Per rispondere alla chiamata di Biennale Teatro sulla censura, il regista, drammaturgo e performer Daniele Bartolini ha scelto il tema culturale del momento, la cancel culture. Che però è anche il tema più spinoso e controverso che potesse selezionare. Così ha concepito The Right Way, sostenuto dall’Ambasciata canadese a Roma e da Villa Charities, il centro italocanadese a Toronto: spettacolo per un solo spettatore che apre e chiude la Biennale.
Ogni giorno, a Cà Giustinian, per venti minuti a turno, tra le 10 e le 20, si va in scena dal 15 al 21 settembre.
È prevista interazione con gli attori, utilizzo di un casco di realtà virtuale e pure alcune scene di nudo, per cui il tutto è adatto a un pubblico adulto: il fine è indagare, insieme a chi guarda, le conseguenze sulla produzione artistica e culturale di una nuova forma di censura.
 
L’intervista a Daniele Bartolini 
 
Censura nel 2020, in Occidentale: pareva impossibile.
«Il mondo nordamericano e forse anche british attraversano un cambiamento radicale, mai visto prima. Se ne parla tanto, ma mi pare non ci sia comprensione esatta di ciò che sta accadendo nelle menti delle persone: le voci alle quali viene dato un microfono e consentito di esprimersi non sono più tutte quelle di prima».
Come ha deciso di affrontare la questione?
«Come se fossi un reporter che torna da un viaggio: il mio non è un atto di polemica, però la cancel culture qui in Canada, come in tutti gli Stati Uniti, è ormai un discorso enorme. Se commetti un errore o fai qualcosa che può essere ritenuto offensivo presso gruppi ritenuti di minoranza, si crede fermamente che tu debba sparire, essere cancellato, perdere il tuo posto di lavoro».
Le conseguenze sull’arte?
«Ad esempio, circolano documenti sulla revisione del linguaggio di Shakespeare, che potrebbe essere offensivo rispetto ad alcune minoranze. Ora, che tu lo ritenga giusto o no, è una correzione rispetto a un materiale che ha cinque secoli. Qui, ora, ha molto valore chi crea un’opera più ancora dell’opera, quindi ci si chiede: chi è autorizzato a parlare di determinati argomenti e chi non lo è? Ci viene detto che non possiamo parlare più di tutto: eppure di alcune cose, anche se non abbiamo conoscenza, abbiamo sensibilità».
Qualche esempio?
«Sean Penn fece Milk (un film sul primo gay dichiarato a essere eletto a una carica politica negli Usa, ndr) come attore trasparente che entra in qualcosa che non conosce: adesso si sta diffondendo l’idea che per parlare di una cosa devi far parte di quel gruppo».
Quindi per interpretare un omosessuale devi essere omosessuale o aver «militato» come omosessuale?
«Diciamo di sì. Al Pacino che in Scarface faceva il cubano oggi potrebbe essere ritenuto un caso di appropriazione culturale. Ricordate la black face di Carmelo Bene in Otello? Sarebbe inconcepibile, anzi, per qualcosa che andrebbe eliminato da un copione o da un testo, pena la mancata produzione artistica o rappresentazione o pubblicazione, è stata coniata un’espressione: problematic. Molte persone si stanno spaventando e non si stanno esprimendo per via della cancel culture perché non l’hanno mai affrontata. Altri stanno prendendo le misure e credo che presto ci saranno una serie di reazioni».
In che modo The Right Way indaga questa forma di censura?
«Mi sono chiesto che cosa perdiamo quando cerchiamo di essere a tutti i costi inclusivi e tolleranti, che cosa cerchiamo di cancellare per fare ordine. Quale può diventare quindi il ruolo dell’arte e dei suoi necessari meccanismi sovversivi? Oppure l’arte deve addirittura prestarsi a divulgare questi concetti?».
Che cosa accade nello spettacolo?
«Il mio artigianato teatrale avviene di solito fuori dallo spazio scenico teatro/platea e avviene in un ambiente site specific. In The Right Way lo spettatore entra nel cervello di un regista che si occupa di teatro di narrazione, il mio, attraverso un microfilm fatto in 3D con la virtual reality. E vede immagini legate ai temi di censura e autocensura contemporanea. Tolto il casco di realtà virtuale, lo spettatore dovrà provare a creare o correggere un’opera in diretta su un set cinematografico».
Su che cosa hai lavorato per il serbatoio di questo disorientamento?
«Alcuni punti di partenza sono stati la problematicità dell’essere bianco oggi o dell’essere italiano in Nord America rispetto alle minoranze, alla sessualità. Che cosa accade nella testa di un individuo nel momento in cui c’è un movimento molto forte che ti sussurra che cosa è giusto pensare e come è giusto agire? Sotto la spinta di queste censure, creeremo un mostro? Politicamente corretto ormai non va inteso nel senso di politicamente bilanciato, ma di rettificato con una correzione politica: quello che racconto è un processo di morte di un certo modo di intendere il fare cultura e il fare teatro».