Le parole pronunciate dal Papa due settimane fa a conclusione del suo discorso per i 60 anni dell’Ufficio catechistico nazionale hanno messo in movimento molte riflessioni e domande sul senso del messaggio – che riprendeva esplicitamente quanto Francesco disse al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze il 10 novembre 2015 – e su cosa significhi operativamente. «Dopo cinque anni – ha detto il Papa – la Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare». Cosa ci sia dentro queste parole può aiutarci a capirlo meglio il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, che ospitò l’evento ecclesiale e che sul celebre discorso del Papa alla Chiesa italiana in Santa Maria del Fiore sta impegnando la sua arcidiocesi da tre anni.
 
Intervista al Card. Betori
Eminenza, il Papa ha detto alla Chiesa italiana che «deve tornare al Convegno di Firenze ». Cosa significa?
A Firenze si è stabilito un dialogo tra papa Francesco e la Chiesa italiana a cui egli non vuole rinunciare. Dobbiamo convincerci che il Convegno deve restare centrale nella no- stra vita ecclesiale, e questo in forza di due fattori fondamentali. Il primo è dato dai contenuti del discorso del Papa, sintesi esemplare tra i fondamenti cristologici della fede e la loro collocazione nel tempo mediante un esercizio di discernimento delle condizioni culturali, sociali e religiose del nostro popolo. Il Convegno è stato, poi, esperienza reale di sinodalità: confronto reciproco illuminato dall’ascolto dello Spirito. Una fede che si misura con la storia e un processo di ascolto e condivisione: questo è stato Firenze, e questo ritengo che il Papa voglia chiederci oggi.
Lei del Convegno ecclesiale nazionale fu «padrone di casa » e animatore. Ci aiuta a ricordare cosa risultò evidente in quei giorni? E perché contenuti, percorsi e lo stesso spirito del Convegno ecclesiale – che per il Papa sono diventati semmai più importanti – sembrano essersi dispersi in questi anni?
Padrone di casa sì, animatore meno, perché il vero animatore fu monsignor Cesare Nosiglia, a cui si deve in particolare l’introduzione del metodo dei «tavoli» per l’ascolto e il confronto. Il discorso di papa Francesco diede una chiara identità al Convegno. Poi ci furono gli altri contributi e gli esiti dei «tavoli ». È però mancato ricollegare i lavori dentro gli orizzonti aperti dal Papa. E anche questo ha fatto sì che da Firenze non siano stati tratti fino in fondo i frutti, mancando la mediazione della riflessione dei vescovi per collocarlo nel contesto del cammino della Chiesa italiana, a cominciare dalla ripresa di quanto era emerso al precedente Convegno ecclesiale di Verona nel 2006 in vista di una ridefinizione della pastorale in base non alle funzioni ecclesiali ma alle dimensioni di vita delle persone e della società. È a tutti evidente che il discorso del Papa a Firenze, momento qualificante del Convegno ecclesiale, costituisce la via maestra che egli ha voluto indicare alla Chiesa italiana. Ed è altrettanto evidente che Francesco sente di dover sollecitare la nostra Chiesa a entrare con decisione su questa strada. Quanto è stato fatto finora non è sufficiente. Non che manchino tentativi in questa direzione. Noi stessi, nell’arcidiocesi fiorentina, siamo impegnati da quattro anni in un Cammino sinodale che ha a tema proprio il discorso del Papa e la Evangelii gaudium, in cui stiamo raccogliendo attese e interrogativi ma anche esperienze da condividere.
Nel suo discorso in Santa Maria del Fiore il Santo Padre chiese a tutta la Chiesa italiana di lavorare a ogni livello proprio sulla Evangelii gaudium, che delinea un vero programma per «l’annuncio del Vangelo nel mondo attuale». La Conferenza episcopale toscana l’ha fatto ricavandone un volume che lei stesso ha consegnato al Papa proprio il giorno dell’udienza. Che messaggio emerge da quell’esortazione apostolica per la nostra Chiesa oggi?
C’è ancora chi pensa che il rinnovamento della Chiesa passi attraverso una revisione delle strutture e dei rapporti tra i diversi soggetti ecclesiali. Tutto questo è spazzato via dall’orizzonte dell’Evangelii gaudium, in cui il Papa ci insegna che la vera riforma della Chiesa nasce dall’esperienza del suo proiettarsi nella storia come soggetto unitario missionario. Questa proiezione missionaria non è una novità per il cammino della nostra Chiesa. Se ne parlava già nel 1995 al Convegno ecclesiale di Palermo: allora si diceva «Chiesa estroversa», espressione non molto distante da quella preferita dal Papa di «Chiesa in uscita». Ma ciò che papa Francesco innova profondamente è collegare la Chiesa in uscita con la prospettiva di una Chiesa che va in cerca della presenza di Dio nella storia, con atteggiamento di ascolto, nella certezza che Dio la precede. A questo poi si aggiunga l’applicazione alla vita pastorale dei quattro princìpi di vita sociale che, nel loro insieme, costituiscono il modo con cui va esercitato il discernimento: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte (se ne parla in Evangelii gaudium 238-258). Il ritardo della nostra Chiesa nell’accogliere le indicazioni del Papa ritengo che sia tutto nella mancata ricezione di questi princìpi. Il volume che ho consegnato al Papa contiene quanto emerso in un incontro, promosso dai vescovi toscani, in cui abbiamo riproposto il metodo del Convegno. Da quella riflessione è emerso come la testimonianza ecclesiale debba essere presenza nel mondo di persone abitate dal Vangelo e disposte ad accogliere l’altro come fratello, offrendo ragioni di fiducia e rigenerando i luoghi della vita.
Francesco ha anche detto che la Chiesa italiana «deve incominciare un processo di Sinodo nazionale». Come interpreta questa indicazione? E cosa va fatto adesso?
È importante notare come il Papa chieda di «incominciare un processo di Sinodo nazionale». Non ci è chiesto di fare un’assemblea in cui confrontarci e decidere qualcosa sulla vita della Chiesa nella forma di un documento che raccolga decisioni prese a maggioranza, ma di metterci in movimento, aprire un processo, che deve avere il carattere della sinodalità e coinvolgere tutti i livelli ecclesiali, come dice ancora il Papa: «Comunità per comunità, diocesi per diocesi», prima di far sintesi a livello nazionale. Il carattere dinamico del Sinodo, a cui il Papa ci chiama, corrisponde peraltro al noto assioma, che ho prima richiamato, per cui «il tempo è superiore allo spazio»: occorre avviare processi più che attestarsi sui risultati, che sarebbero sempre provvisori. Non esiste un documento in cui fotografare il volto della Chiesa, perché questo volto assume linee sempre nuove nel continuo confronto con la storia. Il Sinodo a cui il Papa ci esorta è un’esperienza di attivazione dinamica della vita ecclesiale, per superare le forme cristallizzate di una pastorale che non intercetta più il cambiamento culturale e sociale.
da Avvenire, F.Ognibene, 14 febbraio 2021
 
Il Papa ci invita a tornare al suo discorso di Firenze
Domenico Mugnaini
Intervista al Card Betori
Eminenza, papa Francesco è tornato a parlare di Firenze, del suo discorso nella cattedrale di Santa Maria del Fiore del 10 novembre 2015, chiedendo di ripensare lo spirito di quel suo intervento che molti definirono storico. Cosa significa?
«È a tutti evidente che quel discorso costituisce la via maestra che il Papa ha voluto indicare alla Chiesa italiana. Ed è altrettanto evidente che papa Francesco sente di dover sollecitare la nostra Chiesa a entrare con decisione su questa strada. Quanto è stato fatto finora non è sufficiente. Non che manchino tentativi in questa direzione. Noi stessi, nell’arcidiocesi fiorentina, siamo da quattro anni in un Cammino Sinodale che ha a tema proprio il discorso del Papa e la Evangelii gaudium, di cui egli ha chiesto, per così dire, una traduzione in chiave italiana. Nelle parole del Papa è importante però notare come egli chieda di “incominciare un processo di Sinodo nazionale”. Non ci è chiesto quindi di fare un’assemblea in cui confrontarci e decidere qualcosa sulla vita della Chiesa, ma di metterci in movimento, aprire un processo, che deve avere il carattere della sinodalità – e quindi dell’ascolto reciproco ma a partire dall’ascolto dello Spirito –e che deve coinvolgere tutti i livelli ecclesiali, come dice ancora il Papa: “comunità per comunità, diocesi per diocesi”, prima di farsi sintesi a livello nazionale. Questo carattere dinamico del Sinodo, a cui il Papa ci chiama, corrisponde peraltro al suo noto assioma, per cui “Il tempo è superiore allo spazio” (Eg, 222): occorre avviare processi più che attestarsi sui risultati, che sarebbero sempre provvisori. Non esiste un documento in cui fotografare il volto della Chiesa, perché questo volto assume linee sempre nuove nel suo continuo confronto con la storia. Il Sinodo a cui il Papa ci esorta è un’esperienza di attivazione dinamica della vita ecclesiale, per superare le forme cristallizzate di una pastorale che non intercetta più il cambiamento culturale e sociale».
Una proposta che arriva a un anno dall’inizio della pandemia causata dal Covid-19 che indubbiamente sta facendo emergere nuove emergenze alle quali la Chiesa sta dando importanti risposte. Come si potrebbe quindi iniziare a pensare alla sua realizzazione?
«Il modo con cui le nostre comunità si sono poste davanti alla pandemia da una parte ci ha fatto scoprire quanto ancora fossimo legati a forme pastorali che sembravano reggere solo perché non eravamo abbastanza consapevoli di come mutasse il mondo attorno a noi; dall’altra però ci ha stimolato a creare forme nuove di vicinanza, a valorizzare luoghi di esperienza di fede come la famiglia, a creare maggiore coinvolgimento negli interventi di carità. Ora però il quadro sta mutando e stiamo assistendo a un calo della fiducia nella società in cui diventa essenziale una presenza che apra orizzonti di speranza, come pure per molti diventano drammatiche le condizioni di solitudine in cui da credenti siamo chiamati a portare un supplemento di relazioni. Infine la crisi del lavoro che tutti ci dicono che ci attende invoca un ripensamento dei canoni stessi della vita economica, che se restano gli stessi rischiano di mettere ai margini molti. In tutte queste problematiche non si deve necessariamente pensare che siamo frenati dai limiti imposti dal timore della diffusione del virus. Un processo che voglia essere comunitario deve fondarsi sulle relazioni personali e queste possono trovare forma anche attraverso le antiche e nuove modalità di comunicazione, dalla stampa al telefono e all’informatica. Ma anche valorizzando le istanze più immediate della socialità, dalla famiglia al vicinato, in attesa di tempi ulteriori per le forme assembleari».
Che significato ha l’invito a ripartire dal basso, dalle chiese locali?
«Al Papa interessa che il processo del Sinodo abbia sì una dimensione nazionale, cioè coinvolga tutte le Chiese in Italia, ma non sia un fatto di vertice. Nell’ascoltare il Papa – ero presente a quell’udienza concessa all’Ufficio catechistico nazionale, in quanto a suo tempo ne fui direttore – mi ha molto impressionato la forza con cui, parlando della catechesi e della comunità, abbia insistito, con frasi pronunciate a braccia e quindi più significative, sulla Chiesa come “santo popolo fedele di Dio”. Certamente nella Chiesa ci sono diversi carismi e ministeri, ci sono preti e laici e consacrati, ma prima di tutto c’è la comune condizione del battesimo che ci fa popolo di Dio. Ripartire dalle comunità, dalle diocesi significa riportare tutto a questa dimensione personale, comunitaria e popolare della fede. Ancora una volta il Papa ha voluto ribadire che il popolo di Dio “- come dice il Concilio – è infallibile in credendo”. La fede non scende dall’alto delle cattedre dei dottori, ma sgorga dal cuore dei fedeli dove è seminata come grazia dallo Spirito. E quel che vale per la fede vale ancor più per le linee pastorali, che devono ritrovare la loro radice nel popolo di Dio, da ascoltare e da discernere.
In realtà quando papa Francesco ha inviato una lettera al popolo tedesco, i vescovi della Germania hanno avviato un Sinodo nazionale, ha quasi rivolto loro l’invito a non aspettarsi ‘grandi soprese’. Forse serve anche in Italia più una riflessione generale sui cambiamenti della società che della Chiesa?
«Con tutto il rispetto per i fratelli cattolici tedeschi, il nostro punto di riferimento non può essere il loro Sinodo. Contenuti e metodo del nostro Sinodo sono già scritti nel discorso di Papa Francesco a Firenze. Anzitutto il fondamento va cercato nella contemplazione di Cristo e non in un’analisi sociologica e neppure nelle nostre controversie ecclesiali. Occorre ripartire da umiltà, disinteresse e beatitudine, e trovare nei sentimenti di Gesù la figura della pienezza dell’umano: “Ecce Homo”, così si presenta il Risorto sulla volta della nostra cupola! E di umanesimo cristiano come capacità di dare dignità a ogni persona il Papa è tornato a parlare nel discorso di Roma. Cristo e l’uomo: abbiamo già i contenuti su cui riflettere. Ma l’altro aspetto del suo discorso fiorentino ripreso da parte del Papa è la proiezione della Chiesa verso il mondo. E qui tocchiamo contenuto e modalità al tempo stesso del cammino da fare. Guai a noi se pensassimo al Sinodo come un riassetto degli equilibri ecclesiali. Quel che ci viene chiesto è invece una proiezione senza esitazioni nelle vicende del mondo, a costo di “sporcarsi con il fango della strada” (Eg, 45), come ama dire il Papa, pur di essere vicini, partecipi delle vicende degli uomini e delle donne del nostro tempo. Meno attenzione ai nostri mal di pancia e sguardo più penetrante, cuore più accogliente, progettualità più coraggiosa verso le povertà e le miserie del mondo».
Alle parole del Papa lei ha fatto seguito presentandogli il libro degli atti del convegno organizzato a Firenze dalla Cet proprio sulle tre parole ‘Umiltà, disinteresse, beatitudine’. Una felice coincidenza?
«Non potevo sapere che il Papa avrebbe concluso il suo discorso sulla catechesi con i ripetuti richiami a Firenze e l’esortazione ad avviare il processo del Sinodo nazionale. Sono stato ovviamente lieto di mostrare al Papa come i vescovi toscani fossero in sintonia con le sue attese e che sperano poter presto riprendere la riflessione iniziata nel novembre 2019 con altri momenti di confronto che possano sostenere il cammino sinodale delle nostre Chiese».
da Toscana Oggi, 15 febbraio 2021