Polvere è una parola bellissima. La frase che sancisce il mercoledì delle ceneri, Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris, non è un memento mori, è momento d’estasi. “Polvere sei e polvere ritornerai”, dice Dio ad Adamo (Gen 3, 19), sigillando la fine del suo regno in Eden – stipulando una speranza ulteriore. In ebraico polvere si dice afàr; alla cacciata Dio fa seguire una promessa, “renderò la tua discendenza come la polvere della terra” (Gen 13, 16), dice ad Abramo. L’uomo è formato dalla polvere (“Allora Dio plasmò l’uomo dalla polvere”, Gen 2, 7), per cui essere consapevoli che siamo polvere e polvere torneremo è rimetterci nelle mani di Dio, dargli il modo di darci altra vita. Cedere la carne alla moltiplicata possibilità, irradiare l’io nel milione. La polvere è materia fine, sabbia che dilaga, occlude occhi e narici: come l’uomo. “Chinato, scriveva con il dito sulla terra” (Gv 8, 6): Gesù redige il nostro destino di polvere, rimedita il creato.
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Le ceneri, tuttavia, sono state incenerite dal virus. Ieri in questa fetta di mondo contagiato, in Romagna, i preti non hanno dato le ceneri, sconfitti dalla pandemia dei terrorizzati. La fede non consola più, conforta nella certezza del morbo. Non siamo più polvere che rotola a spirale nella polvere: un antibiotico – cioè: ‘contro la vita’ – ci darà la vita eterna. La liturgia telematica mi sembra una blasfemia, le basiliche svuotate il barrito della sconfitta. Credere nel miracolo più che nella scienza miracolosa è l’intimo eroico del cristiano. Propendere per il rischio dandosi in pasto alla provvidenza. Ogni deviazione dalla devozione è ammissione di resa.
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Al battesimo con l’acqua segue quello con la cenere: appena nasci (l’acqua) è bene ricordare che morirai (la cenere). Il mercoledì ‘delle ceneri’ precede la Quaresima, la quarantena del cristiano. L’unzione con la cenere prepara la sfida al deserto, all’isolamento, al digiuno dal mondo.
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La Quaresima replica i quaranta giorni di latitanza nel deserto di Gesù – il bronzo della tentazione, il tuffo nel dubbio. Lo stesso Spirito che appare “in forma di colomba” (Mt 3, 16) riconoscendo il battesimo di Gesù per mano di Giovanni (“Questi è il mio Figlio, l’amato”, Mt 3, 17), spinge il Nazareno nel deserto, tra le zanne di Satana: “Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo” (Mt 4, 1). Al riconoscimento segue la prova; il battesimo è il virus cui segue la quarantena, la solitudine, la lotta.
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Il male preme, con alta dottrina intellettuale, nel momento della fame (“Digiunò per quaranta giorni e quaranta notti: infine, ebbe fame”, Mt 4, 2; di che tenuta è la fame di un dio?). Ciò che offre il diavolo a Gesù corrisponde al bene del mondo. È buono, giusto, corretto accettare il contratto con il demonio: egli concede cibo (cioè, sfamare i bisognosi), potere sul mondo (cioè, regnare con giustizia), dominio sugli dèi (cioè, realizzare ora, qui la vita eterna). Gesù rifiuta. Da un lato perché la tentazione piaga ogni intenzione in dittatura (l’orrore accade sempre a fin di bene, per tutelare il bene di alcuni si decide che altri siano puniti). Dall’altro perché “non di solo pane vive l’uomo” (il versetto compiuto è da Deuteronomio e racconta la quarantena degli Ebrei nel deserto d’Egitto: “ti ha fatto percorrere quarant’anni nel deserto… ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna… per farti capire che l’uomo non vive di solo pane, ma vive di ciò che sgorga dalla bocca di Dio”, Dt 8, 2-3). L’uomo è dedito ad altro che al cibo, la sua fame è d’altra nitidezza, è famelico del viso invisibile, vuole assalire. La quarantena superficiale è risolta dal Nazareno così, con parole su cui fondare la cattedrale della propria gloriosa insussistenza: “Non affannatevi per il cibo utile a vivere, per i vestiti del corpo. La vita è più del cibo, più dei vestiti. Considerate la vita dei corvi: non seminano, non mietono, non hanno granai, eppure Dio li nutre; e voi siete più importanti degli uccelli” (Lc 12, 22-24).
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Secondo Sergio Quinzio, nel deserto è Dio che tenta se stesso. “Tentatore e tentato sono in definitiva Dio stesso: in Giobbe è Dio a tentare abbandonando il suo fedele a Satana, ma è scritto che Dio sta nella tribolazione con il suo fedele. Il tentatore del Messia parla con le parole della Scrittura, la tentazione s’inscrive cioè tutta all’interno di Dio. Il tentatore è ‘diavolo’, ‘gettatore di divisione’ nell’unità di Dio: tentando, svela nell’unica parola divina la contraddizione fra promessa di potenza, di vittoria, di gloria e annuncio di impotenza, di sconfitta, di umiliazione. È la divinità di Dio che è messa in questione, che si espone al rischio del nulla”. Dio affronta il suo niente, si polverizza, si pone in quarantena.
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Il vero battesimo è il deserto, la quarantena. Dopo aver vinto il tentativo del tentatore, “degli angeli si avvicinarono a lui per servirlo” (Mt 4, 11). La tentazione non ha termine, lo dice Luca – “il diavolo si allontanò da lui per un certo tempo”, 4, 13 – eppure, dopo la quarantena nel deserto Gesù, “con la potenza dello Spirito” (4, 14) comincia l’opera dell’insegnamento.
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Marco non racconta l’esito della tentazione, si limita a dirci che “Egli rimase nel deserto quaranta giorni, tentato da Satana” (Mc 1, 13). Senza la quarantena non s’incatena il verbo a Gesù. Marco accenna a ciò che nessun altro dice: “Era con le bestie e gli angeli lo servivano” (Mc 1, 13). Gli angeli servono Gesù, si abbeverano dalle sue mani – ma Gesù è appropriato tra le bestie, è bestiale, appartato nel deserto, impara la visione del cobra, l’estro dello scorpione, la spirale dell’avvoltoio, il guaito serale dello sciacallo. (d.b.)
*In copertina: Ivan Kramskoj, “Cristo nel deserto”, 1872
 
Pangea, 27 febbraio