INTERVISTA A S.E.R. mons . Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara – Comacchio e Presidente della Commissione per le Migrazioni della CEI e della Fondazione Migrantes
A causa dell’aumento dei conflitti e di altri fattori come il cambiamento climatico, negli ultimi anni è cresciuto il numero di persone che sono state costrette a lasciare i propri paesi d’origine per cercare migliori condizioni di vita in altri territori. Tutto ciò ha creato, in alcune circostanze, atteggiamenti di paura e di esclusione dei migranti dai confini nazionali, impedendo così la creazione di quella società aperta che “integra tutti” e che si prende cura del “prossimo senza frontiere”. L’arcivescovo di Ferrara – Comacchio, mons. Gian Carlo Perego, Presidente della Commissione per le Migrazioni della CEI,  ci aiuta a capire meglio come “le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo”(FT 40).

 

 L’intervista

Lo spostarsi in diverse zone della terra, soprattutto in condizioni di disagio, è da sempre una prerogativa dell’essere umano al fine di migliorare le proprie condizioni di vita. Quali sono allora, secondo lei, le cause che spingono ancora molti uomini a non essere sensibili a riguardo?
La mobilità umana nel corso della storia ha vissuto contemporaneamente due atteggiamenti: l’ospitalità e la chiusura. L’atteggiamento dell’ospitalità cresce nelle culture nomadiche, che a loro volta hanno spesso sperimentato l’ospitalità. Con l’organizzazione delle città, la difesa delle stesse, la sedentarietà, la proprietà privata e successivamente le nazioni si è via via abbandonato l’atteggiamento dell’ospitalità e si è creata la differenza tra il cittadino e il non cittadino, si è determinata la categoria dello straniero, si sono create le frontiere e alzati i muri. Gli Imperi hanno generato il superamento delle frontiere e la creazione di una prima ‘Società delle nazioni’, con uguali diritti e il rispetto di lingue e culture. Oggi, se sul piano culturale è maturata l’idea e l’Organizzazione di una Società delle Nazioni (ONU), questa non ha superato i nazionalismi, come si può vedere dalla difficoltà di riconoscere non solo la cittadinanza, ma un permesso di soggiorno e di protezione a chi proviene da Paesi in via di sviluppo, provati dalla guerra o da cambiamenti climatici, senza casa o lavoro, in miseria. Il migrante non solo è considerato nella sua diversità – linguistica e culturale – ma è lasciato fuori dalla città, se non serve (per il lavoro e i servizi), sposando culturalmente e politicamente una cultura utilitaristica nella considerazione dell’altro, fino a considerarlo anche un nemico. La mancanza della “cultura dell’incontro” – come richiamato più volte da papa Francesco – è la realtà debole che impedisce di accogliere e valorizzare il migrante.

Papa Francesco nel messaggio per la 108°giornata del migrante e del rifugiato 2022 ha affermato, citando un versetto del profeta Isaia (60,15), che l’arrivo degli stranieri in altri territori è considerato come forma di arricchimento. Potrebbe chiarirci attraverso quali modalità?
E’ a partire da chi è il migrante che papa Francesco afferma che il suo arrivo arricchisce un territorio. Il migrante è una persona, uomo e donna, a ‘immagine e somiglianza di Dio’ con una storia, una cultura, delle capacità; il migrante è normalmente un giovane; il migrante ha una famiglia e costruisce una famiglia o si ricongiunge con una famiglia: e la famiglia è un valore; il migrante è un lavoratore, che manca spesso nei nostri territori- – due milioni e mezzo di lavoratori stranieri in Italia oggi – o per i nostri servizi sociali, turistici, agricoli; il ragazzo e il giovane migrante frequentano le nostre scuole, studiano: 1 milione di studenti dalla scuola materna all’università; il migrante ha un’esperienza di fede e religiosa: in Italia un milione sono cattolici, di diverse nazionalità; un milione e mezzo cristiani ortodossi, trecentomila delle Chiese riformate; un milione mezzo islamici e trecentomila induisti, buddisti, ebrei; il migrante è un fratello o una sorella, con cui costruire un mondo come una fraternità. Come si può negare che tutto questo non sia ricchezza e arricchisca la nostra vita comunitaria?

La Fondazione Migrantes nel presentare il Rapporto d’Asilo del 2022 ha evidenziato un atteggiamento “sdoppiato” dell’Italia e dell’Unione Europea nel campo dell’accoglienza. Sembrerebbe che ci sia una maggiore apertura verso gli ucraini in fuga e una chiusura invece verso esseri umani provenienti da altri luoghi. Quali strategie bisognerebbe adottare per costruire, invece, un futuro di convivenza con tutti i migranti e rifugiati senza nessun tipo di preferenza?
Anzitutto non legare l’accoglienza solo a nostri bisogni e a determinate politiche. Non si può accogliere solo per interesse una persona che è in fuga da guerre, disastri ambientali o altro, non si possono selezionare i rifugiati, anche attraverso lo strumento della lista dei ‘Paesi sicuri’. Il diritto alla protezione internazionale, anche nella nostra Costituzione (cfr. Art. 10), è un diritto personale, che va tutelato incontrando una persona e una sua storia. Nel caso dell’accoglienza degli Ucraini – una accoglienza doverosa per l’aggressione e la guerra in atto – abbiamo assistito all’accoglienza e alla protezione sociale – titolo mai utilizzato dal 2000 per nessun altro migrante – di almeno 3 milioni di persone in Europa, 170.000 in Italia. E perché è avvenuto questo? Per solidarietà dei Paesi dell’Est e dello stesso nostro Paese con un Paese che si desidera faccia parte dell’Europa, con un territorio a difesa di tutta l’Europa e con risorse importanti per l’Europa. Ancora una volta la tutela è stata guidata dagli interessi generali e non nell’interesse della persona. E’ necessario un sistema europeo di protezione – oggi Dublino III – che parta dal diritto personale della protezione internazionale, per costruire un sistema di accoglienza e protezione condiviso e non selettivo in tutti i Paesi europei.

Nei numeri 97 e 98 dell’enciclica “Fratelli Tutti” si fa riferimento a forme di società aperta volte all’integrazione di tutti gli esseri umani. Il Fondo Monetario Internazionale, però, ha ribadito che, se da un lato l’immigrazione accresce lo sviluppo di una nazione, dall’altro “ può anche creare grosse sfide distributive e che i lavoratori autoctoni potrebbero venire danneggiati”. In che modo allora è possibile arrivare a una concertazione senza penalizzare l’una o l’altra parte?
La migrazione non può essere semplicemente subita, ma va governata. Il Papa ha usato quattro verbi che sono la strada, i passi del governo delle migrazioni:
– accogliere, perché l’accoglienza e la relazione, che aiuta a identificare e conoscere una persona, con un’accoglienza diffusa e familiare in tutti gli 8.000 Comuni, è il primo passo fondamentale nel governo delle migrazioni;
– tutelare, cioè riconoscere da subito che alcuni migranti hanno bisogno di protezione: penso alle donne in gravidanza, alle madri sole con i figli, ai minori non accompagnati, alle vittime di tratta, ai richiedenti asilo e protezione internazionale…: è il secondo passo di governo;
– promuovere, cioè valorizzare da subito le capacità dei migranti, attraverso un titolo di soggiorno, che faccia incontrare domanda e offerta di lavoro, che riconosca i titoli dei migranti, che favorisca il ricongiungimento familiare, che eviti dei lunghi mesi di limbo occupati da chi sfrutta e crea contrapposizione salariale: è questo il terzo passo del governo delle migrazioni;
– infine integrare, cioè riconoscersi a vicenda, con le diverse culture e religioni in un modello sociale democratico e costituzionale di rispetto e di tutela e “convivenza delle diversità”, – come affermava anche don Tonino Bello – , di riconoscimento della cittadinanza, a partire dai ragazzi studenti. La società di ieri come oggi non potrà che essere costruita sul meticciato, già in corso con il 25% di nascite di figli da genitori di diverse nazionalità e famiglie miste. E’ importante che questa nuova convivenza avvenga in pace e nella tutela di ciascuna persona. E’ l’ultimo passo del governo delle migrazioni.

Secondo lei, la visione del cristianesimo concepita come “porta aperta” secondo l’interpretazione data dal papa durante il viaggio in Ungheria, potrebbe costituire il trait d’union che permetterebbe un connubio tra il locale e l’universale senza ulteriori degenerazioni e ricadute in estremismi di tipo ideologico?
L’immagine di ‘Porta aperta’ usata dal Papa a Budapest, come anche la non contrapposizione tra accoglienza e natalità, affermazione chiara nell’incontro con gli Stati generali della famiglia, come infine la tutela dei due diritti, di migrare e di vivere nella propria terra, affermata dal Papa nel messaggio per la 109° Giornata mondiale del migrante sono espressioni diverse che aiutano a coniugare locale e universale attorno ai diritti delle persone e alla tutela della dignità di ciascuno. Chiudere la porta significa non incontrare, non generare, non tutelare, ipotecare il futuro: atteggiamenti di morte e non di vita. Chiudere la porta significa non aprirsi al nuovo, non confrontarsi: significa una debolezza sul piano culturale. Chiudere la porta significa non permettere una rigenerazione di una comunità, che avviene solo nello scambio a diversi livelli. Chiudere la porta è morire.

Sempre nell’enciclica “Fratelli Tutti” il papa ha preso spunto dalla figura del poliedro per la costituzione di una società in cui le differenze possano convivere integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda. Crede che le religioni possano essere uno strumento per costruire ponti verso un dialogo fraterno?
L’immagine del poliedro dice bene l’immagine di una società di diversi, dove la diversità diventa più possibilità, più capacità, più età, più culture, dove ognuna offre un apporto diverso alla costruzione della società, con responsabilità. Importante è un ‘ordine’ nella società che sia garantito da una Costituzione, da una carta dei valori in cui tutti si riconoscono responsabilmente. E’ quanto hanno realizzato anche i nostri costituenti nel 1948, che hanno realizzato una nazione su un Paese di regionalismi e hanno valorizzato i regionalismi in un Paese, con la tutela della dignità della persona e di beni comuni. O come hanno realizzato i Padri dell’Europa, costruendo un Paese di nazioni diverse a partire da un Mercato Comune, da una moneta comune, da una libera circolazione delle persone nei 27 Stati, da politiche comuni – come l’asilo – sui fondamenti della giustizia, della libertà, della solidarietà e della sussidiarietà: un cammino solo iniziato. Un Paese, un Europa, ma anche un mondo che chiedono più libertà, anche di movimento, più giustizia, anche economica nei Paesi in via di sviluppo, più cooperazione: fraternità.

Sembra dunque assodato che la scuola e la cultura, in particolare nel contesto temporale attuale, ricoprano un ruolo fondamentale per creare un clima di fraternità tra persone di paesi e culture differenti. Non crede che allora sarà proprio il contributo dei giovani a diventare essenziale per un futuro in cui si possa vivere in pace e come fratelli?        
E’ dimostrato statisticamente che i giovani, gli studenti che hanno più incontri con l’altro proveniente da Paesi e culture diverse, è più accogliente rispetto agli adulti e agli anziani. L’incontro, la conoscenza, l’amicizia – l’amicizia sociale di cui parla anche Papa Francesco nella ‘Fratelli tutti’ – sono le strade per costruire una società nel rispetto della convivenza e di culture differenti. Senza l’incontro e la conoscenza le nostre scelte diventano viziate dagli stereotipi, dai pregiudizi, diventano scelte ideologiche che minano la costruzione di una comunità, generano conflittualità, violenza. I giovani, poi, sono abituati a viaggiare in Paesi, a incontrare e vivere parte del loro tempo anche scolastico – pensiamo ai progetti di studio all’estero negli ultimi anni delle superiori, i viaggi studio o il progetto Erasmus degli universitari, o le borse di ricerca all’estero dei laureati – in diversi Paesi europei e del mondo, incontrando loro stessi le difficoltà di culture e società, ma anche la ricchezza delle stesse. Per questo, al loro ritorno possono aiutare a costruire una cultura dell’incontro e una società accogliente.

Nel film “Invictus” risulta evidente che Nelson Mandela ha considerato il rugby come mezzo per poter riunificare il popolo sudafricano superando la discriminazione tra bianchi e neri. Quanto può incidere lo sport in generale nel creare una società senza barriere e nel pieno rispetto delle differenze?
Pochi considerano come lo Sport, penso ad esempio al calcio, sia il mondo ricco della maggior convivenza di persone proveniente da paesi diversi, ma anche in cui è più facile avere permessi di soggiorno, qualora una squadra desideri avere un giocatore di un’altra nazione. Perché questo? Perché una squadra è più forte non perché ha solo i propri connazionali, ma quando prende i migliori. Abbiamo squadre di calcio con il 78% di giocatori stranieri e tutti le tifiamo. Il mondo sportivo non è un mondo esclusivo, ma inclusivo e nessuno di noi si meraviglia se c’è la libertà di movimento di giocatori, se questo aiuta a vincere. Le regole sono poi le stesse per tutti i giocatori, e questo facilita la costruzione di una squadra, è un fattore inclusivo importante. Credo che l’esempio del mondo sportivo possa aiutare a comprendere il valore aggiunto dei migranti, ma anche a costruire una convivenza comune tra diversi.

Marco Mancini