“Vegliate e pregate in ogni momento”, dice Gesù secondo Luca (21, 36). Su questo versetto poggia l’idea – a tratti, nell’arco della storia cristiana, presa come eresia, dacché all’agire nel mondo si prediligeva la contemplazione dell’altro mondo, alla sapienza tra i grandi del tempo l’insipienza e l’estasi dell’eremitaggio – che quintessenza dello stare in Dio sia pregarlo. Si riduce il vocabolario all’orazione, la retorica a una formula: “Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, pietà per me peccatore”. Lo zenit della “preghiera incessante” ha il campione in Evagrio Pontico (“De Oratione”) e nell’enigmatico Macario/Simeone, stanziato in eresia, secondo cui “per l’uomo insidiato dal male, la preghiera è anzitutto sforzo, perseveranza nel gridare a Dio, nel bussare e nel cercare da lui la liberazione… la vera preghiera deve essere continua, perché il male opera sempre” (in Macario/Simeone, “Discorsi e dialoghi spirituali”, 1988, p.17). “I saggi… devono essere sempre solleciti e pregare sempre. Infatti il male che è in essi, il fumo e il peccato cresciuto con loro, scorrono sempre, come una fonte; i pensieri fanno guerra all’anima non stanno mai in ozio: non vi sono pensieri solo quando preghi, ma germinano sempre, anche quando fai qualcosa di necessario, e quando riposi. Allo stesso modo, anche tu devi combattere sempre”. Il cristianesimo è inteso da Macario/Simeone – o Pseudo-Macario – come una lotta costante, da contrastare con la preghiera incessante. Da questo terreno, s’elevano, mirabili, i “Racconti di un pellegrino russo”, testo carismatico e narrativo sorto dal polmone ortodosso nel XIX secolo, che forgia la figura dello ‘jurodivyj’, lo ‘stolto in Cristo’, il ‘folle di Dio’, alieno al mercato umano, al mercanteggio clericale. Quel testo, necessario, reso da Milli Martinelli per Rusconi nel 1973, è stato introdotto da un insuperabile testo di Cristina Campo di cui qui propongo alcuni brandelli. (d.b.)
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“Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro”. Questa apertura, tra le più ammalianti della letteratura di ogni paese – comparabile a quella dell’Amleto o della Storia del facchino di Bagdad – inaugura insieme un grande trattato spirituale, un romanzo picaresco, un risplendente poema russo e una fiaba classica. Nel misterioso testo anonimo trascritto sull’Athos dall’abate Paissy del monastero di S. Michele Arcangelo dei Ceremissi presso Kazan’ intorno al 1860, la fiaba per una volta si mostra senza maschera, mostra cioè quello che tutte le grandi fiabe sono copertamente: una ricerca del Regno dei Cieli, l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto di un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo “che è dietro quello vero” soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti. Come quell’eroe nordico che a ogni prezzo voleva “imparare a rabbrividire”, il Pellegrino russo è risoluto a procedere all’infinito dinanzi a sé oltre le steppe e le foreste, le città e i villaggi, oltre l’interminata curva del globo se occorra, purché gli sia svelato il senso di tre parole dell’apostolo Paolo udite per caso entrando in una chiesa: “Pregate senza intermissione”. Di questo comando, che gli appare subito fatidico ed iperbolico (come pregare senza intermissione, occupati come siamo a pressoché ininterrottamente vivere?), il Pellegrino trova abbastanza presto la chiave. Un incantevole genio, quello starets che è difficile dire se egli lo incontri in corpo o in ispirito, tanto la morte che li separa poco dopo si rivela incidente trascurabile, dal quale il loro estatico dialogo non è neppure momentaneamente sospeso, gli consegna una antica e possente formula sacra, una invocazione brevissima nella quale è contenuto il Nome “che è sopra ogni nome e al quale piegano il ginocchio il cielo, la terra e gli inferni”: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”. Altri due talismani accompagnano il dono e hanno, come lo schiavo della lampada di Aladino, il compito di insegnarne l’uso: un libro dal titolo singolare: Filocalia o Amore della Bellezza, e un rosario ritualmente intrecciato, ogni nodo formato da sette nodi, sul quale scandire infinitamente la formula. Il racconto del Pellegrino russo non è se non la cronaca della sua stupefatta ed ebbra convivenza con la Preghiera del Nome. È questa la gemma portentosa il cui fulgore protegge il corpo e illumina l’intelletto, disvela cose lontane e ammansisce le fiere, vince tutti i cuori, sazia tutti i bisogni e tramuta tutti i paesaggi. Non solo: è anche una presenza, vivente al punto, e al punto dolcemente imperiosa, che un bel mattino “è la Preghiera a svegliarlo”, e dopo sarà sempre lei a sollecitarlo, a stringerlo nel suo anello di prodigi, nella sua mandorla di beatitudine…
Resta l’enigmatico precetto che è il cardine su cui ruota non il Pellegrino soltanto ma tutta la contemplazione bizantina: “discendere dentro il proprio cuore”, “riportare la mente nel cuore”, “ricondurre l’attenzione dalla mente nel cuore”, perché là dentro dimora Iddio e là dentro bisogna incontrarlo. Sembra il rovescio perfetto dell’uscire dall’io della mistica occidentale, del suo “gettare il cuore e la mente in Dio” dimenticando il corpo dietro di sé come una casa deserta. Talché è dell’Occidente il rapimento estatico che trae l’anima fuori dai sensi, la levitazione che svelle il corpo da terra quasi a fargli seguire la mente scoccata in alto. In Oriente, il corpo inabitato da Dio nel segreto del cuore si accende di luce e quasi di gloria, come quello di san Serafino di Sarov, che rifulse come un sole dinanzi agli occhi di un atterrito signor Motovilov. Ma poiché in tali dimensioni non vi è alto né basso non fuori né dentro, e il centro del cuore non è altra cosa dall’infinito dei cieli, né l’atomo dalle galassie, e le parole perdono ogni precisa direzione, le due esperienze non sono in realtà due ma una sola. Si potrebbe parlare di un doppio e simultaneo movimento dello spirito che si ritrae cercando Dio nella segreta stanza del cuore e trova in quel centro l’infinito nel quale lanciarsi… Così la grande stirpe russa degli iurodivi e degli stranniki, i vagabondi e folli per amor di Dio, ha la sua testimonianza occidentale, più ancora che negli antichi pellegrini e romei quali Rocco di Montpellier, in quel gaudioso, tenero ed inflessibile accattone perennemente “errante di luogo in luogo”, da Compostella a Bari, da Loreto a Montserrat e di basilica in basilica romana fino a morire sui gradini di una di esse, Benedetto Labre: tra le cui reliquie, puri stracci irrigiditi dal fango, sono un rosario e due libri: il Breviario e le Vite dei Santi Padri. Quei Padri stessi che il Pellegrino ritrova nella FilocaliaQuelle Vite che, tramandate da scribi greci, copti, siriaci, attraverso Bisanzio e la letteratura ecclesiastica slava fondarono in qualche modo lo stile narrativo puramente russo, dal Pellegrino a Gogol a Dostoevskij a Cekhov. Stile narrativo che non ha l’aria di voler finire se molto della sua monumentale innocenza e dignità troviamo ancora nel linguaggio liturgico di Pasternak, nei brevi apologhi severi di Solzenitzin, nei bianchi fogli di taccuino di Andrej Siniawski.
Cristina Campo