“La convivialità delle differenze”… una sfida educativa

Il mondo è divenuto un “villaggio globale”, Anthony Giddens così descrisse qualche anno fa il cambiamento che ha preso il nome di “globalizzazione” (cfr. Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino 2000). La globalizzazione riscrive i rapporti tra locale e globale in maniera radicale e la distanza e la vicinanza acquista un nuovo significato e con essi anche le relazioni tra individui e società, come ha puntualmente osservato il sociologo polacco Zygmunt Bauman, creatore della categoria sociologica “società liquidità”, con cui ha descritto la
decomposizione e la ricomposizione dell’esperienza individuale e le relazioni sociali marcate da incertezza, fluidità e volatilità (cfr. Modernità liquida, Laterza 2002).

In tale contesto in questi ultimi anni particolarmente, se da una parte si manifesta una grande apertura e interesse verso le altre culture e i popoli lontani, perlopiù per i paesi esotici meta di turismo e di conquista dei nuovi mercati, dall’altra ha visto aumentare i conflitti, esasperare i toni della confronto, registrando una preoccupante crescita dell’aggressività, unitamente ad atteggiamenti razzisti, infatti come ha affermato anche papa Francesco “accanto a tante esperienze di solidarietà e fraternità, prendono slancio anche nuove forme di nazionalismo, xenofobia, ostilità e guerre” (Cfr. Messaggio per la 54ª Giornata Mondiale della Pace 1 gennaio 2021).

Siamo diventati più bellicosi, si comincia dalle parole per poi finire ai fatti, con gesti di una violenza inaudita spesse volte, lo conferma anche la cronaca quotidiana registrando tra gli adolescenti una crescita di cieca brutalità e di bullismo. Non riusciamo più a dialogare pacatamente e con serenità, le posizioni si irrigidiscono e la politica fatica a mediare tra le parti, anzi spesso alimenta lo scontro e l’esasperazione. Assistiamo a schermaglie continue dove si mostrano i muscoli e la pratica aggressiva pare l’unica soluzione ai problemi. All’uso delle parole si predilige la forza dei pugni, su più larga scala l’utilizzo dei missili prevale sul dialogo. La convivenza pacifica si fa sempre più fragile, un prezioso dono da custodire e da costruire che richiede un impegno paziente e lungimiranza.

Un mondo in conflitto

Si assiste ad un ritorno al passato dal rigurgito nazionalista e securitario, dove si polarizzano le differenze, quale garanzia di una vita meno esposta all’altro, alle vulnerabilità della storia, in questi giorni segnata da maggiori incertezze e vischiosità che sembrano avvolgere ogni cosa, la società, la terra, la politica, l’economia, la scienza, la stessa esistenza umana è più fragile, nonostante i tanti strumenti a nostra disposizione per una vita buona e pacifica, si palesano nuove ansie e angosce e spingono ad assumere un atteggiamento di difesa e di chiusura rispetto a ciò che viene considerato come un nemico.

Il mondo è in guerra, nello Yemen, in Siria, in Iraq e in Libia, tra le tante guerre presenti del mondo, se ne contano trentanove in pieno svolgimento, a cui si aggiunge anche il conflitto in Ucraina con la Russia che nel febbraio del 2022 ha iniziato l’offensiva militare invadendo il territorio ucraino, violando di fatto il diritto internazionale, e generando così una brusca escalation del conflitto russo-ucraino in corso dal 2014. Cristiani orientali contro cristiani occidentali che ha fatto riaffiorare nell’opinione pubblica una nuova riflessione sul legame tra le religioni e la guerra.
Accade ancora, nel mondo contemporaneo si strumentalizza il sentimento religioso per sostenere le azioni deplorevoli di un attacco militare, si usa finanche il nome di Dio per giustificare la violenza come accaduto negli anni scorsi con l’Isis, il movimento terrorista di matrice islamista, in Afganistan con i Talebani, in Nigeria con il gruppo armato di Boko Haram, in India del nord est per mano dei fondamentalismi induisti, solo per citarne alcuni.

Il combattimento armato in Ucraina poi ha fatto molto riflettere, alla vista dei simboli cristiani sulle tute e sui mezzi militari degli eserciti in campo, se da una parte lasciano esterrefatti, dall’altro raccontano, come ha affermato lo storico e il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi “il fallimento del dialogo ecumenico” (Cfr. Avvenire.it, 5 marzo 2022) e più ancora come ha ammesso il Cardinale Hollerich “il fallimento del cristianesimo” (cfr. Agensir.it, 8 Aprile 2022) che non riesce a porsi tra fratelli della stessa fede, come la reale alternativa all’uso delle armi e la concreta via per costruire la pace. A mettere ancora di più la questione al centro è stato un intervento molto discusso del Patriarca di Mosca Kirill, che ha legittimato l’attacco militare con motivazioni religiose.
Lo ha sostenuto anche Alexandr Dugin, l’ideologo ritenuto vicino a Putin dichiarando che Mosca deve creare un impero da opporre all’Occidente, corrotto e vizioso. La rilevanza è data anche dalla scelta del presidente russo, Vladimir Putin, di citare il Vangelo secondo Giovanni nel suo famoso discorso all’adunata per la vittoria che ha avuto luogo nei giorni scorsi a Mosca. Mentre da Roma papa Francesco ha richiamato tutti a non usare il nome di Dio per questioni politiche e militari. Invece il Presidente degli Stati Uniti Biden, in visita alle truppe americane di stanza in Polonia, ha citato le parole di papa Giovanni Paolo II, “non abbiate paura” incitando alla vittoria.

Gli interrogativi dunque sono attuali e assumono un significato del tutto nuovo che pure ha visto compiere dei grandi passi in avanti nel dialogo ecumenico e tra le diverse religioni del mondo come abbiamo potuto constatare nei progressi ottenuti nel dialogo con l’Islam, che di fatto ha messo un argine alla deriva fondamentalista e integralista. Si constata un ritorno nella società globale delle religioni, le quali assumono sempre di più un ruolo importante, in particolare nel contributo che offrono all’edificazione della pace tra i popoli, non solo quale appello civico ma come esigenza propria della fedeltà a quel Dio della Pace che le religioni tutte, e in particolare che le religioni monoteiste professano.

L’opzione di Papa Francesco

Nell’assuefazione quasi generale di una società, che tranne qualche rara voce fuori dal coro, si è abituata alla guerra e fatica a parlare di pace, papa Francesco intervenendo alla plenaria del Dicastero dedicato al rapporto con le altre fedi, ma non smette di ripeterlo in ogni occasione possibile, invita a considerare che nella violenza distruttiva e nell’indifferenza c’è sempre l’opzione della “convivialità delle differenze” per raggiungere la fraternità e costruire un futuro migliore (Plenaria dei membri e consultori del Dicastero per il Dialogo Interreligioso, 8 giugno Roma, sul tema “Dialogo interreligioso e convivialità”).

Un invito che appare per molti una nota stonata e tuttavia rimanda ad un atto rivoluzionario, quello di “immaginare e costruire un futuro felice con l’altro”. Qualcosa possibile e non di utopico. Si tratta di una convinzione che nasce dal mistero stesso di Dio Trinità che nella differenza dei tre trova l’unita e costruisce nel rispetto delle differenze la comunione. Pratica resa visibile nell’opera di Gesù di Nazareth, colui che ha fraternizzato con tutti, ha incontrato e frequentato persone considerate peccatrici e impure senza pregiudizi, misurandone l’appartenenza sociale o il conto in banca, ed ha condiviso senza preclusioni la tavola dei pubblicani, mostrandosi sempre come quel prossimo che non è passato oltre l’altro ma vi si è relazionato amorevolmente.

La “convivialità delle differenze” non è da cogliere semplicisticamente come uno slogan e un bel concetto astratto, bensì ha una rilevanza politica, in quanto alternativa possibile alla frammentazione sociale e al conflitto che sta intossicando le relazioni sociali e mondiali. Si tratta di una pratica dell’amore politico che prima di ogni cosa invita a “smilitarizzare il cuore” e togliere la “maschera del nemico che abbiamo messo all’altro” per riscoprirsi tutti “creature di Dio” e in definitiva tutti “Fratelli” come insiste papa Francesco nell’enciclica sociale Laudati sii e Fratelli tutti. Ma che cosa è in concreto questa convivialità? Di cosa si tratta? In che cosa consiste?

Qui ci viene in soccorso quanto già sosteneva il vescovo “Santo” di Molfetta don Tonino Bello, un profeta dei nostri giorni, il quale sosteneva che la convivialità è: “È mangiare il pane insieme con gli altri, senza separarsi.  E l’altro è un volto da scoprire, da contemplare, da togliere dalle nebbie dell’omologazione, dell’appiattimento. Un volto da contemplare, da guardare e da accarezzare. E la carezza è un dono. La carezza non è mai un prendere per portare a sé, è sempre un dare. E la pace cos’è? È convivialità delle differenze. È mettersi a sedere alla stessa tavola fra persone diverse, che noi siamo chiamati a servire” (Tonino Bello, Pensieri e parole, Paoline 2013).

Per ri-educarsi all’altro… recuperare la filosofia “personalista”

Nella società dei conflitti è estremamente urgente aprire processi di crescita e percorsi educativi che aiutino principalmente i giovani ad educarsi all’altro e alla cultura della pace, fondata sull’accoglienza delle diversità, il dialogo e la cooperazione contro l’egoismo e l’opposizione, il conflitto e l’inimicizia. Educarsi all’altro esige riconoscere prima di tutto il volto, la persona che ho di fronte, la stessa Sacra Scrittura sostiene nel libro dei Proverbi: “Come nell’acqua un volto riflette, così il cuore dell’uomo si riflette nell’altro” (Pv 27,19). L’altro non è un nemico ma lo specchio dove si riflette il nostro stesso volto, quello che non riusciamo a vedere se ci guardassimo da soli allo specchio di casa nostra, scoprendoci cosi “immagine e somiglianza di Dio” (Cfr. Gn 1,26-27).

Lo scrittore Ryszard Kapuscinski nel famoso testo L’altro edito dalla Feltrinelli, (2015) che ha trascorso molto tempo in mezzo agli altri, i più lontani da cui ha appreso tanto, ha sostenuto in sintesi che l’incontro con l’altro è un’esperienza universale e fondamentale per il genere umano perché ha consentito agli esseri umani, evidentemente con tutti i rischi che questo comporta, di comprendere non solo altre esistenze, altri saperi e conoscenze, altri mondi, ma soprattutto di conoscere meglio sé stessi.

Secondo la prospettiva personalista il filosofo Paul Ricoeur nell’altro avverte l’interpellanza verso il proprio “io”, quale mediazione del “sé” rispetto all’immediatezza “dell’altro”: un incontro in cui si avverte il primato etico del “tu”, l’appello di mobilitarsi in suo favore. È proprio questo “sé”, che Ricoeur chiama “ipseità”, quale disposizione a percorrere fino in fondo il cammino del “riconoscimento” e dell’accoglienza dell’altro, che dice l’identità dell’essere umano che si afferma nel continuo intrecciarsi della relazione tra “l’io e il tu” e richiama la radicale responsabilità che “io ho per gli altri”. Allargando la prospettiva, il rapporto interpersonale “Io-Tu” nell’analisi del filosofo ebreo Martin Buber conduce alla dimensione verticale, a quel Dio quale “Tu assoluto” che traspare nelle relazioni e possiamo conoscere.

A tale riguardo Emmanuel Lévinas, che insieme a Martin Buber, Franz Rosenzweig e Gabriel Marcel, facevano parte della corrente di pensiero “dell’altro”, invita a vedere l’altro accanto a noi, il diverso, e non passare oltre, ma a fermarsi per incontrarlo, parlargli e accoglierlo. La “filosofia del volto” da lui ideata pone il primato del bene, quale evento fondamentale, il limite estremo dell’esperienza umana, l’origine dei valori e strada anche per l’epifania di Dio. Quale appello radicale alla responsabilità dell’altro. La parola responsabilità viene qui ad essere impiegata dall’autore lituano di origini ebraiche, come il nome severo dell’amore, fatto di quel sentimento senza concupiscenza e senza reciprocità, che qualche modo esprime una relazione irreversibile.

In tale prospettiva, come ho avuto modo di affermare anche in qualche altro mio scritto, l’altro pur essendo un altro da me, mi interroga, mi visita, in quanto una presenza che diviene anche un appello non differibile che si esplica nella domanda “Dov’è tuo fratello?” (Gn 4,9) e nell’imperativo “Non uccidere” (Es 20,13). Ancora Emmanuel Levinas sostiene che soltanto a partire dalla relazione con l’altro nell’accezione del volto, il luogo dove ci diamo del “tu” possiamo riconoscerci reciprocamente come soggetti, come “io” che hanno dignità assoluta e non come “oggetti” manipolabili e dominabili. Si offre qui a ciascuno una chiamata alla responsabilità di instaurare una relazione che si estende anche a tutti gli altri di cui siamo prossimi. I due pensatori anche se in modi diversi, affermano che è la fraternità che fonda l’uguaglianza e la libertà, infatti entrambi pongono la questione non solo dell’altro di fronte a me, ma soprattutto dell’altro in me, che sostiene il riconoscimento di sé stessi nell’altro e mediante l’altro e rimuove le pulsione egocentriche ed autoreferenziali a favore della prossimità che trova nella prassi della cura dell’altro il più vero e più nobile sentimento, ciò che fa dell’uomo un uomo capace di umanità (cfr. Abitare le fragilità. L’ermeneutica esistenziale come risposta alla paura dei tempi, ELLEDICI 2018).

Pratiche di educazione all’altro

Per educarci all’altro è necessario andare alla scoperta dell’altro, non quale minaccia alla nostra identità e sicurezza, bensì in quanto portatore di un valore e di una risorsa, non da sfruttare, bensì come valore in sé, una persona pari nella dignità, non semplicemente da tollerare per una sudditanza, dell’uno rispetto all’altro e nel dominio dell’uno sull’altro, ma come riconoscimento nell’unica fraternità umana dove tutti siamo cittadini della casa comune. Certamente l’incontro con l’altro non si offre senza qualche spinosità e fatica, afferma il gesuita filosofo della scienza Michel de Certeau, molto interessato all’antropologia culturale e religiosa, che se è vero che non è concepibile la vita dell’uomo senza l’altro e altrettanto vero che non si dà la comunione con l’altro senza il “conflitto” dato dall’alterità, che resta sempre tale e mai riducibile a qualcos’altro o a qualcun’altro, per cui porta con sé le sue necessità, i bisogni e questo può creare inevitabilmente delle problematicità (cfr. Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, Qiqajon 1993).

Di fatto come ci conferma l’esperienza quotidiana della vita l’incontro con l’altro quando è vero incontro fa anche male, non si tratta di una pratica romantica e sentimentale di facciata, peraltro sterile, ma implica inizialmente, almeno che non ci sia una rara simpatia d’impatto, una sorta di conflittualità, solo allora prendiamo realmente coscienza dell’altro in quanto altra persona da noi e possiamo superare la tentazione di separarci dall’altro imparando in un rapporto graduale, anche se faticoso, di conoscenza ad accettare l’altro nel suo mistero più profondo e al contempo nella sua enigmaticità, di chi ci appare come straniero che viene da lontano e non solo come estraneo uno sconosciuto, come sostiene Enzo Bianchi ci conduce a prendere atto anche della nostra “stranierità” e “estraneità”, per giungere solo alla fine anche a lottare insieme all’altro e per l’altro, non più straniero e né estraneo, e compiere la reale comunione con l’altro.

Illuminante in questo senso è la fantastica storia di Luis Sepulveda Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (2017), perché ci aiuta a comprendere meglio di qualsiasi teoria come rieducarsi all’altro. Kengah una gabbiana oramai allo stremo, con le ultime forze depone l’uovo che porta in grembo, è tutto quello che può fare prima di esalare il suo ultimo respiro sotto la coltre di petrolio che l’ha ferita: affidare ad un estraneo, il gatto Zorba, la sua creatura nascente. Prima però chiede tre promesse a cui Zorba cedette: “di non mangiare l’uovo”; di “prenderti cura dell’uovo finché non sarà nato il piccolo”; che “gli insegnerai a volare”. Ottenuto il consenso, rotolò fuori l’ovetto bianco con delle macchioline azzurre accanto al suo corpo della madre. Da qui nasce una vicenda entusiasmante di un gatto e i suoi strani amici ed una gabbianella, fatta di iniziale indifferenza e incomprensione, scoperta e conoscenza, fatica di comprendere la lingua dell’altro e affetto tra esseri completamenti diversi, infine lottare tutti per l’unico scopo, insegnare alla piccola gabbianella a prendere il volo. Impresa impossibile per una banda sconclusionata di gatti, esperti equilibristi ma non confacenti al volare. Ma possibile a chi ha imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. Si tratta di un faticoso e meraviglioso processo, di un abbraccio, un abbandono della propria punteggiatura potremmo dire, di quella costante mentale che ci fa vedere il mondo soltanto secondo un’unica ottica: la nostra e aprirsi all’altro realmente.

Agire… “Io sono l’altro”

Lo ha cantato anche Niccolò Fabi il noto cantautore, in un testo musicale contenuto nell’Album Tradizione e Tradimento (2019) dove ha provato a mettersi nei panni dell’altro: “Io sono l’altro sono quello che spaventa/sono quello che ti dorme nella stanza accanto./Io sono l’altro puoi trovarmi nello specchio/la tua immagine riflessa, il contrario di te stesso […] Quello che dorme sui cartoni alla stazione/sono il nero sul barcone, sono quello che ti sembra più sereno perché è nato fortunato o solo perché ha vent’anni in meno./ Quelli che vedi sono solo i miei vestiti adesso facci un giro e poi mi dici” (Io sono l’altro).

L’empatia è il medium, lo strumento che ci permette di capire che il “diverso” che sta di fronte a noi altro non è che la nostra immagine riflessa, ha dichiarato in una intervista Fabi. Certo, fare propria questa prospettiva in una società che fomento l’odio e sullo straniero costruisce il suo consenso fa paura, però dobbiamo aprire gli occhi e aprirci all’altro, perché l’altro siamo noi, perché siamo tutti fratelli, siamo tutti sotto lo stesso cielo come ha affermato l’ex astronauta italiano Paolo Nespoli: “dallo spazio non si vedono confini, l’unico è l’atmosfera”.

Proprio così, anche se l’assenza dei confini scatenerebbe il caos, l’anarchia e disordine per alcuni, ma la linea di un territorio segna non solo la chiusura, ma anche l’entrata, l’accoglienza dell’altro, dipende da come lo si vuole interpretare. Oggi è necessario riacquistare uno sguardo empatico, capace di prevenire le reali e profonde esigenze dell’altro, agendo concretamente affinché l’altro possa realizzare pienamente sé stessa, cosa possibile soltanto se insieme all’altro, nel “noi”. Se ogni persona si sforzasse di farsi carico della fragilità altrui, mettendosi a fianco delle difficoltà altrui e assumendo le esigenze dell’altro, potremmo sicuramente riprendere il volo.

Paolo Greco