Mentre gli adulti giocano a fare la guerra, i bambini giocano a sdrammatizzarla

Quando le testate giornalistiche nazionali, nella prima mattinata di mercoledì 24 febbraio, hanno diffuso la notizia che l’esercito russo stava iniziando l’offensiva militare in territorio ucraino, quasi a nessuno sembrava poter essere vero. Ormai si pensava che, soprattutto in Europa,  fare ricorso alla guerra per risolvere le controversie politiche internazionali fosse impensabile. Ma, purtroppo, la memoria storica evidentemente non viene ancora considerata come valido strumento pedagogico a cui attingere per non commettere più gli errori del passato. In effetti, nel contesto temporale attuale, la guerra, credevamo fosse semplicemente ridotta a un gioco da tavolo, in particolare il Risiko. Ciò che è avvenuto nelle ultime settimane dimostra però che non è proprio così. A fare la guerra in realtà si sta giocando, ma, invece che utilizzare dei dadi e dei piccoli carri armati di plastica, si sta facendo ricorso a dei carri armati, missili, bombe e proiettili veri.

Il conflitto tra russi e ucraini è reale ed è altrettanto reale, purtroppo, il numero delle vittime: tra queste già si contano moltissimi bambini. Nella città di Kharkiv, ad esempio, in base alle notizie riportate da Rainews qualche giorno fa, sembrerebbe che i fanciulli deceduti e feriti gravemente a causa della guerra siano un centinaio. Anche a Kiev e nelle località circostanti, purtroppo, il numero dei bambini che hanno perso la vita sta salendo con il passare dei giorni. La storia di Polina (11 anni), di suo fratello Semyon (5 anni) e dei suoi genitori, che hanno  perso la vita, casualmente, trovandosi nel mezzo di  uno scontro a fuoco, ha toccato il cuore di tutti. Così come quando si è appreso della morte di Alisa, la bambina di 7 anni che è deceduta per le ferite riportate dopo un bombardamento russo nella città di Okhtyrka. La piccola era rifugiata con la mamma in un asilo che è stato oggetto di un attacco con bombe a grappolo. Polina, Semyon e Alisa sono state le prime vittime, tra i bambini, di questo orribile conflitto.

La situazione in quei luoghi è ormai incontrollabile, tanto che l’organizzazione  Save the Children,  attraverso i suoi canali divulgativi ha dichiarato: “in Ucraina non ci sono più luoghi sicuri, gli attacchi colpiscono anche scuole, asili, ospedali e orfanotrofi. Ci sono già centinaia di vittime tra i civili e tra questi decine di bambini”. Proprio perché sul territorio ucraino le condizioni di vita sono ormai più che precarie, coloro che non sono ancora riusciti a fuggire o che non hanno potuto farlo, sono stati costretti a trovare un posto più “sicuro” nei sotterranei.

La vita sotto i bunker: vivere e sopravvivere 

Gli scantinati, i garages, le stazioni della metropolitana, sono divenuti di fatto i nuovi spazi domestici dove poter vivere e sopravvivere. Vivere, perché, ormai, a causa dei continui avvertimenti delle sirene, la giornata si trascorre più sottoterra che alla luce del sole; ma, oltre a questo, anche perché è proprio lì sotto che stanno nascendo nuove vite. Se si pensa infatti alla piccola Mia, che è nata in un rifugio antiaereo di Kiev, è difficile  riuscire a trattenere le lacrime per la commozione. La sua storia è stata raccontata dalla presidente della conferenza Democracy in Action Hannah Hopko: “Mia è nata in un rifugio questa notte in un ambiente stressante, durante il bombardamento di Kiev. Sua madre è felice dopo questo parto difficile. Difendiamo la vita e l’umanità”.

Come Mia, altri piccoli sono venuti alla luce nei bunker. E’, per esempio, il caso di Fedor, partorito nel secondo giorno di guerra in un sotterraneo freddo e fatiscente, mentre fuori si sentiva il suono delle sirene e il boato causato dalle esplosioni delle bombe. La sua mamma ha rilasciato queste parole al Guardian : “mentre lo tenevo stretto nel bunker, gli ho detto: sei fortunato, sei unico, sei nato in Ucraina, sei la nuova Ucraina”.

Ma nei rifugi sotterranei si cerca anche di sopravvivere. Le piccole copertine che sostituiscono le incubatrici dei nati prematuri; i binari delle metropolitane adibiti a bagni pubblici dove i bambini possono espletare le proprie funzioni fisiologiche; il rifugio antiaereo di Dnipro adattato a terapia intensiva di un reparto pediatrico, dove, a causa della mancanza dei macchinari presenti nei vari reparti le infermiere fanno i turni per continuare ad alimentare i respiratori manuali, tanto da lasciare perplesso anche il dottor Denis Surkov, capo dell’unità neonatale al Dnipro-petrovsk Oblast Children’s Clinical Hospital, che in un video ha dichiarato: “Questa è la terapia intensiva neonatale. In un rifugio antiaereo. Potete immaginarlo?”, sono tutti flash che fotografano qual è la situazione nel sottosuolo delle città ucraine, e di come, tra le persone in esso stipate, ci si la  volontà di continuare a custodire la vita senza abbandonare la speranza.

Quello  che si sta verificando nei sotterranei, però,  è qualcosa di molto difficile, anzi, impossibile da immaginare. Così come è impossibile pensare ai bambini che, nella città di Kherson, dall’inizio della guerra  vivono nell’oscurità senza giocare alla luce del sole, senza bere un’acqua bevibile, senza respirare aria pulita; anzi, costretti ad ascoltare,  per motivi di sicurezza e per la paura,  solo il suono delle bombe e delle sirene che a pochi metri  sopra di loro interrompono la monotonia di un silenzio spettrale che avvolge la loro città.  Darijina, una maestra che ha aperto un asilo e una classe elementare sotto un rifugio scavato sotto il suo quartiere, ha coniato una nuova e tragica  espressione per i suoi alunni, riconducendoli ad una particolare categoria umana: quella dei bambini-topo. “Ormai sono i nostri topi, se vogliamo salvare almeno loro dobbiamo nasconderli nelle fogne”. Il sindaco di Kherson ha affermato che sono più di 13 mila i bambini rifugiati nei bunker.

Nonostante tutto si continua a giocare sdrammatizzando la guerra 

Ma nonostante tutto, la loro sana ingenuità, la loro purezza, non gli hanno  impedito di continuare a giocare non pensando così all’orribile “gioco” che invece stanno facendo gli adulti. Non appena suonano le sirene le mamme li rassicurano cercando di sdrammatizzare quanto sta accadendo e facendogli credere che si tratti di un’attività ludica. A quelli più grandi, invece, è difficile mentire, e, allora, si cerca di dargli coraggio dicendogli che tutto passerà presto. Anche tra le famiglie che fuggono dalle città, l’esodo può diventare un motivo per far credere ai bambini che si tratta di un gioco.

E’ quello che ha fatto Marco Gallipoli, un grafico italiano, che da Leopoli ha portato in salvo i suoi bambini in  Polonia. Durante il viaggio non ha mai smesso di far sentire a proprio agio i suoi due figli, cercando di vivere con ironia ogni momento di questa drammatica fuga: dal freddo al riposo in un alloggio di fortuna con i sacchi a pelo; dalla paura nel percorrere sentieri insidiosi e sconosciuti; dalla stanchezza per aver percorso moltissimi chilometri. Ebbene, nonostante tutto, Marco, non appena giunto a Cracovia, dopo aver attraversato il confine ha affermato insieme ai suoi figli: “tanta gente ci ha offerto da bere il caffè, anzi il tè, poi pure i biscotti. E’ stato bello, adesso siamo in un altro posto”.  Marco ha poi ribadito: “la nostra salvezza è merito di tante persone e anche del nostro sorriso. D’altronde siamo romani, la buttiamo sempre in caciara”.

Tantissimi sono i bambini che hanno lasciato l’Ucraina e sono stati accolti con affetto dai vari paesi dell’Unione Europea. Anche l’Italia ha mostrato come sempre la propria sensibilità quando si tratta di venire incontro a chi è in difficoltà. Fino ad oggi sembra che i  bambini arrivati nella nostra penisola siano più di seimila. Oltre alle varie associazioni, anche molte famiglie stanno rendendosi disponibili per accoglierli e farli sentire a casa. Tra questi, la maggior parte sono accompagnati dalle mamme o altri congiunti, ma non mancano purtroppo i casi di bambini soli rimasti orfani. Allora, far sentire loro il calore domestico, è quanto si augura la ministra della Famiglia Elena Bonetti che in una intervista rilasciata  al Messaggero ha dichiarato: “In Italia stanno arrivando bambini che hanno conosciuto ciò che in Europa la nostra generazione non aveva mai visto. Si ritrovano ora sradicati in un Paese straniero, per cui dobbiamo farli sentire a casa. Perché l’Europa è la loro casa”.   Se Marco, comunque, è riuscito a far vivere i drammatici eventi di una guerra come una sorta di avventura da film ai propri figli, invece, sempre nei sotterranei di Kiev, è stata proprio una bambina di cinque anni a cercare di portare il sorriso sui volti dei suoi pari, e, di conseguenza su quelli degli adulti, cantando Let it go, il brano del cartone animato Frozen.

Amelia rassicura i suoi amici cantando la canzone del cartone animato Frozen 

Lo scopo di Amelia era quello di interrompere la routine quotidiana vissuta dai bambini nei rifugi, portando una ventata di novità e di gioia attraverso la musica. La sua performance è stata ripresa e registrata in una clip dalla giornalista locale Marta Smekhova. La clip dura circa due minuti e mostra la bambina con i capelli biondi cantare con il sorriso stampato sulle labbra e con gli occhi chiusi, quasi come se volesse per un momento,  sognare di essere in un altro luogo più consono e adatto a lei e ai suoi coetanei . Attraverso quella canzone Amelia ha voluto far sentire a tutti i bambini che erano presenti in quel rifugio che si può vivere nella gioia anche nei momenti in cui la luce viene a mancare, tanto da far affermare all’autrice della clip: “dalla prima parola pronunciata da Amelia, nel bunker è sceso un completo silenzio. Tutti hanno smesso di fare quel che stavano facendo per ascoltarla. Un raggio di luce. Nemmeno gli uomini sono riusciti a trattenere le lacrime”.

Tornare con la mente al film “La vita è bella”

Gli episodi fino ad ora raccontati ci permettono di  tornare con la mente al gesto eroico di Roberto Benigni nel film La vita è bella.
Come dimenticare, infatti, quanto fatto da Guido Orefice per far credere al figlio Giosuè che tutto quello che stava accadendo nel campo di concentramento rientrasse nelle regole di un gioco, la cui vittoria sarebbe consistita nel rimanere in vita e vincere un carro armato vero. E’ così che allora, Giosuè, prima di ricongiungersi con la sua mamma, potrà uscire dal nascondiglio segreto e  salire su un vero carro armato grazie alla collaborazione di un soldato americano,  esclamando a gran voce : “Abbiamo vinto! Mille punti… da schiantarsi dal ridere. Primi… si ritorna a casa con il carro armato!”.

Ed è attraverso quello che apparentemente sembrava un gioco che Guido ha insegnato a suo figlio che la vita va vissuta sempre con speranza, coraggio e senso dell’umorismo, anche e addirittura in un lager, dove la dignità umana sembra volatilizzarsi.Il carro armato vinto rappresenta una metafora del  carattere futuro di Giosuè,  che ha imparato grazie al padre ad affrontare le circostanze più avverse della vita senza piangersi addosso. E saranno presto anche i bambini ucraini rifugiati nei bunker o fuggiti nelle altre città a gridare a squarciagola: “abbiamo vinto!”.  Ma la loro vittoria non è legata al potere, alla forza, alla violenza, tipiche degli adulti, ma sarà una vittoria anche di quei bambini  che non ci sono più, perché chi vince non è il prepotente, ma chi è piccolo, ingenuo, fragile; chi come Amelia,  anche nei momenti più tragici, è in grado di chiudere gli occhi e cantare la canzone del suo cartone animato preferito.

Ed è proprio per questo, forse, che  quando a Gesù gli si sono avvicinati dei bambini con il desiderio di giocare con lui e gli apostoli, invece, li stavano rimproverando cercando di allontanarli, è stato Gesù stesso a redarguirli dicendo queste parole: “lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in  esso”. E, prendendoli tra le braccia li benedisse, imponendo le mani su di loro (Mc  10, 13-16).

Marco Mancini