Riprendiamo da Civiltà Cattolica, quasi integralmente, questo interessante contributo che ci pare utile per una riflessione aperta alla fantasia e creatività assolutamente necessarie per ripartire e ricostruire.
Papa Francesco ha detto che proprio questo tempo segnato dalla crisi, legata alla pandemia da Covid-19, è un «tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci»[1].
Il coronavirus è, a suo modo, un alieno. O meglio: invadendo i nostri corpi, all’improvviso ci ha modificato lo sguardo, ci ha costretti a uno sguardo alieno, e noi abbiamo visto il mondo ribaltato. Da quella piazza San Pietro vuota, il 27 marzo scorso, Francesco ha parlato di una «immunità necessaria». Ma questo perché il virus è diventato metafora che svela un «mondo malato». L’immunità al virus diventa immagine dell’immunità necessaria contro il male del mondo. E anche la pandemia viene ribaltata metaforicamente nel suo significato proprio, nefasto, e intesa come «contagio della speranza».
Col Covid-19 ci siamo visti proiettati in uno spazio speculare che si è improvvisamente aperto davanti a noi. Abbiamo visto la nostra immagine invertita, ma, al contempo, connessa a tutto lo spazio che la circonda: le megalopoli deserte, il traffico azzerato, le città come appendici di campi vuoti. …
Durante questo tempo di pandemia tanti sono stati gli interventi di Francesco. Innanzitutto, egli ha confortato milioni di persone – da Roma a Pechino, da Beirut a Lima – con le Messe celebrate a Santa Marta. Sussurrando il Vangelo nel silenzio delle nostre abitazioni, benedicendo con l’Eucaristia, piangendo la morte e la sofferenza, celebrando la vita per come si poteva. La consolazione, il conforto, la preghiera di intercessione sono entrati nelle case di tanta gente. E questo è il primo messaggio di una Chiesa che accompagna. Ma Francesco ha pure puntato molto a costruire una nuova immaginazione per interpretare sia il momento presente sia il futuro, la visione del possibile.
Cerchiamo di vedere quali sono le sette figure che egli ha usato per articolare il suo discorso. Le anticipiamo subito: la barca, la fiamma, il sottosuolo, la guerra (dei poeti), l’unzione, la finestra e la pandemia stessa intesa come metafora.
 
La barca nella tempesta
La prima immagine è quella della barca. A piazza San Pietro quel 27 marzo, alle 18,00, prima di adorare il Santissimo Sacramento e di impartire la sua benedizione Urbi et Orbi, il Papa ha detto: «Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti».
La potente immagine viene articolata nel suo discorso e contestualizzata[4]. La barca si trova nella tempesta, che «smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità». Ecco che cos’è la pandemia: una tempesta che rivela la condizione del presente e in cui vivono tutti. Uno specchio che impietosamente riflette l’immagine di un presente nel quale «non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”». Francesco in una omelia ha usato anche l’immagine del diluvio[5].
Guardando in questo specchio, si articola l’invocazione, la preghiera. È la realtà che fa sgorgare dal cuore la preghiera, non il discorso pio. Ma anche l’azione. Perché «è il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri». Navigando in questa barca, possiamo «guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita».
E chi sono questi compagni? Francesco non intende fare discorsi astratti, e li elenca, perché l’elenco è sempre la cifra della realtà nella sua ricchezza e differenza: «medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo».
La barca diventa la cifra di una fraternità radicale e umana che il virus ci ha mostrato con evidenza attaccando tutti e chiunque, senza alcuna distinzione di razza, religione, censo e nazionalità. Ecco che cosa significa la barca: la fraternità[6].
Quelle parole usate dal Papa per i gesuiti nell’omelia del 27 settembre 2014 ora valgono per l’intera umanità. E la tempesta è proprio il luogo ideale per scoprire la fraternità, perché non è la situazione per esporre e vantare forza e sicurezza. La tempesta implica abbracciare – con lunghe bracciate di remo – «tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso», e trovare il coraggio di aprire «spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà», appunto. Il credente riconosce che questa fraternità non è opera umana e che si deve «dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare».
 
La fiamma nuova nella notte
È nella benedizione Urbi et Orbi di Pasqua che Francesco ha fornito un’altra immagine, quella della fiamma, la seconda espressione dell’immaginario del possibile. Se prima la pandemia era «tempesta», adesso è «notte», «la notte di un mondo già alle prese con sfide epocali ed ora oppresso dalla pandemia, che mette a dura prova la nostra grande famiglia umana». E proprio in questa notte «è risuonata la voce della Chiesa: “Cristo, mia speranza, è risorto!”».
Francesco ha usato spesso l’immagine della notte. In particolare, all’inizio del suo pontificato, in Brasile, quando, facendo riferimento ai discepoli di Emmaus, disse: «Serve una Chiesa che non abbia paura di entrare nella loro notte». E il 26 aprile – in pieno tempo di pandemia – durante il Regina Coeli ha affermato: «Scopriremo che non c’è imprevisto, non c’è salita, non c’è notte che non si possano affrontare con Gesù».
Francesco descrive la notte di questo tempo di pandemia ponendo l’accento su quattro aspetti – in qualche modo quattro «notti» – molto precisi. Le quattro notti compongono il quadro della situazione a partire dalle preoccupazioni del cittadino comune per allargare lo sguardo all’Europa e al più complesso scenario internazionale, tra sanzioni e conflitti. Questo elenco delle «notti» è da ripercorrere con attenzione.
La prima notte tocca la vita del cittadino, che vive «un tempo di preoccupazione per l’avvenire che si presenta incerto, per il lavoro che si rischia di perdere e per le altre conseguenze che l’attuale crisi porta con sé». Il Papa incoraggia «quanti hanno responsabilità politiche ad adoperarsi attivamente in favore del bene comune dei cittadini, fornendo i mezzi e gli strumenti necessari per consentire a tutti di condurre una vita dignitosa e favorire, quando le circostanze lo permetteranno, la ripresa delle consuete attività quotidiane».
La seconda notte è rappresentata dalle sanzioni internazionali. Francesco lancia un appello affinché si allentino le sanzioni «che inibiscono la possibilità dei Paesi che ne sono destinatari di fornire adeguato sostegno ai propri cittadini, e si mettano in condizione tutti gli Stati di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri».
La terza notte è l’egoismo e la rivalità tra Stati. E qui il discorso del Papa si è tutto centrato sull’Europa, alla quale ha dedicato vari riferimenti, anche nelle Messe celebrate a Santa Marta. A Pasqua ha detto: «Tra le tante aree del mondo colpite dal coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni».
La quarta notte è quella rappresentata dai conflitti armati, con la richiesta di un «cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite». E qui i riferimenti diretti sono andati a Siria, Iraq, Libano, a Israele e Palestina, all’Ucraina, a diversi Paesi dell’Africa e al Mozambico in particolare, alla Libia, alla Grecia e alla Turchia, al Venezuela.
Le quattro notti della pandemia sono uno sguardo ampio sul mondo al tempo del Covid-19 che individua i nodi da sciogliere. Su questo scenario di «notti» del mondo cade la preghiera: «Cristo nostra pace illumini quanti hanno responsabilità». Un appello che rivela la vanità dei ragionamenti di coloro che non vogliono capire come le parole del Papa sul mondo non siano politico-ideologiche, ma ispirate dal Vangelo di Cristo.
È evidente che Francesco intende anche sviluppare il principio di leadership morale proprio della diplomazia vaticana, in un mondo che vede sconvolti i suoi equilibri geopolitici e che necessita di una robusta conferma delle dinamiche democratiche.
 
Il sottosuolo e i monti
Nell’intervista rilasciata a Austin Ivereigh, pubblicata in italiano sul sito internet de La Civiltà Cattolica, Francesco ha affermato: «Mi permetto di dare un consiglio: è ora di scendere nel sottosuolo. È celebre il romanzo di Dostoevskij, Memorie del sottosuolo»[7]. Scendere sottoterra per vedere la terra e comprenderne le dinamiche: questo è necessario. Dinamiche che il Papa rivela mostrando foto: «Giorni fa ho visto una fotografia, di Las Vegas, in cui i senzatetto erano stati messi in quarantena in un parcheggio. E gli alberghi erano vuoti. Ma un senzatetto non può andare in un albergo. Qui la si vede all’opera, la teoria dello scarto». E un’altra: «A Roma, in piena quarantena, un poliziotto ha detto a un uomo: “Non può starsene per strada, deve andare a casa sua”. La risposta è stata: “Non ho una casa. Vivo in strada”».
L’appello è ad aprire gli occhi, a vedere: «Vedere i poveri significa restituire loro l’umanità. Non sono cose, non sono scarti, sono persone. Non possiamo fare una politica assistenzialistica come con gli animali abbandonati». Allora «scendere nel sottosuolo» significa passare «dalla società ipervirtualizzata, disincarnata, alla carne sofferente del povero». Vedere lo scarto porta a toccare la carne.
Rivolgendosi ai giovani, Francesco in quell’intervista realizza un capovolgimento della prospettiva alto/basso, e indica la direzione dello sguardo dal sottosuolo. Ai giovani, infatti, chiede «il coraggio di guardare più avanti». E lo dice con Virgilio. Quando Enea, sconfitto a Troia, aveva perduto tutto, gli restavano due vie di uscita: o rimanere là a piangere o «fare quello che aveva in cuore, andare oltre, andare verso i monti per allontanarsi dalla guerra. È un verso magnifico: Cessi, et sublato montem genitore petivi. “Mi rassegnai e sollevato il padre mi diressi sui monti”».
 
La guerra dei poeti
In un contesto nel quale la «lotta» al virus è stata trattata in termini bellici, che la descrivono come un’invasione da parte di una potenza nemica, il cittadino diventa un soldato, chi aiuta assurge a eroe. Il logos cede il passo al polemos. In questo campo semantico generato dalla parola «guerra», chi «cade» e si ammala è uno sconfitto. Il malato è uno sconfitto.
Il Papa, in realtà, non si sottrae all’uso della metafora bellica, ma le fa compiere una piroetta che ne stravolge il senso comune. «In questi giorni, pieni di difficoltà e di angoscia profonda – ha scritto in una lettera ai Movimenti popolari, la domenica di Pasqua –, molti hanno fatto riferimento alla pandemia da cui siamo colpiti ricorrendo a metafore belliche. Se la lotta contro il Covid-19 è una guerra, allora voi siete un vero esercito invisibile che combatte nelle trincee più pericolose. Un esercito che non ha altre armi se non la solidarietà, la speranza e il senso di comunità che rifioriscono in questi giorni in cui nessuno si salva da solo. Come vi ho detto nei nostri incontri, voi siete per me dei veri “poeti sociali”, che dalle periferie dimenticate creano soluzioni dignitose per i problemi più scottanti degli esclusi».
Appare decisamente interessante il modo nel quale la metafora è assunta e svuotata dall’interno, risolta nel suo opposto. Da chi è composto l’esercito invisibile che combatte in pericolose trincee? Da poeti, i «poeti sociali». L’espressione del Papa è inedita e va compresa. Chi è il poeta? È colui che fa un uso creativo del linguaggio: usa le parole di tutti, ma per esprimersi in maniera divergente, alternativa al discorso ordinario, alle narrative comuni o dominanti.
Occorre creare una narrativa che sappia correre rischi e che corrisponda all’appello: «Rimboccate le maniche e continuate a lavorare per le vostre famiglie, per i vostri quartieri, per il bene comune». Francesco lo ha ripetuto con altre parole al Regina Coeli del 24 maggio: «Incoraggiarci a raccontare e condividere storie costruttive, che ci aiutano a comprendere che siamo tutti parte di una storia più grande di noi e possiamo guardare con speranza al futuro, se ci prendiamo davvero cura come fratelli gli uni degli altri».
Il Papa oppone ai paradigmi tecnocratici – che mettono al centro lo Stato o il mercato – quelli poetico-sociali: «Ora più che mai, sono le persone, le comunità e i popoli che devono essere al centro, uniti per guarire, per curare e per condividere», scrive Francesco. L’azione dell’esercito dei poeti mira alla «guarigione», cioè ha un valore terapeutico. La guarigione consiste nel «riprendere il controllo della nostra vita», nello scuotere «le nostre coscienze addormentate», nel produrre «una conversione umana ed ecologica che ponga fine all’idolatria del denaro e metta al centro la dignità e la vita».
 
L’unzione profumata del servizio
Una quarta immagine usata da Francesco è quella che emerge da un articolo che egli ha scritto sulla rivista Vida Nueva, il 17 aprile 2020, dal titolo «Un piano per risorgere»[8]. In questo testo molto ricco il Papa afferma che la situazione pandemica che ci ha «sopraffatti» evoca nel credente l’ascolto dell’annuncio «straripante» della risurrezione[9].
Che cosa inquadra col suo obiettivo il Pontefice? «Abbiamo visto – scrive – l’unzione versata da medici, infermieri e infermiere, magazzinieri, addetti alla pulizia, badanti, trasportatori, forze di sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose, nonni ed educatori e tanti altri che hanno avuto il coraggio di offrire tutto ciò che avevano per dare un po’ di cura, calma e animo alla situazione». Ecco nuovamente l’elenco. Ma quelli che il 27 marzo erano stati descritti come «compagni di viaggio», ora, il 17 aprile, sono coloro che versano l’olio dell’unzione profumata come il crisma, cioè l’olio della consolazione e della benedizione. Del resto, la compagnia è una benedizione. E «il profumo versato» ha «più capacità di diffusione» di ciò che minacciava le discepole, cioè la disperazione per la morte del Maestro. Così «basta aprire una fessura perché l’unzione che il Signore ci vuole donare si espanda con forza inarrestabile e ci consenta di contemplare la realtà dolente con uno sguardo rinnovatore».
È l’unzione profumata del servizio che accompagna l’umanità dolente e ci permette di essere «artefici e protagonisti di una storia comune». Questo è ancora una volta il punto chiave: l’unzione conduce alla costruzione di una storia comune che svela la fratellanza umana. Il messaggio di Francesco è fortemente propulsivo in questo senso. Il tempo del virus diventa un kairos, un momento favorevole del quale approfittare. Dalle analisi delle «notti» del mondo si passa alla visione del futuro che ci attende, «se agiamo come un solo popolo».
L’unzione «apre orizzonti» e «risveglia la creatività», che come ritmo ha il «battito dello Spirito». Il discorso politico diventa spirituale e profetico: il Signore «vuole generare in questo momento concreto della storia» dinamiche di «vita nuova». E dunque – come già citavamo all’inizio di questa nostra riflessione – proprio «questo è il tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrici. Lo Spirito, che non si lascia rinchiudere né strumentalizzare con schemi, modalità e strutture fisse o caduche, ci propone di unirci al suo movimento capace di “fare nuove tutte le cose” (Ap 21,5)». Da qui l’appello: «Cogliamo questa prova come un’opportunità per preparare il domani di tutti, senza scartare nessuno: di tutti. Perché senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno».
 
La finestra e la «società della profilassi»
Un’immagine negativa che poniamo in evidenza è stata usata da Francesco nella sua Lettera ai sacerdoti della diocesi di Roma, inviata il 30 maggio perché non era stato possibile celebrare la Messa crismale. In un testo denso, egli fa tesoro di un’intensa comunicazione avuta con i preti della sua diocesi per posta elettronica, ma anche per telefono. Da questi «dialoghi sinceri» egli è stato confermato nel fatto che la «necessaria distanza non era sinonimo di ripiegamento o chiusura in sé che anestetizza, addormenta e spegne la missione».
Eppure il rischio è di far prevalere una «narrativa di una società della profilassi, imperturbabile e sempre pronta al consumo indefinito», che è stata messa in discussione dal virus, «rivelando la mancanza di immunità culturale e spirituale davanti ai conflitti». Non bisogna illudersi che le domande emerse in questo tempo troveranno risposta con la riapertura delle attività. Piuttosto sarà indispensabile «preparare e spianare le strade che il Signore ci chiama a percorrere». Non è dunque possibile restare estranei a questa realtà limitandosi a «guardarla alla finestra». Ecco l’immagine negativa: la finestra come sinonimo di distanza.
Il Papa invece elogia i preti «inzuppati dalla tempesta che infuriava». L’«immersione», dunque, è la parola chiave. Non è il balconear, come il Papa ama dire in dialetto porteño, ma l’essere Chiesa callejera. Plasticamente Francesco ha reso questa necessità ponendo il suo corpo, anche il suo zoppicare, a servizio di un messaggio di vicinanza e speranza. Nel pomeriggio di domenica 15 marzo, facendo un tratto di via del Corso a piedi, come in pellegrinaggio, ha raggiunto la chiesa di San Marcello al Corso, dove si trova il Crocifisso miracoloso che nel 1522 venne portato in processione per i quartieri della città perché finisse la «Grande Peste» a Roma. Con la sua preghiera Francesco ha invocato la fine della pandemia. La sua autorità spirituale si è concentrata nel suo corpo perfettamente isolato in un momento in cui i corpi erano spariti dalle strade. Quei passi erano necessari per affidare a Cristo in croce il lockdown e prospettare profeticamente la strada spianata del dopo Covid.
«Guardare alla finestra» invece conferma la narrativa della profilassi che non fa bene e anestetizza. La logica della finestra va superata da una logica immersiva, che «inzuppa» e coinvolge dal basso, invitando a elaborare nuove strade e nuovi stili di vita.
 
La pandemia come metafora per comprendere il mondo
Infine, notiamo come il Pontefice nei suoi discorsi abbia usato non solamente metafore per parlare della pandemia e dei suoi effetti, ma la stessa pandemia come metafora per le malattie in generale e per i mali del mondo[10]: «Ci sono tante altre pandemie che fanno morire la gente e noi non ce ne accorgiamo – ha detto Francesco a Santa Marta il 14 maggio 2020 –, guardiamo da un’altra parte». E, dopo aver ricordato alcuni dati, ha proseguito: «Che Dio abbia pietà di noi e che fermi anche le altre pandemie tanto brutte: quella della fame, quella della guerra, quella dei bambini senza educazione». Nell’omelia per la II domenica di Pasqua, la «pandemia» rilevata dal Papa è stata quella del virus che si chiama «egoismo indifferente». Vi è dunque una sorta di pandemia dello spirito e dei rapporti sociali della quale quella del coronavirus diventa simbolo e immagine.
Barca, fiamma, sottosuolo, guerra (dei poeti), unzione, finestra, pandemia
Ecco dunque le sette immagini: la barca, la fiamma, il sottosuolo, la guerra (dei poeti), l’unzione profumata, la finestra inutile, la pandemia stessa come metafora. Queste sono le tessere che compongono il mosaico di un immaginario del possibile che, da una parte, metta in guardia e, dall’altra, incoraggi: «La fede ci permette una realistica e creativa immaginazione, capace di abbandonare la logica della ripetizione, della sostituzione o della conservazione» e ci spinge a «non avere paura di affrontare la realtà»[11].
Con le sue sette immagini Francesco ha indicato – in maniera non pelagiana e volontaristica, ma affidandosi all’opera dello Spirito – una ferma fiducia nell’uomo, nella sua ragione – che sa anche comprendere i problemi – e nella sua capacità di agire con competenza e determinazione.
Il Papa ha valorizzato un tempo d’attesa, lo spinner del nostro sistema operativo, per fare da «specchio» a un mondo in crisi. E per far questo ha dovuto leggere il caos. Alla fine, però, lo specchio è il Vangelo stesso. Chi non lo vede e relega il discorso di Francesco a «politica» senza fede cade in un’aberrazione visiva, in quella forma di strabismo causata dalla mancata fusione che permette alle immagini dei due occhi di unirsi in una sola. Francesco guarda il mondo da vicario di Cristo, cioè con gli occhi di Cristo; e lo fa teologicamente, unendo una chiave di lettura apocalittica, un invito alla conversione e una chiave pasquale di morte e risurrezione[12].
Il compito per la Chiesa è quello che il Papa aveva già indicato nell’intervista a La Civiltà Cattolica del 2013: essere «ospedale da campo»[13], curare e guarire le ferite dell’umanità. I credenti non sono chiamati a moltiplicare parole pie, ma a dare soluzioni evangeliche, mosse e ispirate dalla Rivelazione. Questa è la dottrina sociale della Chiesa. Questa è la conversione dello sguardo. E questo è il tempo di un mondo diverso, che richiede sia il riconoscimento della vulnerabilità globale, sia l’immaginazione propria del realismo evangelico.
 
NOTE
[1].      Francesco, «Un plan para resuscitar. Una meditación», in Vida Nueva, 18-24 aprile 2020, 8-11.
[2].      Id., «Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2020». Francesco, in una Lettera ai sacerdoti della diocesi di Roma del 30 maggio 2020, compie una analogia e ricorda come la prima comunità apostolica «pure visse momenti di confinamento, isolamento, paura e incertezza». E trascorsero 50 giorni tra la chiusura «e l’annuncio incipiente che avrebbe cambiato per sempre la loro vita».
[3].      Ivi.
[4].      La barca è anche l’immagine che Francesco ha usato il 27 settembre 2014, nell’omelia della Messa per la celebrazione dei 200 anni dalla ricostituzione della Compagnia di Gesù. In quella circostanza aveva detto ai gesuiti: «Remate dunque! Remate, siate forti, anche col vento contrario!» (Francesco, «Remate dunque! Remate, siate forti!», in Civ. Catt. 2014 IV 108).
[5].      Cfr Francesco, Omelia nella Messa a Santa Marta, 14 maggio 2020.
[6].      Ricordiamo che nell’Evangelii gaudium Francesco aveva usato l’immagine della «carovana» come espressione della «“mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità» (n. 87). Il Papa ama queste immagini di trasporto collettivo, abituato come era ad autobus e metropolitane: rivela in un’immagine quotidiana e semplice il senso della vicenda comune del mondo e dei legami universali.
[7].      A. Ivereigh, «Il Papa confinato. Intervista a Papa Francesco», 8 aprile 2020.
[8].      Cfr Francesco, «Un plan para resuscitar…», cit.
[9].      Cfr D. Fares, «Il cuore di “Querida Amazonia”. “Traboccare mentre si è in cammino”», in Civ. Catt. 2020 I 532–546.
[10].    È un uso peculiare, perché nei suoi discorsi Francesco adopera in maniera molto flessibile il linguaggio sanitario. Ad esempio, una volta aveva detto che «la Parola che salva non va in cerca di luoghi preservati, sterilizzati, sicuri» (Francesco, Omelia per la domenica della Parola di Dio, 26 gennaio 2020). Parlando con i gesuiti in Mozambico il 5 settembre 2019, aveva sostenuto il meticciato, affermando che «oggi siamo tentati da una forma di sociologia sterilizzata. Sembra che si consideri un Paese come se fosse una sala operatoria, dove tutto è sterilizzato: la mia razza, la mia famiglia, la mia cultura, come se ci fosse la paura di sporcarla, macchiarla, infettarla» (A. Spadaro, «“La sovranità del popolo di Dio”. I dialoghi di papa Francesco con i gesuiti di Mozambico e Madagascar», in Civ. Catt. 2019 IV 3-15). Si comprende dunque che il campo semantico della parola «sterile» per Francesco è negativo.
[11].    Francesco, Lettera ai sacerdoti della diocesi di Roma, cit.
[12].    Cfr L. Oviedo Torró, «La teologia en tiempos de pandemia», in Razón y fe, 2020, 281.
[13].    A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 449-477.
 
Una nuova immaginazione del possibile, Sette immagini di Francesco per il post Covid-19, Antonio Spadaro, Quaderno 4080, pag. 567 – 580, Anno 2020, Volume II, 20 Giugno 2020