La celebre frase “La bellezza salverà il mondo” che lo scrittore russo Fedor Dostoevskij (1821-1881) fa dire al personaggio protagonista del romanzo “L’idiota” (1869), il principe Myškin, può offrire alcuni spunti di riflessione  sulla situazione che stiamo vivendo a causa della diffusione della pandemia. L’affermazione dostoevskiana vuole ricordare l’importanza di preservare e difendere il patrimonio di bellezza che è a disposizione dell’umanità in modo da poterne godere e condividere il valore nella nostra esperienza esistenziale. Dal momento che parlare di bellezza in generale o in astratto rischia però di equivalere a pronunciare vuote parole senza alcun aggancio con la realtà, la questione fondamentale da chiarire riguarda a quale bellezza si stia facendo riferimento quando si sostiene che essa possa “salvare” il mondo.

Il fallimento delle bellezza ideale

La tesi principale del romanzo di Dostoevskij è che la bellezza puramente ideale, metafisica e trascendente, ammesso che esista, non sia in grado di salvare nulla e nessuno. Tutt’al più essa consola temporaneamente senza mai permettere il raggiungimento di un’armonia piena e compiuta, per il fatto di essere inevitabilmente destinata a svanire nel disordine mondano. L’intera vicenda di Myškin, nobile russo decaduto e vittima della sua stessa ingenuità, è proprio la consacrazione di questo fallimento, senza possibilità di spingersi oltre la dialettica distruttiva tra caos cosmico e purezza ideale. (F. M. Dostoevskij, “L’idiota”, trad. it. di R. Küfferle, Garzanti, Milano 1973, 2 voll., vol. I, p. XII.)

La bellezza difficile e paradossale

La bellezza capace di salvare il mondo può essere scoperta nell’itinerario spirituale proposto da Søren Kierkegaard (1813-1855). Negli “Atti dell’amore” (1847) il filosofo danese afferma che l’amore del bello, contrariamente a quanto si possa superficialmente pensare, non consiste nel “trovare l’oggetto amabile” quanto piuttosto nel “trovare amabile l’oggetto non amabile” (S. Kierkegaard, “Atti dell’amore”, trad. it di C. Fabro, Bompiani, Milano 2007, pp. 1001-1007). Questo è lo straordinario messaggio che irrompe sulla scena del mondo con la figura del Cristo: il coraggio cristiano di amare il prossimo in quanto tale, anche negli aspetti meno piacevoli della sua personalità, secondo un impegno esistenziale che richiede di scoprire l’altro in tutta la sua autentica profondità. Qualora il bello fosse riducibile solo agli aspetti apparenti di una persona o di un oggetto, esso sarebbe il risultato di un semplice egocentrico autocompiacimento che non richiederebbe nessun superamento della “sapienza di questo mondo” resa stolta dalla “follia” del sacrificio di Cristo (1 Co 3:18-20; Ro 1:16).

L’amore per la bellezza autentica

Ecco sorgere dunque la domanda decisiva: “Quale bellezza salverà il mondo?”. La risposta si trova in tutto ciò che viene amato nonostante il fatto che non possa essere accettato perché fa male, ferisce il corpo e lo spirito. L’amore cristiano si basa su una “conversione del cuore” che non ha nulla di spontaneo ma che, anzi, mette al centro della propria attenzione “il prossimo che si DEVE amare” proprio per il fatto che esso non sia immediatamente amabile (S. Kierkegaard, “Atti dell’amore”, cit., pp. 1009-1011). Gli esempi che possiamo citare a questo riguardo, in riferimento anche alla drammatica situazione pandemica nella quale ci troviamo a vivere quotidianamente, sono unici e numerosi: medici, insegnanti, religiosi, volontari, uomini e donne comuni che impegnano il proprio tempo e le proprie energie nel servizio generoso ed incondizionato di chi ha bisogno, con la forza di farlo fino in fondo, senza risparmiare nulla di sé e senza aspettarsi una qualche forma di compensazione. L’amore che anima queste persone nel compiere il bene oltre ogni ostacolo nasce dall’invincibile speranza di promuovere e valorizzare l’autentica bellezza di ogni essere umano che può davvero salvare il mondo.