“Fase”: Sostantivo che scintilla, come scaglia d’oro tra le dita, fase viene dal greco – phasis – e significa apparizione. Il termine è legato all’astronomia: pensare alle fasi lunari, però, mi dà da pensare al metodo, lunatico, con cui il governo tenta di domare il virus. D’altronde, la parola apparizione fa sbandare verso l’altra, opposta, apparenza: ciò che ci appare è autentico o funambolica illusione? Per inclinazione mistica sono disposto a denudare Maya: tutto è illusione, gorgheggia Schopenhauer, ficcando gli occhi nella sapienza indiana, le cose non sono ciò che appaiono, che senso ha, allora, petulare di “Fase 2”?

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Molti si fermano alle apparenze, l’apparizione è per chi ha sguardi gonfi di giaguari. Il Magnus Opus alchemico è costituito da quattro fasi: dal caos primordiale di Nigredo si arriva alla fenice, Rubedo, dalla morte alla vita perpetua, dalla corruzione alla fusione dei contrari in splendore. Se la politica fosse ardore alchemico, la “Fase 2” coinciderebbe con Albedo, la purificazione, l’anima che si slaccia dal destino del corpo – voce del verbo: “distillare” –, la Luna, il cigno, l’unicorno. Ma la “Fase 2” non ha decenza mistica, non ha docenza sul destino, non riguarda la necessità: piuttosto, questa pare la seconda fase di un immane esercizio scientifico, in cui noi – noi – siamo i ratti. Nessuna parola intende lo straordinario del contagio, che per l’uomo, scorticato al grado zero del vivere, è da sempre una esperienza sapienziale. Qui, piuttosto, il virus si risolve in paura diffusa, morte differita, scempio economico, nulla di fatto.
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Anche il lavoro – la creazione – è letto – ancora & ancora – come qualcosa di distinto da un destino, una obbedienza anonima alla legge economica, che non prevede l’estasi della costruzione, il rischio del disastro. Si lavora per animare il corpo di un molosso che dilania il pane dei giorni, che scava una grotta perfino nei nostri sogni, demandando a un domani – o all’altra vita, già colonizzata da altri – l’esistenza autentica. Povera, magari, ma eccitante, la vita autentica di chi azzarda – non più ribelle o anarca, ma stralunato giocoliere – pura pietra focaia, fatta di scelte in fiamme.
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Che senso ha la parola responsabilità se chi la brandisce è irresponsabile, non ha risposte capaci di contenere la nostra vertigine? Se la prossimità con la morte, il sussurro dell’imprevisto non ci fanno balzare in piedi, con una nitida pretesa di totalità, che senso ha parlare di fasi? Qual è la nostra pietra filosofale, qual è l’esito dell’esodo, a quale promessa siamo legati fino a morirne?
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“Le dottrine cambiano e la nostra scienza è illusoria; ma la natura non s’inganna; il suo corso è sicuro ed evidente. Ogni essere è nella natura tutto intero, e la natura è tutta in ogni essere. In ogni animale ha il suo centro; ogni animale trova senza ingannarsi la via per entrare nell’esistenza, e con uguale sicurezza troverà la via per uscirne; vive intento senza timore né angoscia del nulla, sostenuto dalla coscienza di far tutt’uno con la natura, e di essere come questa indistruttibile. Soltanto l’uomo porta girando con sé la persuasione astratta di dover morire. Ma, strano!, questo pensiero non lo angustia che ad intervalli, quando una qualsiasi occasione lo richiami alla fantasia. ben poco può la riflessione contro la voce potente della natura”. Ancora Schopenhauer.
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L’ennesimo servizio su quanto son belle le piazze italiane prive di umani, in prima serata. Che paradosso cretino. Ammiriamo una creazione umana, ma ci gloriamo dell’assenza degli umani. Eppure: una piazza è fatta per essere affollata e l’opera dell’uomo esiste finché un altro uomo la usa, la ama, altrimenti, meglio la giungla. Siamo arrivati a districare l’uomo dall’opera, la carne dall’idea, il corpo dall’anima, disincarnandoci, così, da una via. L’uomo non disprezza gli umani per prassi spirituale, ma per difetto di superiorità: pensiamo di essere migliori di altri, che il nostro gruppo abbia una specifica potenza, senza altra elezione, invece, che la vanità, la vanagloria, l’idiozia. Chi è consacrato accetta ogni congiura, gli altri devono strappare a morsi, a verbi, brandelli di ego, per non crollare tra le macerie dell’isteria. Una poiana gravita da qualche giorno a qualche decina di metri sopra casa mia; nel suo anello, un mirino ad alta precisione, una sfera, mi sento protetto. La luna, con micidiale costanza, sfoggia le sue fasi: sembra la lama di un’ascia, ed è questa pericolosità a dare alla luce la consistenza di un toro. (d.b.)

Pangea, Maggio 04, 2020