In questi giorni molto complessi per la pandemia il Vaticano e papa Francesco continuano ad essere presenti sui mezzi di comunicazione, ma non è facile capire il comportamento e le prese di posizione sia del Vaticano che del papa.  Questo contributo scritto dal giornalista politologo Andrea Muratore ci offre una lettura molto interessante per capire il cambiamento profondo, avvenuto in questi anni, nella presenza della chiesa cattolica sullo scenario mondiale.
A partire dalla sua elezione al soglio pontificio, nel 2013, Papa Francesco si è contraddistinto per un approccio al ruolo di Papa decisamente energico e per un’impostazione politica fortemente attiva. L’ex arcivescovo di Buenos Aires ha trasmesso all’azione diplomatica del Vaticano da lui guidata e affidata all’abile cardinale Pietro Parolin un’energica spinta personale: in completa continuità teologica con i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Jorge Mario Bergoglio ha invece mutato in alcune direttrici la presenza internazionale della Santa Sede.
 

La proiezione globale del pontificato

Su questo fronte il pontificato di Francesco si è inserito nel solco di quelli precedenti su numerose questioni importanti: la necessità per il Vaticano di agire come attore autonomo, sotto il profilo politico, in un mondo globalizzato che si fa sempre più complesso e in cui l’azione diplomatica della Santa Sede non può venir tenuta disgiunta dagli obiettivi pastorali; l’impegno a sostenere la transizione del mondo verso il contesto multipolare; l’internazionalizzazione della Chiesa cattolica e l’avanzata del dialogo interreligioso; l’attiva promozione di una dottrina sociale umanistica e una visione dell’economia indipendente dalle grandi utopie della seconda metà del Novecento, il socialismo reale e il neoliberismo deregolamentato.
In questo contesto Francesco ha sicuramente aggiunto diverse prese di posizione ispirate alla sua personale visione. L’autonomia decisionale del Vaticano si è in questo contesto appoggiata su una maggiore considerazione da parte del Papa delle cosiddette “periferie globali“, ovvero i continenti in cui la Chiesa ha attualmente il suo cuore propulsore, i maggiori margini di crescita o le sfide principali da affrontare. Estremo Oriente, America Latina e Africa sono divenute centrali nel discorso teologico-politico del Vaticano targato Bergoglio senza che all’Europa fosse garantita la centralità che, anche in un contesto di declino dell’evangelizzazione del Vecchio continente, per ragioni dettate dal milieu culturale, dal vissuto storico e dall’esperienza personale Wojtyla e Ratzinger si erano impegnate a preservare. Spogliato da numerosi simboli esteriori dell’autorità papale, il pontefice in abito bianco ha, in un certo senso, dato una nuova proiezione “imperiale” alla leadership della Chiesa cattolica.
Non più solo la Chiesa “costantiniana”, che dall’Editto di Milano del 313 ha mirato a identificarsi in senso stretto con i territori di radicamento, facendosi al contempo ecumenica e locale, ma la Chiesa delle molte periferie rappresentate a Roma in una Curia plasmata a immagine e somiglianza dell’ideologia bergogliana: nell’era di Papa Francesco e della nuova apertura ad gentes il Vaticano ha visto entrare in Curia cardinali provenienti dall’associazionismo (Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna), dall’impegno sociale (il ceco Michael Czerny), da diocesi tradizionalmente non porporate (l’arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro) e, soprattutto, con una fondamentale proiezione diplomatica. Tra questi è impossibile non citare Mario Zenari, 74enne di origini veronesi che dal 2008 è nunzio apostolico nella Siria martoriata dalla guerra civile, in cui rappresenta un presidio fondamentale di difesa dei cristiani locali, e nel 2016 è stato creato cardinale.
Stesso traguardo, due anni prima, per lo stratega diplomatico del Vaticano, il Segretario di Stato Pietro Parolin, ex nunzio nel Venezuela interessato dalla transizione tra Chavez e Nicolas Maduro e ora artefice della rete di relazioni che la Santa Sede ha tessuto negli ultimi anni. Tali da rafforzare il ruolo di potenza diplomatica del Vaticano.
 

Bergoglio e le Americhe

Accentuata rispetto alla gestione dei predecessori di Francesco è, negli ultimi anni, la presenza del Vaticano come mediatore e costruttore di ponti diplomatici in scenari di crisi. Non a caso papa Francesco inaugurò il suo mandato facendo da pontiere tra gli Stati Uniti di Barack Obama e la Cuba castrista, culminata nel marzo 2016 con la storica visita del presidente nell’isola caraibica. Francesco ha sempre considerato l’opera negoziale come utile a favorire non solo la convivenza e la prosperità dei cattolici nei Paesi destinatari dei suoi sforzi diplomatici, ma anche un’opportunità di inserimento per la Chiesa.
Nel continente latinoamericano, da diversi decenni il cattolicesimo è in ritirata di fronte alla marea montante del protestantesimo evangelico e pentecostale, che fondato su una maggiore immediatezza, su un fondamento materiale significativo (il “Vangelo della prosperità”) e sull’opera di organizzati telepredicatori ha lanciato una vera e propria Opa sull’egemonia cattolica sul continente. Le gerarchie ecclesiastiche hanno avuto difficoltà a superare le ambiguità degli Anni Ottanta, in cui si divisero tra i fautori della Teologia della Liberazione e le categorie di vescovi più ortodosse, perdendo mordente nella società. Il tutto a favore di frange cristiane intente a propugnare l’ideologia liberista e individualista tipica del neoliberismo di stampo nordamericano sul piano politico e l’appiattimento delle grandi riflessioni morali del cristianesimo su poche battaglie (aborto, matrimoni LGBT e via dicendo) condotte con spirito di bandiera.
A questa svolta il Vaticano si è, sotto traccia, opposto spendendo un grande capitale diplomatico per mediare la crisi politica in Venezuela, resa problematica dal braccio di ferro tra Maduro e l’opposizione, la cui risoluzione è ritenuta fondamentale per togliere capitale negoziale a una delle principali cause dell’ascesa evangelica, l’attacco a testa bassa contro i governi socialisti dell’America Latina. Al tempo stesso, Francesco ha mostrato una particolare attenzione verso l’Amazzonia, che i presidenti brasiliani Michel Temer (liberale) e Jair Bolsonaro (liberista e sovranista) hanno puntato ad aprire allo sfruttamento economico. Difendendo i diritti dei popoli indigeni e convocando un sinodo ad hoc sulla questione amazzonica, Bergoglio ha opposto il comunitarismo al liberismo, la Chiesa globale alle volontà di radicamento etnico del protestantesimo evangelico.
A inizio 2020, in questo contesto, Francesco è arrivato a far sponda con due leader populisti di sinistra, il presidente argentino Alberto Fernandez e l’ex leader brasiliano Lula, esprimendo la sua posizione favorevole a una rinegoziazione del debito pubblico di Buenos Aires (tesi cara al governo peronista) e discutendo di lotta alle disuguaglianze e alla povertà con l’ex presidente brasiliano, trattato come un vero e proprio capo di Stato.
 

La mediazione con la Cina

Massimo Franco ha definito in un omonimo saggio “imperi paralleli” il Vaticano e gli Usa, contraddistinti da un complessa relazione secolare; nel passaggio dall’era Obama a quella Trump, il Vaticano ha aggiunto un terzo “impero” alla sua rosa di partner diplomatici: la Repubblica popolare cinese, con cui dal 1949 la Santa Sede non ha relazioni ufficiali, si confronta attivamente con l’Oltretevere.
Xi Jinping e papa Francesco sono i veri uomini forti della nostra epoca. Sul piano politico, Cina e Vaticano si cercano e si interessano l’una all’altro sulla scia del diretto coinvolgimento dei loro vertici decisionali nel dossier. Per Pechino è fondamentale avere il riconoscimento vaticano per legittimare la sua posizione di grande potenza globale e regolarizzare definitivamente la sua relazione con l’Occidente, di cui la Santa Sede rimane uno degli ultimi attori a riconoscere ufficialmente Taiwan. Al Vaticano serve invece sistemare definitivamente la questione della tutela del cattolicesimo in Cina e poter aprire la strada alla definizione di regole precise per la nomina di vescovi in un sistema dominato dal Partito comunista cinese.
 
La Chiesa e la Cina sono accomunate dalla capacità di saper contare gli anni sulla scala dei secoli e dei millenni, e non hanno fretta: ogni passo avanti, ogni abboccamento, è salutato come benvenuto a concretizzare una distensione che Bergoglio spera di concludere con una visita pastorale nell’Impero di Mezzo.
In questo contesto, l’accordo raggiunto il 22 settembre 2018 corona decenni di trattative, scontri e tensioni, riflessi nella natura duale della Chiesa cinese e certifica da un lato la rinnovata postura globale di Pechino e, dall’altro, il nuovo corso diplomatico della Santa Sede di papa Francesco. L’accordo crea nuove diocesi e dà copertura ecclesiastica ad alcuni vescovi nominati senza il via libera del Papa, ma non risolve la questione della persecuzione della “Chiesa sotterranea” cinese e del difficile rapporto tra cattolici e regime, tornato in emersione nei recenti fatti di Hong Kong.
 

Gli altri fronti di papa Francesco

Il Papa non si è limitato all’America Latina e alla Cina nella sua azione. Fondamentale è stata la crescita dei rapporti tra il Vaticano e l’ortodossia russa, che hanno consentito anche una serie di incontri di grande importanza tra Bergoglio e Vladimir Putin. Sul sentiero del dialogo inter-religioso, il Papa ha inoltre viaggiato dal Medio Oriente al Marocco aprendo vie “politiche” alla Santa Sede, sempre più percepita come un partner negoziale anche dai Paesi musulmani.
Grande anche l’interesse di Francesco per l’Africa. Dopo le visite in Kenya, Uganda e Repubblica centrafricana (coronato con l’apertura a Bangui della porta santa del Giubileo della Misericordia) del 2015, in Egitto nel 2017, e in Marocco nella primavera del 2019, a ottobre dello scorso anno Bergoglio si è recato in Mozambico, Madagascar e Isole Mauritius. Otto Stati visitati certificano la grande volontà del Vaticano di presidiare un continente che, per ragioni demografiche, sarà il grande “serbatoio di anime” per la Chiesa del XXI secolo, nonché una palestra per la sua nuova proiezione umana e materiale. La lezione di Benedetto XVI, che predicava il rispetto del “diritto a non emigrare” per gli abitanti dei Paesi più poveri dell’Africa, non è stata dimenticata da Bergoglio, papa fortemente “politico” e desideroso di indicare al continente una strada per lo sviluppo capace di legarsi alle lezioni della dottrina sociale della Chiesa e alla visione di un’economia al servizio dell’uomo.
Andrea Muratore, La visione geopolitica di Papa Francesco, Inside the news Over the world, 18 febbraio 2020