Pubblichiamo un ampio estratto dell’intervento che Susanna Tamaro ha tenuto ieri alla Camera dei deputati in occasione dell’incontro internazionale «Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata. Una sfida mondiale», promosso da «Se non ora quando – Libere».
 
La gestazione per altri è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, uno schiavismo in cui il volto della iena è nascosto dietro il sorriso del benefattore, uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola “amore”. Un amore che non si riferisce in alcun modo al bene di chi nasce ma soltanto ai desideri dei singoli individui. Già perché all’ideologia marxista leninista si è sostituito un capitalismo senz’anima e questo nuovo totem idolatrico riconosce solo una legge: quella del desiderio del singolo individuo e del profitto che si può ricavare per soddisfarlo. Che la causa generatrice dei figli sia un non ben definito e onnipotente sentimento di amore è una delle grandi bufale propinate dal neosentimentalismo della società consumistica. Da che mondo è mondo la maggior parte delle persone nasce per ragioni per lo più lontanissime dal mantra amoroso. Si può nascere da uno stupro, da un coito fugace nel gabinetto di una discoteca, dall’improvvisa e stupefacente rottura di un preservativo.
La vita ha in sé una forza che non richiede, per esistere, la melassa dei nostri sentimenti. Alcuni, fortunatissimi, nascono da un vero rapporto d’amore tra un uomo e una donna che dura nel tempo ma credo si tratti ormai di una minoranza piuttosto esigua.
Si nasce perché una donna ha detto il suo sì, perché – anche se il preservativo si è rotto, anche se neppure si ricorda la faccia del fecondatore – a un tratto ha sentito che quella cosa lì, quel millimetrico ammasso di cellule, in cui già dopo venti giorni si percepisce con chiarezza battere il cuore, è qualcosa di diverso da tutto quello che finora ha conosciuto e che in quella diversità è racchiusa l’ombra del mistero. Un mistero che a chi non sia completamente accecato dalla disperazione o dalle ideologie non può che provocare timore e tremore.
L’ idea che il fine di ogni vita sia la felicità e che tutto sia giustificato in nome dell’amore è una delle perversioni del pensiero post moderno, oltre che uno dei chiari sintomi della condizione più che crepuscolare del mondo occidentale. La vita è complessità, ingiustizia, confusione, dolore e, meno è soggetta a un progetto interiore, più viene divorata da questo intrico di forze che a tutto pensa tranne che a renderci felici. E oltre a ciò, c’è il carico pesante del destino che agisce con apparente cecità, donando magari ai non meritevoli e punendo i meritevoli. È la complessità del destino a determinarci ed è proprio dall’interrogazione su questa complessità che nascono la poesia, la musica, la filosofia, vale a dire tutto ciò che distingue gli esseri umani dalle altre forme viventi.
Interrogarsi, stupirsi, intravedere un orizzonte verso il quale incamminarsi. Se ci commuoviamo ascoltando della musica è grazie a questa complessità, se i nostri bambini fanno domande nel cuore della notte mentre tutti gli altri cuccioli dormono, ancora una volta è per questo. Perché alla base della vita c’è il mistero, e il mistero e l’inquietudine si alimentano costantemente l’un l’altro producendo un unico fuoco. Quel fuoco che rende ogni vita unica e degna di essere vissuta.
Nel mondo dei negromanti della riproduzione questo orizzonte non compare mai. Lo spazio in cui si muovono è quello della catena di montaggio. Ottenuto l’acconto, si mette in cantiere il prodotto, se poi alla fine del processo il prodotto ha qualche difetto lo si rispedisce al mittente, come è successo alla madre surrogata indonesiana che ha avuto la sventura di fallire producendo un bambino down. Che poi quel prodotto un giorno si trasformi in una persona non è poi così importante. Basta l’amore. Ma un giorno, passata la fase festosa del cucciolo scodinzolante, quell’essere assumerà la sua natura umana e comincerà a guardarsi nello specchio e a interrogarsi.
A chi appartengono questi occhi? Questo volto? Cos’è questa nostalgia che divora il mio cuore? E che cosa potrà provare quando saprà che il suo ovulo – cioè la sua vita – è stato selezionato su un catalogo come le vendite per corrispondenza? Cosa proverà per la sua madre genetica – magari una brillante studentessa di Harvard scelta per le sue elevate qualità fisiche e intellettuali – che l’ha venduto al migliore offerente, come si faceva al mercato degli schiavi? E che sentimenti potrà provare per quella povera donna che, in qualche oscura parte del mondo, l’avrà portato in grembo per nove mesi, quella donna che non ha mai potuto essere tentata da una carezza, da una frase dolce, da quell’intimità che sempre lega le madri alla creatura che cresce in loro? Quella donna di cui, per nove lunghi mesi, ha ascoltato la voce e il battito del cuore, da cui è stato nutrito, da cui ha appreso gli odori, i sapori; quella donna che ha lasciato in lui un’impronta genetica incancellabile e a cui lui ha impresso la sua, come fossero un aquilone e la mano che tiene il filo per potersi sempre inseguire e ritrovare ovunque, tra la terra e il cielo? Che cosa proverà per lei, per la voragine oscura che l’ha inghiottita nel momento stesso in cui gli ha donato la vita?
Diventerà un essere umano equilibrato perché satollo dell’amore dei suoi committenti?
Oppure…
Come è possibile, lucidamente e scientificamente, decidere di privare una persona della propria memoria genetica – dunque della sua storia, della sua salute fisica e mentale, della sua identità – con l’infantile convinzione che l’amore possa essere la soluzione a tutto? Dov’è finito tutto il devastante dolore e smarrimento della gran parte dei bambini adottati? E la rabbia furibonda di chi non ha mai conosciuto il padre? Cento anni di psicanalisi, milioni di studi sul Dna e la scoperta dell’epigenetica, cancellati con un colpo di spugna. Il bambino su ordinazione viene proposto come una tabula rasa, da plasmare a piacimento. L’importante è che il prodotto funzioni e non abbia difetti, tutto il resto è superfluo. Un fantoccio che ai baci risponda con i baci, ai sorrisi con i sorrisi, così come il cane di Ivan Pavlov sbavava sognando la pappa al suono del campanello. Non ha importanza perché, nel mondo di Ivanov e dei suoi seguaci, la complessità umana non ha alcun diritto di cittadinanza. (…).
La gestazione per altri è dunque soltanto la punta di un iceberg – la più vistosa e la più agghiacciante – di uno slittamento della visione antropologica verso un modello ad un’unica dimensione, quella del mercato. L’amore è il cavallo di Troia attraverso il quale vengono condizionate le coscienze. Ma di quale amore stiamo parlando? Un amore che reclama diritti.
Ma un amore che reclama diritti che razza di amore è? Il concetto di amore e quello di diritto sono assolutamente incompatibili. Non esiste il diritto di amore, così come non esiste il dovere di amare. Persino il Decalogo – oserei dire, il codice etologico dell’umanità – ci impone di onorare il padre e la madre, non di amarli. L’amore, per essere davvero tale, non richiede una legge a cui uniformarsi, ma piuttosto un’idea del bene, e l’idea del bene soggiace sempre a quello della reciprocità. Quale forma di reciprocità ci può essere in un rapporto di commissione della vita?
Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso è il principio su cui si è retta la società umana fino ad ora. Per esercitare un nostro diritto, dunque, costringiamo lucidamente una persona a venire al mondo privandola di ciò che fa di un uomo un uomo, vale a dire la genealogia, mettendo sulla sua vita una grande ipoteca di infelicità. Non è il karma a porre questo peso, non è il destino, siamo noi con la nostra minuscola volontà individuale. D’altronde come stupirsi?
Nel mondo in cui tutto si consuma non c’è spazio per questo tipo di arcaiche finezze. Il destino è la nostra volontà, non conosciamo e non vogliamo conoscere nessun altro tipo di orizzonte.
Ma se va respinto con fermezza l’atto della maternità surrogata, non va negata la vera esigenza di donare amore che affligge tante coppie che, per ragioni fisiologiche o di genere, sono costrette alla sterilità. Si tratta solo di fare un po’ di chiarezza cominciando con il dire che l’amore, quando non è procreativo, non può essere altro che oblativo. Che cosa vuol dire oblativo? Che si dona senza pretendere nulla in cambio. Non un cognome, non un diritto, non la proprietà ma soltanto la certezza della straordinaria forza racchiusa in questo tipo di amore. Già, perché, seguendo la vitalità della biologia, si può dare la vita con il corpo, ma la vera generazione avviene sempre attraverso i livelli più sottili di quella che una volta veniva chiamata anima. Nel mondo ci sono circa 170 milioni di bambini abbandonati, la grande battaglia da fare per spezzare il vertiginoso business dell’utero in affitto – la battaglia che riporta tutto il discorso nuovamente nei confini dell’umano – è quella per leggi migliori, di più ampio respiro e di più rapida attuazione nel campo dell’adozione e dell’affido. Adozioni e affidi, tra l’altro, grazie al diffondersi di queste pratiche e al costo esorbitante necessario per portarle a termine, sono drasticamente crollate.
E comunque di bambini che hanno bisogno di noi ne incontriamo ogni giorno. Forse non siamo capaci di fermarci ad ascoltarli, di vederli, non sappiamo guardare i loro occhi per capire la loro richiesta di aiuto. Quando il cuore è pronto, di solito i bambini arrivano. Basta essere disponibili ad accoglierli, senza pedigree genetici, senza garanzie ereditarie, senza la certezza che diventino, come da ordinazione, dei geni della matematica o dei novelli Mozart, con il rischio magari di doversi occupare anche dei loro genitori genetici, che sono molto spesso persone problematiche e che metteranno a dura prova il nostro equilibrio e la nostra pazienza. Ma l’amore oblativo non teme i rischi perché rifugge dall’idea di possesso e da quella del rendimento. L’amore oblativo vive e prospera soltanto sotto il cielo della libertà, ed è proprio grazie a questa libertà che offre ad ogni vita, piccola o grande che sia, la possibilità di rinascere ad ogni istante.
Questo è il vero spirito di maternità, questo è l’amore che dobbiamo coltivare dentro di noi ed intorno a noi, questa è l’unica arma che abbiamo per contrastare il sinistro business della riproduzione.
Non in mio nome, di Susanna Tamaro, in “Avvenire” del 24 marzo 2017