Le varie proposte politiche con le quali si è cercato nel tempo di porre fine alle povertà e alle indigenze nel mondo, non solo hanno mostrato tutti i propri limiti, ma hanno persino messo in contrasto gli uomini tra loro, accrescendo in più di qualche occasione un clima di odio e di violenza. E’ necessario, dunque, un cambio di paradigma volto a creare un equilibrio economico mondiale più giusto mediante “ una umanizzazione dei meccanismi della globalizzazione”. Don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI, ci illustra quali potrebbero essere le soluzioni per “un’economia e una finanza al servizio dell’uomo”

 

L’intervista 

 

Potrebbe spiegarci i motivi per cui anche le questioni di tipo economico rientrano nell’ambito del magistero sociale della chiesa? 

Il magistero sociale della chiesa accoglie la sfida di far incontrare il vangelo e la storia. Tra le preoccupazioni che l’insegnamento ecclesiale ha avuto, un posto centrale è riservato all’economia. Ogni scelta in campo economico, infatti, rivela un’antropologia sottostante e criteri etici di riferimento. Basti pensare agli investimenti finanziari, al valore del credito, all’affidabilità di un’impresa, alla capacità di costruire il bene comune tramite scelte economiche. Si può costruire fraternità oppure divisione. Giustizia o ingiustizia. Uguaglianza e disuguaglianza. Le decisioni in economia non sono mai neutre: possono rafforzare legami sociali oppure emarginare. In questo senso, la preoccupazione del magistero sociale è che l’economia sia inclusiva e che nessuno sia schiavizzato da un modello sociale elitario o ingiusto. Perciò gli interventi del papa affondano le loro radici nella volontà di accompagnare i processi di trasformazione dell’economia.

Cosa si intende per “darwinismo economico” e quali danni questo sistema potrebbe arrecare alla società attuale impedendone un sano sviluppo?

Il darwinismo economico si sostiene sul principio della sopravvivenza dei migliori. Finisce per avere un impatto sociale. Talvolta ha in sottofondo una visione sbagliata del merito, quasi che i meritevoli abbiano ricevuto doni straordinari dall’alto. In realtà, la riuscita economica dipende da molti fattori, e in primo luogo dal punto di partenza in cui uno si trova. Il danno di una simile visione è sotto i nostri occhi. Papa Francesco ha coniato l’espressione: «questa economia uccide» (eg 53). C’è un’economia che uccide se non sostiene chi si trova in condizioni di maggiore difficoltà e disagio. Un sano sviluppo si preoccupa di offrire possibilità per tutti e non parte dal principio della concorrenza spietata che deve eliminare l’altro per affermarsi. L’esclusiva logica del profitto conosce questo grande limite. Il principio di fondo è sintetizzato nel motto: «mors tua, vita mea». Andrebbe trasformato in «vita tua, vita mea». Il principio fraterno e cooperativo è in realtà vincente in campo economico rispetto a quello della concorrenza che scarta e emargina. Nonostante questo, ci ostiniamo a percorrere strade senza uscita. Perché?

Prendendo spunto da quanto papa Francesco ha scritto al n.55 di Evangelii Gaudium, anche lei ravvisa nell’attuale crisi finanziaria una profonda crisi antropologica?

La crisi antropologica la avvertiamo all’interno della cultura dello scarto. Si ritiene di poter eliminare qualcuno perché differente come stile e come metodo di produzione. Una visione utilitaristica dell’uomo e della donna impoveriscono la vita sociale. L’uomo non vale per quello che fa o per la quantità di cose che consuma, ma per ciò che è, per le relazioni che è in grado di promuovere, per i doni di cui è portatore nella comunità di vita. La recente crisi finanziaria ha reso consapevoli della distanza di una certa finanza dall’economia reale, con tutte le conseguenze drammatiche del caso. C’è bisogno di una cultura della cura che riscriva le coordinate dell’economia dal punto di vista antropologico. Papa Francesco fa notare che certi modelli economici sono idolatrici: non mettono la persona al centro, ma se ne servono per i loro interessi privati. Il consumismo è l’esito peggiore di questa mentalità. 

In che modo l’economia potrebbe essere orientata al bene comune come parte di un progetto politico, sociale e culturale?

L’economia viene orientata al bene comune solo se l’azione di chi la promuove sa pensarsi in comunità. Il modello del bene comune come semplice somma dei beni individuali ha mostrato tutta la sua inconsistenza. Ognuno pensa di salvarsi da solo. In realtà, anche in campo economico, come in ogni ambito sociale, non si può esultare per un risultato positivo individuale se tutti intorno stanno male, soffrono o peggiorano la loro condizione. Prima o poi, la condizione degli altri, in un mondo globalizzato, finisce per avere un impatto sulla propria vita. Davvero, «tutto è connesso», come ricorda Laudato si’. Lo stato di salute dell’economia dipende dallo stato di salute della democrazia, dell’ecologia, dei sindacati, della scolarizzazione, della vita sociale, della famiglia… Ogni netta separazione è dannosa.

 Come secondo lei è possibile mettere in atto nei paesi opulenti dell’Europa l’opzione preferenziale per i poveri, prendendone le distanze, come ha tenuto a precisare papa Francesco, da una interpretazione in chiave politica e ideologica?

L’opzione preferenziale dei poveri è categoria teologica, prima ancora che culturale, politica o sociologica. Il riferimento biblico è imprescindibile per capire la portata di questa espressione. Tale presupposto, ben definito da papa francesco in evangelii gaudium 198, fa capire come l’opzione preferenziale dei poveri sia anche un metodo di formazione sociale. Se si incomincia a considerare i poveri, gli ultimi, gli emarginati, gli scartati, i reietti… parte integrante di un progetto di vita, allora significa che davvero c’è posto per tutti. È il modo migliore per confermare e promuovere il principio cardine della centralità della persona nell’insegnamento sociale della chiesa. La presenza del povero è rivelazione esistenziale e antropologica: esprime la fragilità come parte costitutiva della vita umana. Per questo i poveri evangelizzano con la loro semplice presenza, diventano appello alla conversione e stimolano al principio della condivisione universale dei beni. Il pontefice ci ricorda che «siamo chiamati a scoprire cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che dio vuole comunicarci attraverso di loro». Davvero, ci attende una vera conversione.

Perché il santo padre, mediante il progetto Economy of Francesco, ha voluto rivolgersi proprio ai giovani per cambiare e migliorare un sistema complesso come quello economico?

Lo sguardo ai giovani è frutto di un investimento educativo e formativo sul futuro. È difficile, infatti, che chi ha promosso il modello economico «che uccide» ed esclude possa pensare qualcosa di meglio. Il rischio è di finire nella ripetizione dell’errore, di assistere all’eterno «già visto». I giovani si stanno rendendo conto che qualcosa non ha funzionato, se non altro dal punto di vista dell’impatto ambientale di un’economia di quantità ma non di qualità. A partire dalla loro creatività e libertà di pensare un domani diverso, si comprende l’appello incarnato dall’iniziativa di Economy of Francesco. Per rendersi conto della sua portata, basterebbe rileggere gli interventi del papa nei vari appuntamenti di economy: si ha un quadro compiuto di un modello economico alternativo a quello mainstream. Certo, siamo ancora al punto di partenza, ma organizzare i giovani e favorire la loro fecondità sociale è compito irrinunciabile per la chiesa. Ne è della sua vocazione storica e della sua fedeltà al vangelo di cristo. È in gioco la sua credibilità.

Le scuole e le università possono contribuire a far emergere nei giovani un “capitale spirituale” che vada a colmare quelle lacune determinate dai capitali finanziari e tecnologici?

Le scuole e le università rappresentano un capitale straordinario. Fanno cultura, tessono reti: la loro presenza su un territorio fa la differenza. Sono un investimento. Tutti conosciamo le fatiche e le difficoltà in cui si trova l’università nel nostro paese. Tuttavia, come accade in ogni parte del mondo, la scolarizzazione e la cultura favoriscono uno sguardo diverso sul futuro. Abbiamo bisogno di investire in ricerca scientifica e in tecnologia, soprattutto guardando alle transizioni digitale ed ecologica in cui ci troviamo, ma c’è anche la necessità di dare spessore umano all’attività lavorativa. Uno dei capitoli più importanti da considerare è il rapporto tra la formazione continua e il lavoro. Oggi i luoghi di cultura non devono solo offrire strumenti, ma un metodo. Una mente aperta e resiliente è molto più preziosa di una mente chiusa e saccente. La cultura richiede tempo, energie, risorse, ricerca, applicazione… cosa sempre più difficile in una stagione in cui tutto avviene velocemente. Anche in questo campo c’è bisogno di lentezza (slow) a scapito della velocità (fast): solo così ci si attrezza a guidare le transizioni e non a rincorrerle.

 Marco Mancini