Intervista con Eraldo Affinati, scrittore ed educatore di nuova umanità

Gli ultimi fatti di cronaca di violenza di genere hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica e del mondo educativo sulla necessità di formare alle buone relazioni i nostri giovani. Una emergenza che il Ministero dell’Istruzione e del Merito vuole arginare con un progetto che dal prossimo anno dovrebbe partire in tutte le scuole secondarie di secondo grado italiane per accompagnare le studentesse e gli studenti a riflettere e maturare buone relazioni.

Ne parliamo con Eraldo Affinati, scrittore e docente, finalista al Premio Strega del 2016 e più volte membro del comitato del MIUR, che ha maturato una profonda esperienza educativa e della realtà dell’immigrazione e della marginalità sociale, grazie anche alla scuola Penny Wirton, fondata insieme alla moglie nel 2008, una scuola gratuita di italiano per immigrati, attualmente presente tra l’Italia e la Svizzera in cui accoglie allievi stranieri di circa 50 nazionalità.

 

L’intervista

Assistiamo ad analfabetismo relazionale che preoccupa: Perché tanti nostri giovani esplodono con atti di violenza e faticano a costruire buone relazioni?

“Ho sempre pensato e scritto che il peggiore dei miei studenti compie un passo in avanti rispetto alla situazione domestica da cui proviene. Con una doverosa precisazione: anche nelle famiglie in apparenza ordinarie, senza degrado di alcun tipo, può esserci un nodo spinoso da sciogliere. Il gesto aggressivo compiuto da un adolescente è come la punta dell’iceberg. Il che non significa negare una predisposizione genetica alla violenza. Tuttavia oggi un quindicenne deve fronteggiare lo scarto fortissimo tra la potenza del suo desiderio (artificialmente elaborato dalla rivoluzione digitale) e i limiti imposti dalla vita sociale. È la prima volta che accade nella storia umana perché le tecnologie disponibili adesso stanno cambiando il nostro rapporto con la realtà”.

È innegabile che qualcosa non ha funzionato nella società che abbiamo costruito: quali sono i punti critici del nostro sistema educativo e cosa si dovrebbe cambiare?

“Due dovrebbero essere le direzioni da prendere. La prima: ripristinare le gerarchie di valore all’interno della grande Rete, indicando ai giovani cosa è importante e cosa non lo è. La seconda: rifondare l’esperienza. Per realizzare questi assunti ci vorrebbero una scuola nuova e degli adulti credibili. Purtroppo l’istruzione è, nella sua struttura di base, ancora cripto-ottocentesca e molti genitori sono spiritualmente troppo fragili per compiere scelte in grado di orientare i loro figli. Ciò nonostante la pianta umana continuerà a crescere, secondo forme per noi imprevedibili, quindi io resto ottimista”.

Lei è un docente ed insieme a sua moglie ha fondato anche una scuola di italiano per immigrati: la scuola in generale e il docente in particolare che cosa possono fare per educare i nostri giovani alle buone relazioni?

“Dovremmo mettere a frutto, attualizzandole, le indicazioni dei grandi educatori del secolo scorso: da John Dewey a Maria Montessori, da Ivan Illich a don Lorenzo Milani. Bisogna avere fiducia, nonostante tutto, nei giovani, partendo sempre dai più difficili e svantaggiati: renderli protagonisti, senza tuttavia lasciarli da soli. La pedagogia dell’autogoverno predicata da monsignor John Patrick Carroll Abbing, da me sperimentata personalmente alla Città dei Ragazzi di Roma, avrebbe ancora tanto da insegnarci. Non dovremmo inventarci chissà cosa, soprattutto noi italiani. Basterebbe ripensare ai piccoli spazzacamini ai quali si rivolgeva il primo don Bosco per capire cosa dovremmo fare: esporci, uscire dalla zona di sicurezza, andare in ‘territorio nemico’”.

La Scuola da sola ce la può fare? Papa Francesco parla di “patto educativo” tra tutti gli agenti formativi: lei cosa ne pensa?

“Papa Francesco ha spesso indicato la necessità di trovare un linguaggio nuovo per esplorare le periferie esistenziali, ma molti di noi preferiscono restare all’interno degli steccati, quali essi siano, istituzionali, religiosi, culturali. È più comodo e meno rischioso. Ma facendo così continueremo a parlare soltanto ai giovani dell’Azione Cattolica, questo non basta: li dovremmo piuttosto mettere in contatto con i loro coetanei provenienti da ogni parte del mondo, come nel nostro piccolo tentiamo di fare alla Penny Wirton. Per riprendere ancora una volta i due personaggi simbolo del priore di Barbiana: Pierino (il bambino ricco e privilegiato) deve parlare con Gianni (non scolarizzato e povero, che oggi si può chiamare Ibrahim o Abdel): se ciò accadesse, entrambi ne ricaverebbero grandi benefici”.

Lei è arrivato finalista al Premio Strega nel 2016 con un testo dedicato a Lorenzo Milani “L’uomo del futuro”: quanto resta attuale l’esperienza educativa di don Milani? Quale eredità ci lascia? 

“Don Milani ci lascia una sfida in gran parte irrisolta: come sacerdote esortandoci ad affiancare alla ‘disciplina dell’arcano’ la qualità della relazione umana, nel solco profondo del cristianesimo; come profeta avendo intuito la rivoluzione antropologica che oggi stiamo vivendo; come maestro, sapendo che “il sapere serve solo per darlo” e tutti noi docenti dovremmo spezzare il pane dell’istruzione; come scrittore, nell’invito a tenere uniti il pensiero all’azione: lui infatti compose sempre lettere, se non avesse avuto un interlocutore al  quale indirizzarle, non avrebbe nemmeno preso la penna in mano”.

 

Paolo Greco