Riportiamo dalla Rivista Pangea un articolo di Antonio Calenda, apparso il 2 novembre, che rilegge alla luce dei ricordi personali l’avventura artistica di Gigi Proietti. Ne risalta con chiarezza l’originale e quasi unica personalità di Proietti: “l’ ironia tenebrosa, uno spirito proteiforme velato di mistero, non riconducibile ad alcuno schema tradizionale. Gigi era l’elemento dionisiaco, contraddittorio e oscuro, sui generis e imprevedibile, pregno della vita dalla quale veniva e con la quale non ha mai smesso di dialogare in una inesauribile reciprocità fatta di estro e carisma”.
Ci pare doveroso ricordare un uomo mite, onesto, vero che ha saputo testimoniare con coerenza e professionalità rare, il gusto del vivere attraverso la recitazione, la musica, il canto, l’ironia.

 
“Ogni fenomeno, ogni essere, ogni persona, si conosce nel momento culminante, nella passione, perché lo spirito viene dal sangue, il pensiero dalla passione, la passione dall’entusiasmo”. Io ho conosciuto Gigi Proietti nel momento in cui a Roma si esprimeva, sotto forma di contestazione, l’appassionata ricerca di un rinnovamento del teatro italiano in cui noi, giovani leve, muovevamo i primi passi dentro e poi fuori dal solco tracciato dai grandi maestri del teatro ufficiale. Un teatro importante, con i suoi codici, le sue strutture significanti e la sua potenza espressiva; eppure quella che ci muoveva era la forte e giovanile tensione verso un teatro critico, diverso, che potesse definirsi contemporaneo. La contestazione in noi evolveva dall’ammirazione nei confronti di personalità come Strehler, potente e solido riferimento del nostro percorso artistico, trasfigurava il timore reverenziale in desiderio di alternative possibili, per abbattersi in modo polemico contro l’establishment delle compagnie tradizionali.
Il gruppo del Centouno nacque con le concomitanze del teatro universitario, dove avevamo appena consumato l’occupazione dell’Ateneo con il nostro gruppo di giovani attori e registi. Miei compagni di allora Leo de Berardinis, Tino Schirinzi, Virginio Gazzolo e Gigi Proietti. Dopo l’università, con Gazzolo ci ritrovammo; scegliemmo di continuare il percorso di ricerca dando vita a un nostro gruppo, scelta non scontata per chi come Ginni Gazzolo lavorava ormai nel teatro ufficiale dello Stabile di Torino e che sentiva con me l’esigenza di un nuovo linguaggio, di una nuova forza. E allora io inventai questo spazio, il Centouno.

Insieme costruimmo il palcoscenico e comprammo le sedie a un’asta pubblica. Allora il cinema Induno era stato messo all’asta assieme alle sue ottocento sedie. Il giudice fallimentare ci obbligò ad acquistarle tutte, il Centouno fu invaso dalle sedie e noi piantammo la nostra vita tra quelle tavole. La nostra matrice teatrale si innestava sul virgulto della Neoavanguardia del Gruppo 63 condividendone l’urgenza di rispondere, con una sublimazione astratta e di respiro europeo, al Neorealismo imperante. Irrompemmo sulla scena romana con Iperipotesi di Giorgio Manganelli e il nostro lavoro negli anni immediatamente a seguire si nutrì dei testi di Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti e della complicità anche di un’attrice quale Francesca Benedetti. In quel periodo Gigi decise di riavvicinarsi e di unirsi a noi.
L’uno infiammò l’altro, ciascuno imparava, ciascuno rubava al prossimo, ognuno lottava per sorpassarlo, per vincerlo; eppure eravamo tutti solo gladiatori del pensiero sferzati dal genio dell’ora. Gazzolo aveva un dinamismo morbido, una superficie classica, incarnava ai miei occhi l’apollineo, ideale di misura esaltata dalla dialettica padronanza delle potenzialità espressive. Proietti aveva un’ironia tenebrosa, uno spirito proteiforme velato di mistero, non riconducibile ad alcuno schema tradizionale. Gigi era l’elemento dionisiaco, contraddittorio e oscuro, sui generis e imprevedibile, pregno della vita dalla quale veniva e con la quale non ha mai smesso di dialogare in una inesauribile reciprocità fatta di estro e carisma. E come Dioniso sapeva modulare dai suoi precordi musica, canto, ironia e gusto del vivere.
La nostra era una vita d’assieme bellissima, scandita da cene in trattorie economiche in cui si mescevano vite e ipotesi di nuove costruzioni artistiche. Nel nostro spazio laboratoriale, la Cantina dai centouno posti, avevamo l’urgenza di svecchiare il teatro italiano e al naturalismo imperante nel teatro ufficiale noi rispondevamo con modalità espressive nuove e impensabili, con l’astrazione, cifra imprescindibile della nostra avanguardia. Proietti aveva qualcosa di innaturale, un mistero impetuoso e un istinto alla elaborazione fantastica cui sapeva coniugare un apparato tecnico di stile classico che rendeva infinite le sue possibilità interpretative. Si aggregò presto a noi un’altra complice, Piera degli Esposti, una sorta di madre terra, potente e astratta insieme, la cui forza io intuii da subito pur essendo ella completamente estranea ai canoni della tradizione. In questa ricerca Proietti sapeva e poteva portare il dinamismo della vita e della sua infinita danza tragicomica: divertentissimo, imprevedibile e sapidamente proletario.
Indimenticabile la serata con lui e Gazzolo dedicata rispettivamente a Picasso e Apollinaire: dionisiaco e apollineo, i due ancestrali versanti ontologici del teatro. Fu un tale successo da richiedere l’intervento della polizia per gestire il numero di spettatori accalcati all’ingresso del Teatro Valle di Roma, allora sede del nascente Teatro Stabile, diretto da un valoroso quale il grande storico del teatro Vito Pandolfi. E nella fiammeggiante scenografia di Franco Nonnis, Gigi trionfò con il personaggio picassiano di Piedone che cantava canzoni francesi a petulanza, in questo spettacolo folle, di avanguardia pura. Con Quartucci, Ricci e Carmelo Bene modulavamo il coté dell’Avanguardia romana degli anni ’60 e lo stesso Franco Quadri dedicò una storica copertina di “Sipario” al nostro Centouno. Subito dopo con Corrado Augias, che era il nostro drammaturgo, presentammo Direzione memorie: indimenticabile la splendida recensione di Sandro De Feo sulle pagine de “L’Espresso”. Paolo Grassi, venuto a vederci in incognito, ne fu colpito a tal punto da decidere di portarci al Piccolo di Milano e il teatro “ufficiale” si accorse di noi.

Con la mia messa in scena de Il dio Kurt di Moravia e la sua straordinaria rielaborazione del mito di Edipo, Proietti esplose sulla scena nazionale. Durante la stessa stagione mi chiamarono per proporre una mia regia a Verona e io imposi Gigi per interpretare Coriolano: fierezza, orgoglio, ira, scherno, tutto il sale, tutto il piombo, tutto l’oro, tutti i metalli del sentimento. Da allora l’ho sempre immaginato nei grandi ruoli soprattutto shakespeariani considerata anche la sua encomiabile vocazione alla comunicazione e alla divulgazione del repertorio del bardo, sancita negli ultimi anni dall’impegno profuso nella direzione del Globe Theatre di Roma.
I percorsi artistici e umani si sono poi divisi, ciascuno ha seguito le proprie profonde pulsioni artistiche assecondando urgenze e contingenze. Anche in questo il fascino del ricordo sta nella sua incompiutezza: un filo sottile teso attraverso la memoria che si tinge, a volte, di rimpianti per possibilità sfiorate. Dioniso è anche questo: profondità oscura dell’inafferrabile che, dal suo trono sospeso, gioca con il mistero della possibilità irrealizzata, schernendola con i suoi “se” e i suoi “ma”. L’unico in grado di giocarvi alla pari una partita a scacchi è il Tempo, maestro nell’arte dell’attesa.
Dopo le formative e meravigliose collaborazioni con interpreti magistrali quali Tofano, Moschin, Albertazzi, Ferzetti, Branciaroli, Popolizio e soprattutto Roberto Herlitzka con il quale ho condiviso quarant’anni di fulgore creativo da Le balcon del 1971 sino al lavoro su Pasolini, Una giovinezza enormemente giovanesento ancora fortemente la straordinaria impronta di Proietti: un assurdo beckettiano plasmato fino ai vertici del drammatico. Amerei tanto che questo suo assurdo dilagasse ancora nel teatro italiano, quale infinito mare di possibilità, di espressività, popolato da possenti ombre di ipotesi shakespeariane: Riccardo III, grande, sulfureo e terribilmente crudele o ancora Re Lear. Il tempo ci matura e ci decora restituendo ampiezza drammatica alle venature di follia dell’indomito Dioniso che conosco, un Re Lear possente, minaccioso e folle. E in quella follia misteriosa, seducente e sublime Gigi Proietti che traduce in atto teatrale quello che altri ha espresso in letteratura e filosofia: “l’intera vita è solo un gioco, il semplice gioco della follia”.
Antonio Calenda, Pangea, 02 Novembre 2020