Non possiamo e non dobbiamo più ignorare la situazione di miseria della maggior parte dell’umanità. Una situazione sempre più insostenibile, soprattutto perché continua ad allargarsi la forbice tra i ricchi sempre più ricchi e la stragrande maggioranza dei poveri.
E in Italia?
A metà 2017 il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66 per cento della ricchezza nazionale netta, il successivo 20 per cento ne controllava il 18,8, lasciando al 60 per cento più povero appena il 14,8 per cento della ricchezza nazionale.  La quota di ricchezza dell’1 per cento più ricco degli italiani superava di 240 volte quella detenuta complessivamente dal 20 per cento più povero della popolazione.
 
 
Un mondo sempre più ingiusto: in un anno miliardari raddoppiati,
di Massimo Franchi
La crisi economica pare passata. Continua invece ad allargarsi la forbice della diseguaglianza che tocca proporzioni «sfacciate». L’un per cento della popolazione possiede più ricchezze di tutto il resto dell’umanità e nel 2016 il numero dei miliardari è aumentato come mai prima: uno ogni due giorni mentre la metà meno ricca non ha beneficiato di alcun aumento della ricchezza. Il rapporto annuale di Oxfam – la più importante Ong al mondo – si basa in gran parte sui dati di una della più grandi banche al mondo: Credit Suisse. La scelta non è casuale: solo una banca conosce le vere disponibilità dei patrimoni dei ricchi «in quanto i membri più ricchi della società sono più inclini ad evitare di pagare le imposte sui propri redditi».
DA UNA PARTE I PROPRIETARI
I proprietari vanno avanti a forza di dividendi. Dall’altra milioni di lavoratori sfruttati nei paesi più poveri. In mezzo ci sono i manager pagati in azioni delle aziende (stock options) che dunque «spingono le grandi imprese ad accorparsi per aumentare i guadagni agli azionisti»: «le imprese usano la mobilità dei propri investimenti per alimentare la corsa al ribasso tra Paesi in materia fiscale e salariale». Per questo il titolo scelto per il rapporto è «Ricompensare il lavoro, non la ricchezza».
NEL QUADRO GLOBALE
L’Italia si colloca in una posizione poco invidiabile. La disuguaglianza desta seria preoccupazione anche in Italia. A metà 2017 il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66 per cento della ricchezza nazionale netta, il successivo 20 per cento ne controllava il 18,8, lasciando al 60 per cento più povero appena il 14,8 per cento della ricchezza nazionale la quota di ricchezza dell’1 per cento più ricco degli italiani superava di 240 volte quella detenuta complessivamente dal 20 per cento più povero della popolazione.
Nel periodo 2006-2016 la quota di reddito nazionale disponibile lordo del 10 per cento più povero degli italiani è diminuita del 28 per cento, mentre oltre il 40 per cento dell’incremento di reddito complessivo registrato nello stesso periodo è fluito verso il 20 per cento dei percettori di reddito più elevato. Nel 2016 l’Italia occupava la ventesima posizione su 28 paesi Ue per la disuguaglianza di reddito disponibile.
Gran parte della cinquantina di pagine del rapporto è dedicato all’analisi delle cause del livello di diseguaglianza e delle proposte per rendere il mondo un po’ più giusto.
LE CAUSE 
Le cause  sono riassunte in nove punti molto precisi. Al primo posto c’è «l’indebolimento delle norme che tutelano i lavoratori» «spesso dietro pressione dell’Fondo monetario internazionale o della Banca Mondiale», compreso l’attacco ai sindacati. Molto legato a questo è il secondo punto: «Corsa al ribasso dei salari», così come in prospettiva il terzo: «Automazione e proprietà delle tecnologie» che «possono cancellare centinaia di milioni di posti di lavoro», «specie nei paesi poveri». Si passa poi allo «sfruttamento della diseguaglianza di genere» e al già citato «netto predominio dei ricchi azionisti in ambito societario». Gli ultimi quattro punti riguardano l’aspetto della finanziarizzazione del capitalismo globale. Il sesto è la «crescita del settore finanziario e deregolamentazione del capitale»; il settimo riguarda «i paradisi fiscali» che sottraggono tasse soprattutto ai paesi più poveri: «170 miliardi di dollari sufficienti a fornire un’istruzione ai 124 milioni di bambini che non vanno a scuola e a finanziare interventi sanitari che salverebbero la vita di altri 6 milioni», come sostiene l’Unesco. Anche l’ottavo – «corsa al ribasso dell’imposizione fiscale» – porta con sè un dato impressionante: considerando i 20 paesi più ricchi (G20) «l’aliquota fiscale media sui redditi societari era del 40 per cento nel 1990 ed è scesa al 28,7 per cento nel 2015», un taglio di quasi 12 punti in 15 anni. L’ultimo punto riguarda la «concentrazione delle imprese»: negli ultimi 30 anni i profitti delle imprese più grandi al mondo sono triplicati in termini reali» anche grazie alle fusioni e alle concentrazioni incentivate dal sistema.
IL GRIDO 
«Un’economia più giusta e umana è possibile Oxfam conclude il suo rapporto annuale con una serie di «raccomandazioni a governi e istituzioni internazionali». Si punta ad incentivare modelli imprenditoriali che adottino politiche di maggiore equità retributiva e sostengano livelli salariali dignitosi; di introdurre un tetto agli stipendi dei top-manager, così che il divario retributivo non superi il rapporto 20 a 1 ed eliminare il gap di genere; proteggere i diritti dei lavoratori, specialmente delle categorie più vulnerabili: lavoratori domestici, migranti e del settore informale, in particolare garantendo loro il diritto di associazione sindacale; assicurare che i ricchi e le grandi corporation paghino la giusta quota di tasse, attraverso una maggiore progressività fiscale e misure solide di contrasto all’evasione ed elusione fiscale; aumentare la spesa pubblica per servizi come sanità, istruzione e sicurezza sociale a favore delle fasce più vulnerabili della popolazione.
LA DOMANDA
Letto il rapporto, ci si chiede perché i poveri non circondino i ricchi del pianeta già da domattina. In realtà qualche segnale positivo c’è. Oxfam ha intervistato circa 10mila persone in 10 paesi e oltre i due terzi ritiene che «il divario tra ricchi e poveri debba essere affrontato con urgenza».
Un mondo sempre più ingiusto: in un anno miliardari raddoppiati, di Massimo Franchi, in “il manifesto” del 23 gennaio 2018
 
 
La politica giusta Basta dumping socio-ambientale
di Leonardo Becchetti
Il nuovo Rapporto Oxfam presentato ieri a Davos calcola che una tassa globale sull’1,5% della ricchezza dei miliardari potrebbe pagare la scuola di ogni bambino sulla faccia della terra. Viviamo dunque in un mondo ricchissimo, con opportunità enormi, ma dove diseguaglianze profondissime e livelli di povertà assoluta inaccettabilmente elevati sono alla radice di gran parte delle tensioni sociali.
Il Rapporto non dà solo i numeri del problema, ma presenta una lucida analisi delle cause e articolate proposte di soluzione. Alla radice delle diseguaglianze c’è «l’ottimizzazione dei costi » nei processi di delocalizzazione della produzione di beni (e servizi) che in una logica di massimo profitto significa corsa verso il basso sui diritti del lavoro nelle filiere del valore. Questo processo è favorito ed alimentato da un modello di finanza governato dalla ricerca del massimo valore degli azionisti, dove gli stessi dominano sugli altri portatori d’interesse. Completa il quadro l’elusione fiscale che consiste nello spostare i profitti lontano da dove il valore è prodotto e che impedisce lo ‘sgocciolamento’ della ricchezza verso il basso.
Una delle parti più interessanti del Rapporto è l’approfondimento sul settore tessile che ci consente di fotografare con ancora maggior precisione il problema. La corsa al ribasso e l’ottimizzazione dei costi, nella spasmodica ricerca di chi è più povero e disposto a lavorare in condizioni peggiori fa sì che, in India il 50% e in Cambogia e Indonesia (per citare i Paesi con i dati più eclatanti) più di un quarto dei lavoratori del settore siano sotto il salario minimo legale. Ma, a sua volta, il salario minimo in Cina, India, Sri Lanka e Indonesia è fino a 4 volte inferiore al salario che consente una sopravvivenza decente. In un mondo globale questo non è affatto soltanto un problema di quei Paesi perché questi lavoratori sono la formidabile concorrenza a basso costo ai nostri. Per poter reggere il confronto i lavoratori meno specializzati nei nostri Paesi sono pertanto costretti ad accettare condizioni di lavoro via via peggiori. E infatti, i dati del Rapporto sottolineano come nei Paesi ad alto reddito la produttività sia salita da inizio secolo a oggi di circa il 20%, ma il livello dei salari solo del 10%.
Mettendo in concorrenza lavoratori dei diversi Paesi, il capitale (beninteso la cosa riguarda anche noi, se siamo proprietari di azioni) riesce ad aumentare il suo potere contrattuale e ad appropriarsi di pezzi sempre più grandi della fetta di valore creato. La quota dei salari sul Pil (la fetta del lavoro) nei Paesi ad alto reddito scende infatti mediamente dal 10 al 6% per i lavoratori a bassa qualifica, dal 31 al 27% per i lavoratori a media qualifica e sale invece dal 20 al 24% per le superstar e i lavoratori ad alta qualifica (quelli che sono meno facilmente sostituibili e come tali hanno potere contrattuale verso i loro datori di lavoro).
Sono questi i veri problemi alla radice dei malumori di gran parte degli elettori italiani, non i vaccini o l’euro. E questi dati ci fanno capire che chi protesta ha, spesso, anche meno strumenti per poter capire la complessità del fenomeno ed è più facilmente preda di miraggi populisti.
La risposta al problema esiste, e a metterla in atto è nell’interesse di tutte le forze politiche. Si chiama contrasto al dumping sociale ed ambientale ed è qualcosa che riguarda direttamente la vita tutti i lavoratori, sia quelli dei Paesi poveri sia quelli dei Paesi ad alto reddito. Tutti i prodotti realizzati in filiere dove gli standard di lavoro sono sotto la decenza o il minimo legale devono pagare imposte sui consumi molto più elevate in modo da scoraggiare il fenomeno. Con la riforma dell’Iva europea prossima ventura l’Europa, se non vuole essere travolta dai populismi, dovrebbe finalmente decidere di rimodulare le aliquote penalizzando le filiere al di sotto di standard minimi in modo tale da evitare che il suo tratto distintivo (la dignità del lavoro), diventi nella concorrenza al ribasso globale un impaccio e un ostacolo alla competitività.
Il Rapporto indica una serie articolata di altre soluzioni, tra le quali spiccano il contrasto ai paradisi fiscali, la promozione dei diritti sindacali nei Paesi poveri ed emergenti, la progressività fiscale, percorsi di ibridazione delle imprese dove la logica del massimo profitto viene attenuata dall’obiettivo della responsabilità sociale. Dal punto di vista delle politiche pubbliche l’enfasi è sulle spese sanitarie e per l’istruzione. Salute e accesso all’istruzione e al credito sono fondamentali per le pari opportunità, ovvero per evitare che il risultato della vita non dipenda dalle condizioni di partenza (più o meno svantaggiate). Se la redistribuzione del reddito attraverso la progressività fiscale viene utilizzata per rinforzare l’investimento in questi due ambiti, sottolinea il Rapporto Oxfam, la redistribuzione alimenta la pre-distribuzione ovvero crea le premesse per le pari opportunità e per una futura minore diseguaglianza.
È altresì evidente che tutto ciò che facciamo per premiare innovazione e sviluppare talenti è di per sé una risposta al problema, perché il lavoro che si qualifica si trasforma da vittima a protagonista. Ma è altrettanto vero a livello politico che non basta creare sistemi sociali capaci di premiare innovazione e talento. Bisogna anche costruire società decenti per chi è meno qualificato e resta indietro: è su questo punto cruciale che si gioca il consenso politico presente e futuro nei nostri Paesi.
in “Avvenire” del 23 gennaio 2018
 
 
La grande diseguaglianza della società servile
di Marco Revelli
L’ultimo rapporto Oxfam sullo stato sociale del pianeta è piombato come un pugno sul tavolo dei signori di Davos. Dice che l’1% della popolazione mondiale controlla una ricchezza pari a quella del restante 99%. E questo lo riportano tutti i media. Ma dice anche di più. Dice, per esempio, che tra il marzo del 2016 e il marzo 2017 quell’infinitesimo gruppo di super-privilegiati (un paio di migliaia di maschi alfa, meno di 1 su 10 sono donne) si è accaparrato l’86% della nuova ricchezza prodotta, mentre ai 3 miliardi e 700 milioni di donne, uomini e bambini che costituiscono il 50% degli abitanti della terra non è andato nemmeno un penny (alla faccia della famigerata teoria del trickle down, cioè dello “sgocciolamento” dei soldi dall’alto verso il basso). Dice anche che lo scorso anno ha visto la più grande crescita del numero dei miliardari nel mondo (all’incirca uno in più ogni due giorni). E dell’ammontare della loro ricchezza: 762 miliardi, una cifra che da sola, se redistribuita, permetterebbe di porre fine alla povertà estrema globale non una ma sette volte!
E poi dice, soprattutto, che quella mostruosa accumulazione di ricchezza poggia sul lavoro povero, svalorizzato, umiliato di miliardi di uomini e soprattutto di donne, e anche bambini. E’, biblicamente, sterco del diavolo.
Anzi, non si limita a dirlo con l’aridità delle statistiche, confronta anche le vite dei protagonisti: quella, per esempio, di Amancio Ortega (il quarto nella classifica dei più ricchi), padrone di Zara, i cui profitti sono stati pari a un miliardo e 300 milioni di dollari, e quella di Anju che in Bangladesh cuce vestiti per lui, 12 ore al giorno, per 900 dollari all’anno (quasi 1 milione e mezzo di volte in meno) e che spesso deve saltare il pasto.
È QUESTA LA FORZA
del rapporto Oxfam di quest’anno: che non si limita a guardare il mondo sul suo lato “in alto” – a descriverne il luminoso polo della ricchezza -, ma di misurarlo anche “in basso”. Di rivelarci la condizione miserabile e oscura del mondo del lavoro, dove uno su tre è un working poor, un lavoratore povero, in particolar modo una lavoratrice povera. E dove in 40 milioni lavorano in “condizione di schiavitù” o di “lavoro forzato” (secondo l’ILO “i lavoratori forzati hanno prodotto alcuni dei cibi che mangiamo e gli abiti che indossiamo, e hanno pulito gli edifici in cui molti di noi vivono o lavorano”).
IL SISTEMA ECONOMICO
globale, plasmato sui dogmi del neo-liberismo – l’unico dogma ideologico sopravvissuto – si conferma così come quella maga-macchina globale (descritta a suo tempo perfettamente da Luciano Gallino) che mentre accumula a un polo una concentrazione disumana di ricchezza produce al polo opposto disgregazione sociale e devastazione politica (consumo di vita e consumo di democrazia). Allungando all’estremo le società, espandendo all’infinito i privilegi dei pochi, anzi pochissimi, e depauperando gli altri, erode alla radice le condizioni stesse della democrazia. La svuota alla base, cancellando il meccanismo della cittadinanza stessa: da società “democratiche” che eravamo diventati (di una democrazia incompiuta, parziale, manchevole, ma almeno fondata su un simulacro di eguaglianza) regrediamo a società servili, dove tra Signore e Servo passa una distanza assoluta, e dove al libero rapporto di partecipazione si sostituisce quello di fedeltà e di protezione. O, al contrario, di estraneità, di rabbia e di vendetta: è, appunto, il contesto in cui la variante populista e quella astensionista si intrecciano e si potenziano a vicenda, come forme attuali della politica nell’epoca dell’asocialità.
IN REALTÀ NESSUNO
dei suggerimenti che il Rapporto avanza figura nell’agenda (quella vera, non gli specchietti per le allodole) dei governi di ogni colore e continente: non la tassazione massiccia delle super-ricchezze così da ridurre il gap (anzi, le flat tax che vanno di moda stanno agli antipodi), né la riduzione degli stipendi dei “top executives”, per ridurli almeno a un rapporto di 1 a 20 rispetto al resto dei dipendenti; men che meno la promozione delle rappresentanze collettive dei lavoratori, o la riduzione del precariato. Figurano, certo, nel démi-monde della politica governante, preoccupazioni formali, dichiarazioni d’intenti o di consapevolezza, promesse e moine, puntualmente e platealmente smentite dalla pratica (Oxfam porta gli esempi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, che mentre denunciano i pericoli del dumping salariale o dell’evasione appoggiano evasori e tagliatori di buste paga e di teste, e naturalmente di Donald Trump, che mentre lisciava il pelo ai blue collar riempiva la propria amministrazione di multimiliardari e di uomini delle banche).
COME DIRE CHE L’IPOCRISIA
è diventata la forma attuale della post-democrazia. E che con questo qualunque sinistra che voglia rifondarsi non può non fare i conti.
in “il manifesto” del 23 gennaio 2018