Baruch Spinoza scrisse nella IX Proposizione della terza parte dell’Etica che la mente si sforza di perseverare nel suo essere.
Spinoza commentava poi tale Proposizione nel successivo Scolio:
«Verso nessuna cosa noi ci sforziamo, nessuna cosa vogliamo, appetiamo o desideriamo perché la giudichiamo buona; ma, al contrario, che noi giudichiamo buona qualche cosa perché ci sforziamo verso di essa, la vogliamo, l’appetiamo e la desideriamo».[1]
L’espressione potrebbe essere malintesa, se fosse compresa nel senso di una completa arbitrarietà nell’indicare ciò che è buono e desiderabile senza nessuna ragione particolare, in base cioè ad una decisione che non avesse alcun motivo fuori dalla volontà del soggetto. Ma non è necessario prendere questa interpretazione.
Il pensiero di Spinoza dice invece di una percezione non soltanto perfettamente condivisibile, ma pure suggestiva e ricca di piste per una prassi educativa.
Spinoza ricorda che una realtà si afferma che sia buona innanzitutto nell’esperienza, con tutti i suoi passaggi di ricerca, di attesa, di carenza e di elaborazione. Prima di essere una teoria, una cosa ritenuta stimabile, un valore, è una storia di vita, un percorso umano. L’affermazione dei valori è quindi questione pratica sin dal primo momento del loro riconoscimento, passando per la loro accoglienza e maturazione, per giungere anche alla codificazione culturale nelle più variate forme.
L’approccio ai valori avviene sempre nella convivenza umana, perché in realtà i valori sono avvertiti inizialmente negli altri.
Il dinamismo imitativo accompagna poi la personalizzazione dei valori. Un ragazzo e un giovane che abitano un contesto di comportamenti generosi, responsabili e solidali saranno più portati a esprimere tali valori, in forme però singolari poiché la qualità mimetica dei valori non sopprime lo spazio di creatività personale. Nell’intreccio tra questi due aspetti di accettazione e di elaborazione dei valori si pone l’attività più decisiva della crescita dell’individuo, coniugando la socialità e l’autonomia, la relazione e la solitudine, la dipendenza e l’identità. Anche qui sta il ruolo dell’educatore.
I valori, così vissuti come esperienza libera e consapevole, diventano pure racconto, e acquistano una forma narrativa.
I valori sono un evento del linguaggio. Richiedono e promuovono un proprio vocabolario. Il passaggio all’espressione non è poi secondario nella vicenda dei valori, che nel loro diventare parola compiono un salto nell’appropriazione personale: per paradosso nel momento che sono comunicati i valori diventano più personali, facendo parte dei propri discorsi, della propria memoria e della propria presentazione.
L’esperienza dei valori è un’urgenza antropologica e questione di identità.
La posta in gioco è vitale. Una determinata cultura che non sapesse dire dei propri valori, sarebbe in una situazione di gravissima sussistenza. Il modo concreto di gestire la corporalità, la libertà, la mondanità e la socialità configurano l’esistenza umana. Tutte le parzialità, dissociazioni ed esclusioni nel vissuto concreto determinano pesanti conseguenze per la vita delle persone. Basti pensare alle forme di negazione dell’essere soggetti corporali, anche sotto comportamenti ossessivi, oppure ai vari cedimenti di fronte alle strumentalizzazioni, e alle tendenze privatistiche e violente. L’abbandono di valori condiziona l’esistenza umana.
Il modello antropologico è dato con i valori realmente operativi, che dicono della qualità di un individuo e di una cultura. In relazione ai valori esiste pur sempre una sorta di delusione, che sorge dalla distanza tra un ideale e la sua particolare realizzazione. Sarà anche compito dell’educatore trattare tale momento: senza negare il valore, senza abbandonare l’impegno.
 
[1]   B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, in: Tutte le opere, = Il Pensiero Occidentale 123, Milano, Bompiani 2010, p. 1333.
 
Antonio Escudero