al liceo salesiano di Pordenone), non posso dire di conoscere a sufficienza i presupposti teorici e le risultanze pedagogico-didattiche della “Scuola” maturata dalla sua riflessione; so qualcosa anche delle successive iniziative portate avanti dai suoi meritevoli epigoni, ma questi contatti episodici non bastano ad autorizzarmi a tentare una valutazione di merito.

Certo, l’opzione ermeneutica è stata e rimane un valido paradigma della pedagogia religiosa fin dal secondo Novecento. È anzitutto in ambito catechetico – sull’onda propiziata, come si sa, dalla svolta antropologica della Teologia – che si è sviluppato un approccio preferenziale ermeneutico nell’educazione della fede. Ricordo come, almeno dagli anni ‘70 in poi, i grandi nomi della catechetica europea insistessero sulla centralità dell’esperienza umana come assioma inaggirabile da cui partire per innestarvi l’annuncio della parola di Dio. Il dilemma che dilagava in quel tempo era: catechesi dell’annuncio o catechesi dell’esperienza? Decisivo risultò l’apporto della Fundamentalkatechetik (1968, tr. It. 1970) del tedesco Hubertus Halbfas. Ho seguito poi più da vicino le vicende dell’evoluzione europea dei vari modelli di insegnamenti scolastici in materia di religione, alcuni dei quali, specie in ambito secolarizzato protestante, hanno decisamente virato su approcci conoscitivi oggettivi assai alieni dal coinvolgere l’identità personale dell’alunno e della sua esperienza religiosa o para-religiosa, sotto pretesto di rispettare in uno spazio pubblico qual è la scuola la doverosa discrezione personale e la privacy.

 

   L’approccio ermeneutico nel panorama internazionale

D’altra parte, provenienti da un ricco passato di riflessione antropologico-pedagogica, non mancano oggi teorie ed esperienze europee che, in qualche misura, possono approssimarsi, se non assimilarsi, alla Scuola ermeneutica ideata da Trenti. Senza poter imbarcarmi qui in una ricerca sistematica, cito solo a memoria qualche nome limitatamente all’area della pedagogia religiosa cattolica, rinviando, se occorre, alle rispettive fonti bibliografiche reperibili in cartaceo se non anche in rete. Nel Belgio fiammingo, uno dei capifila della pedagogia religiosa ermeneutica (Hermeneutic approach and communicative competence, 1998) è il prof. Herman Lombaerts, già professore di antropologia alla Cattolica di Lovanio, e ora, al suo seguito, lavora alla cattedra di teologia pastorale di Lovanio, il prof. Didier Pollefeyt (cf. Hermeneutics and religious education, Leuven University Press). Altro affermato teologo pastoralista, olandese d’origine e di formazione ma docente attualmente all’università tedesca di Bonn, è Bert Roebben, noto per aver ideato, tra l’altro, il neologismo “nartycal catechesis” (o pedagogia della soglia), dove il nartece delle antiche basiliche cristiane è metafora di uno spazio intermedio che permette ai giovani di sostare attivamente all’esterno (analisi antropologica) quale premessa per poter “comprendere” dall’interno l’appello della fede. Fa testo una delle sue opere più complete Seeking Sense in the City. European Perspectives on Religious Education, 2013).

Passando oltre Manica possiamo annotare il nome del prof. Robert Jackson, emerito dell’università di Warwick, principale ideatore e animatore del Warwick RE Project, impostato su tre principi pedagogici chiave: la rappresentazione, l’interpretazione, la riflessività (cf. Religious Education: an Interpretive Approach, 1997), con applicazioni didattiche esemplari collaudate a tre livelli biografici dell’alunno: 5-7 anni, 7-11 anni, 11-14 anni).  Ma spostandoci nel mondo latino, troviamo anche un altro esempio similare nella pedagogia religiosa spagnola, e precisamente nella cosiddetta Educación a la interioridad, che vanta già un nutrito grappolo di pubblicazioni dirette da Carlos Estéban Garcés (Campus Universitario La Salle) e colleghi, e diffuse dalla Editorial PPC di Madrid.

Dopo questa carrellata minima, nulla più che allusiva, ad alcuni cultori o centri europei – ed altri ancora ce ne saranno indubbiamente – che operano su premesse pedagogiche e coordinate didattiche più o meno analoghe a quelle del Cerfee (ERMES Education), l’idea sarebbe quella di veder organizzato in futuro un confronto europeo alla pari tra queste varie ‘scuole’ e i rispettivi leader. Sarebbe l’occasione preziosa di una conoscenza diretta e di un sicuro arricchimento reciproco. Solo un sassolino nello stagno, questo che butto lì, nel caso qualcuno dei Responsabili vedesse praticabile e utile un tentativo di sprovincializzare ed europeizzare le buone pratiche di una plausibile didattica ermeneutica di casa nostra.

PostillaRingrazio l’amico prof. Giorgio Bellieni per avermi offerto questa cortese opportunità, e profitto per estendere un saluto a tutto il gruppo di ricercatori del Cerfee, a cominciare dal prof. Roberto Romio, augurando a ognuno i migliori esiti nelle iniziative in corso e quelle in progetto.

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  N.B. Il presente testo riprende, in forma aggiornata all’1 aprile 2024 e ampliata, l’intervista pubblicata in prima edizione nel n. 3/2022 di Ermes. Su nostro suggerimento, il prof. Pajer – con profondo respiro scientifico e culturale unito all’immediatezza del linguaggio colloquiale – ha accettato di precisare alcuni punti rimasti impliciti nella prima conversazione, e di integrare nel suo discorso taluni rilievi attinenti alla più recente attualità della ricerca pedagogica e della prassi scolastica, tanto in Italia come in Europa. Abbiamo il piacere, tra l’altro, di informare i nostri Lettori che l’intervista originale di due anni fa è stata ripresa e ridiffusa in spagnolo dalla rivista accademica iberoamericana Sinite del Centro Universitario La Salle, Madrid, LXIV (2023), n. 194, pp. 487-507.
   Nel testo i corsivi redazionali, i titoli e sottotitoli, le note, le domande in neretto sono del curatore Giorgio Bellieni; la sigla FP indica  Flavio Pajer.

NOTE

[1] Cf. l’Elenco generale degli scritti in: https://www.lasalliana.it/images/pdf/fp/PAJER-Scritti-e-Bibliografia_ 20220430.pdf  aggiornato al 31.03.2024, sintomaticamente posto sotto la domanda: “Valse la pena? Tutto vale la pena se l’anima non è piccola” (Fernando A. Pessoa). Si segnala inoltre che l’archivio professionale di Flavio Pajer è stato richiesto dall’ASE/Archivio per la Storia dell’Educazione in Italia, dove è in via di allestimento il “Fondo Pajer” che accoglierà e disporrà a consultazione informatica tutta la documentazione relativa agli insegnamenti accademici, alle attività editoriali e associazionistiche, nonché copia di tutte le pubblicazioni. Per info: https://brescia-archivi-biblioteca.unicatt.it/patrimonio/39378cd9-5388-47a4-a749-92f466e8bb62/ase-fondo-pajer-flavio.
[2] Cf. F. Pajer, Dio in programma. Scuola e religioni nell’Europa unita (1957-2017), La Scuola, Brescia 2017, pp. 240.
[3] Cf. F. Pajer, Scuola e Religione in Italia. Quarant’anni di ricerche e dibattiti, Aracne, Roma 2019, pp. 464, con una illustrazione di copertina: Allegoria Scuola-Religione, disegno originale di Margherita Rossi del 2019. L’immagine bifronte, eloquente nella sua bipolarità, ritrae la Repubblica (Italia turrita) e la Religione (particolare di una statua di A. Canova, Basilica di S. Pietro).
[4] Cf. J. Delors et al., Nell’educazione un tesoro, Unesco/Armando, Paris 1996, Roma1997.
[5] Apprendre à être, Unesco, Paris 1972; Rapporto sulle strategie dell’educazione, Armando, Roma 1973.
[6] Riferimento al noto romanzo autobiografico della scrittrice danese Karen Blixen, La mia Africa, tr. it. Feltrinelli 2015, da cui il regista Sydney Pollak ha tratto l’omonimo film (1985).
[7] Il bollettino digitale è rilanciato, oltre che da siti italiani ed europei, anche dal portale dell’Istituto di Catechetica dell’UPS, e può essere ricevuto personalmente mediante libera sottoscrizione su semplice richiesta per email al Redattore: fpajer@lasalle.org.
[8] Cf. Filippo Binini, Pluralismo religioso a scuola: una proposta, Pazzini editore, 2021, pp. 182.
*   Un dettaglio nella copertina: anche la foto di F. Pajer si integra bene nel suo profilo. Proviene dal Cile, anno 2015, scattata da un giornalista nell’atrio della Università di Santiago, dopo l’intervista all’uscita dalla lezione appena tenuta in aula magna…