Se è vero che non esiste interculturalità senza un dialogo che sia basato sulla conoscenza, allora è inevitabile chiederci in che misura si possa affrontare il progetto interculturale eliminando una delle componenti più diffuse e più profonde delle culture: la religione.
Come mai il sacro è un territorio sottratto al dialogo interculturale?
Si preferisce eliminare la dimensione religiosa dello scambio interculturale perché si teme di inoltrarsi in un territorio “minato” in cui sarebbe impossibile evitare di ferire sensibilità, toccare quello che per molti va ritenuto intoccabile. Questa “evasività” crea una sorta di angolo cieco in cui si radicano incomprensioni reciproche, distorsioni, caricature, ostilità. Il risultato è quello di un’intercultura monca e come tale esposta a fallire il proprio ambizioso disegno di apertura e comunicazione trans-culturale.
Il convegno si occuperà esclusivamente della dimensione culturale e in nessun modo affronterà tematiche relative al dialogo interreligioso. Per questo motivo saranno chiamati a partecipare al convegno esperti di religione (storici, sociologi, psicologi) ed esponenti della “cultura religiosa”, ma non religiosi in quanto tali. Sarà molto importante, confermando la costante attenzione della Fondazione Intercultura al nesso fra teoria e prassi, coinvolgere anche operatori con esperienze concrete di lavoro con soggetti di fedi diverse.
Proprio perché la focalizzazione principale del nostro discorso è quella dei giovani, sarà essenziale sottolineare l’importanza di separare due aspetti profondamente diversi e compatibili purché si eviti di confonderli: la “dottrina” e la “cultura religiosa” (con i suoi aspetti attinenti la storia, l’arte, la letteratura). La dottrina religiosa spetta alle religioni, alle loro istituzioni e al loro clero. La cultura religiosa deve necessariamente fare parte di una formazione per tutti.
Bisogna far emergere dal convegno un appello a trasformare il “silenzio del sacro” nelle “voci del sacro”. Voci di autentico rispetto (che non è compatibile con un silenzio in cui si annida l’incomprensione quando non una silenziosa ostilità) e di dialogo, certo non compatibile con il silenzio.
Descrizione
Il convegno ha ottenuto il patrocinio di:
Segretario Generale del Consiglio d’Europa Mr Thorbjørn Jagland
Regione Puglia
Comune di Bari
Università degli Studi “Aldo Moro” Bari
Collaborazioni:
Laboratorio di Pedagogia Interculturale, Gruppo di ricerca “Religioniindialogo”, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione dell’Università degli Studi “Aldo Moro” – Bari
Il convegno durerà 3 giorni. Ogni sessione conterrà una serie di workshop o seminari in parallelo, della durata di due ore, a cura di esperti che proporranno brevemente un argomento di loro interesse e lo discuteranno con le persone che avranno scelto quel seminario. Il giorno successivo i relatori riassumeranno in plenaria i punti principali emersi dalla discussione, attraverso delle brevi video-interviste.
I lavori si svolgeranno presso l’Hotel Romanazzi Carducci, Via Capruzzi 326 – 70124 – Bari
 
 
Specialisti a confronto sulla natura culturale delle varie confessioni
di Antonio Calitri
Nel confronto tra persone di culture diverse si tende a evitare il dialogo sulla religione per non calpestare un terreno minato. In questo modo però, si rischia di avere un confronto con l’altro soltanto parziale. Per questa ragione la Fondazione Intercultura Onlus, da domani al 2 aprile organizza a Bari il convegno «Il Silenzio del Sacro», giornate di studio e confronto tra esperti internazionali non sul dialogo tra religioni ma convegno internazionale su  che costituisce il fondamento dell’individuo.
Un’esigenza individuata dall’esperienza sul campo della Fondazione Intercultura e dell’omonima associazione che nei suoi 62 anni di vita ha permesso lo scambio internazionale di quasi 70 mila studenti. Adolescenti che decidono di passare il quarto anno delle superiori all’estero, in scuole straniere ma anche in famiglie selezionate dove vivono la vera cultura del paese ospitante. O studenti stranieri che vengono in Italia e vivono in famiglie italiane, avendo un confronto intenso e uno scambio culturale totale.
Per Roberto Ruffino, segretario generale della Fondazione Intercultura e tra i pionieri dello scambio giovanile come occasione di formazione interculturale e di educazione alla mondialità «i conflitti provocati dalla religione da un lato sono fondati sull’ignoranza. Tutti noi cristiani, musulmani, atei, ecc. spesso fondiamo le conoscenze religiose su rituali e non sull’essenza della religione. Per il cattolico le religione è andare a messa la domenica ma questo è un rituale, non la religione. Per i musulmani la religione è fare certi gesti, non mangiare certi cibi. Si tratta di una religione molto ritualizzata e lo scontro che si crea è spesso tra riti diversi, più che sull’essenza della religione».
A questo va aggiunto continua, «che in molti paesi la religione si è trasformata in un credo politico, per cui diventa scontro come associazione politica, la religione diventa il pretesto per altro. Infine, almeno nell’occidente la modernità ha relegato la religione nel privato e sembra poco politicamente corretto mettersi a parlare di queste cose. Ognuno dovrebbe praticare o non praticare la sua religione nella sfera provata, senza andare a scocciare gli altri». Da tutti questi elementi viene fuori che la religione, prosegue Ruffino, «diventa una specie di argomento tabù, compreso poco, male, spesso politicizzato». Per queste ragioni, «con questo convegno vogliamo dire che bisognerebbe parlare di queste cose come si parla di quello che ho mangiato ieri, nessuno ha timore a dire cosa ha mangiato ma ha timore a parlare di religione, anche perché gli alimenti li conosce, la religione invece la conosce molto poco e c’è sempre l’impressione di andare su un terreno minato». Un tema attualissimo, aggiunge il professor Paolo Inghilleri, ordinario di psicologia sociale dell’Università degli Studi di Milano e tra i relatori del convegno, «perché riguarda gli adolescenti in un’età in cui è importante riuscire a differenziarsi dai valori della famiglia per poi riacquistare una certa continuità. Confrontarsi con altre culture aiuta questo processo di differenziazione perché posso impadronirmi di altri mondi e nello stesso tempo scegliere di appartenere alla mia cultura. Se fino a pochi anni fa questo confronto riguardava solo quei ragazzi che potevano fare un anno di studio all’estero o viaggiare, la grande novità è che adesso a scuola posso confrontarmi con altre culture, altre religioni, altri punti di vista». In questo processo conclude Inghilleri, «la religione dal punto di vista della psicologia del profondo diventa uno degli elementi che danno il senso di esistere in una comunità, in una famiglia, in una storia. E uno dei tanti fattori che ci danno una garanzia di appartenenza anche molto profonda e in parte inconscia».
in “Corriere della Sera” del 30 marzo 2017
 
 
Giovani, capire il Dio degli altri
di Francesca De Benedetti
Meglio non parlarne: magari a tavola sì, magari in famiglia. Ma non alle feste, non nelle discussioni pubbliche, non fuori dalla propria cerchia. L’ultimo tabù è lei, la religione. Basti osservare cosa succede oltre oceano: ben la metà degli statunitensi non parla di questo tema in pubblico (alcuni, il 33 per cento, lo fanno raramente, ma altri, quasi due su dieci, non lo fanno proprio mai, dicono i dati del Pew Research Center). Eppure a questo silenzio quotidiano si affianca sempre più spesso il rumore degli “ismi” sui titoli dei giornali: i fondamentalismi, gli integralismi, i terrorismi a sfondo religioso.
Qualcuno ha pensato che tra il silenzio e il rumore bisognasse creare un terzo spazio, il dominio della parola. Una zona franca pensata soprattutto per i più giovani, per la “generazione con la valigia”: sì, è vero, è meno religiosa delle generazioni precedenti, ma conserva la stessa curiosità per il sacro e anzi una maggiore apertura al dialogo.
La zona franca dove cominciare a discuterne si apre a Bari dal 31 marzo al 2 aprile: la Fondazione Intercultura organizza il convegno “Il silenzio del sacro. La dimensione religiosa nei rapporti interculturali”, con Diane Moore di Harvard ospite d’onore e un parterre di accademici di tutto il mondo. Ma attenzione, precisano gli organizzatori: l’obiettivo non è avviare un dialogo interreligioso, non è far sedere allo stesso tavolo le diverse teologie, ma creare una “comunicazione trans-culturale”. A parlare non saranno religiosi, ma semmai esponenti della “cultura religiosa”, storici, sociologi, psicologi. Il dibattito non è fine a se stesso, è pensato anzi per offrire nuove prospettive interculturali ai millennials. Oggi li chiamiamo “generazione Erasmus”, ma prima che nascesse trent’anni fa il progetto europeo, già dal 1955 l’associazione Intercultura faceva da apripista con gli scambi per i ragazzi delle scuole medie e superiori. In oltre sessant’anni, tanti piccoli Ulisse si sono avventurati per conoscere l’altro e una volta tornati hanno raccontato le loro esperienze con il rito del “Narritorno”. Centinaia di storie e un filo rosso, nota il professor Alberto Fornasari dell’università di Bari, che è un formatore di Intercultura e fa parte del cda dell’associazione: «Per i più piccoli che cambiano Paese, scuola, famiglia, la dimensione culturale delle religioni entra nel vissuto quotidiano, a cominciare dalle pietanze, le feste, le usanze. Non è necessario credere, per sperimentare tutto questo; basti pensare a uno studente canadese che si trova a Taranto durante la settimana dei misteri. Finché considereremo il sacro un terreno minato, non potremo mai aprirci al dialogo né ridurre le ostilità. I ragazzi si fanno le loro idee, magari sul web, ma proprio lì può insinuarsi la trappola degli stereotipi. Quando esperiscono l’altrove, invece, imparano a adattarsi».
La generazione con la valigia – i ragazzi nati con la vocazione degli scambi a scuola, dell’Interrail, dell’Erasmus, quelli che hanno il globo a portata di tastiera è in effetti la più elastica, anche in fatto di religioni. Interessante scoprire dai numeri del Pew Research Center che esiste un vero e proprio gap generazionale – ed è profondo, supera il 25 per cento – perché i più giovani non considerano l’appartenenza religiosa dei loro coetanei come un requisito fondamentale per considerarli appartenenti alla loro stessa nazionalità. I ragazzi sono i più aperti. Non significa che siano meno attenti alla dimensione spirituale dell’esistenza, anzi. Provate a mettere in fila le generazioni: dalle più anziane alle più giovani, c’è la silent generation, poi i baby boomers, la Generazione x, infine i millennials. Guardate poi quanto considerano importante la religione: 67 per cento, 59 per cento, 53 per cento, 41 per cento.
Ma in questa lenta scivolata c’è anche la sorpresa: quando si tratta di interrogarsi sull’esistenza, i giovani si comportano esattamente come i giovani che furono. Pregano di meno, ma si fanno le stesse domande. Così dicono i numeri dello statunitense Pew, ma vale anche per l’Italia. Giuseppe Giordan, sociologo dell’università di Padova, nota che «nel nostro Paese un giovane su quattro interpreta la spiritualità come ricerca di armonia. Una spiritualità contemporanea che lo porta a non dare nulla per scontato», dice lui che sarà relatore al convegno. E aggiunge: «Proprio per questo loro interrogarsi, i ragazzi non hanno paura del confronto con tradizioni religiose diverse da quella in cui sono nati». Un dialogo tra culture: comincia a Bari, per la generazione con la valigia e finisce lontano.
in “la Repubblica” del 30 marzo 2017