La riflessione che segue fa riferimento a pensiero di R. Panikkar. Proprio al dialogo Panikkar ha dedicato gran parte della sua riflessione. Faceva spesso riferimento alla fiaba persiana I ciechi e l’elefante, come a un buon esempio di prospettivismo: le persone vedono le cose da prospettive differenti e noi le dobbiamo rispettare. Il fatto è che spesso si presuppone che, comunque, esista qualcuno che sa che si tratta di un elefante: e chi conosce l’elefante? Ma ovviamente “noi”, i cristiani, gli scienziati… “noi” sappiamo che quello è un elefante!…

 

I livelli del dialogo religioso

Il dialogo implica, anzitutto, il riconoscimento di tre distinti livelli che di seguito vengono esplicitati:

1) Il dialogo deve essere anzitutto intra-religioso.

Le religioni hanno da sempre espresso il meglio e il peggio dell’uomo. I crimini più atroci sono spesso stati compiuti proprio nel nome della religione, come tutti sappiamo. Da qui la necessità, anzitutto, di un dialogo intrareligioso, con l’obiettivo di discernere e di purificare quanto nella religione è contro l’uomo e contro la vita. Una esigenza molto impegnativa, perché non si tratta solo di asettiche disquisizioni su dottrine e principi astratti, ma di rendersi disponibili a un vero e proprio «dialogo interiore» senza sconti, «in cui ci si mette in questione e ci si interroga sul senso della vita secondo le esperienze cristallizzate nelle diverse tradizioni. Si tratta di un dialogo terribilmente esigente e anche pericoloso, perché mette in gioco la propria vita».

2) Ma vi è un secondo livello: il dialogo deve essere inter-religioso.

E questo è anzitutto un compito religioso. Non si può affermare veramente di conoscere la propria religione se non se ne conosce almeno un’altra, esattamente come non possiamo conoscere noi stessi se non attraverso e mediante la relazione con altre persone, che ci fanno da specchio. Il pericolo di assolutizzare la propria credenza è quasi inevitabile se conosciamo solo la nostra religione. In sostanza, osserva Panikkar, «nessuna religione è capace di esprimere e di rendere conto, da sola, di tutta la realtà. Noi non costituiamo come cristiani, buddhisti o hindū il club della verità. È soltanto l’intero arcobaleno che fornisce una immagine completa della vera dimensione religiosa dell’uomo». Ebbene, una tale consapevolezza, eclettica e sincretica, non è affatto un rischio per la propria identità, ma rappresenta piuttosto un modo autentico e adulto di credere.

In altre parole, non è possibile alcun dialogo se permane una abissale ignoranza delle altrui religioni, spesso ridotte a un insieme di conoscenze stereotipate e anche un poco caricaturali. Ma le religioni altrui le possiamo comprendere solo dall’interno, vivendole, condividendo l’esperienza stessa dei credenti di quella religione. Non basta, come detto, il noema (conoscenza dottrinale), è necessario condividere il pisteuma (il vissuto e l’esperienza di fede del credente di quella data religione). In questa prospettiva, un ecumenismo pratico e praticato deve precedere ogni possibile ecumenismo teorico. Nel linguaggio di Panikkar, è necessario partecipare al mythos che sta alla base di una data cultura per comprenderla dall’interno. Ma ciò implica la necessità di relativizzare il nostro mythos, e per questo è indispensabile il confronto e il dialogo: sono proprio gli altri, infatti, che ci aiutano a riconoscere il nostro mythos, perché noi, vivendolo ed essendoci immersi, rischiamo di non vederlo neppure. L’ermeneutica, ne consegue, non potrà allora che essere diatopica: deve cioè riconoscere l’esistenza di diversi topoi, farli propri, immedesimarsi nei mythos che ne stanno alla base, e solo allora si riuscirà a comprendere.

Il dialogo aiuta dunque a “vedersi dall’esterno” e quindi a correggere le proprie unilateralità. Ma occorre l’umiltà di relativizzare il proprio punto di vista e di riconoscere che anche altri possono essere nel vero. In questa prospettiva, «una religione può “apportare” alle altre religioni la presa di coscienza di ciò che in esse è latente. Tutte le religioni sono imperfette e quindi sono capaci di perfezionarsi. E soltanto una religione ne può perfezionare un’altra, perché hanno in comune il punto finale di voler giungere alla perfezione umana, in qualsiasi senso la si possa interpretare». Si tratta, nel linguaggio di Panikkar, di riconoscere gli equivalenti omeomorfici di cui le religioni o i vari sistemi culturali sono costituiti. Dire, ad esempio, che Cristo e Buddha sono equivalenti omeomorfici, non significa affatto affermare che sono la stessa cosa, ma solo che, nei rispettivi sistemi culturali di riferimento, svolgono una medesima funzione, quella che Jung, in un altro sistema culturale, chiamerebbe la funzione unificatrice del Sé.

È dunque possibile una reciproca fecondazione tra le religioni. Ma questo solo attraverso l’umile intuizione che conduce a vedere la verità all’interno di più di una tradizione religiosa. Che altro sono le religioni, infatti, se non le ascese dello spirito umano al mistero divino? Ma allora il punto di incontro tra esse «non può essere né la mia casa né quella del vicino. Quel luogo si trova all’incrocio delle strade, fuori delle mura, laddove potremmo decidere di piantare una tenda già per il nostro presente».

3) Infine, il dialogo deve essere inter-culturale

È un livello ancora più ampio: il dialogo intra-religioso e quello inter-religioso rimandano infatti all’urgenza del dialogo interculturale. È necessario un riconoscimento reciproco tra le culture, cosa che può avvenire solo attraverso una conoscenza amorosa, una intima partecipazione al mondo dell’altro. Si tratta di «vedere con gli occhi degli altri per poter avere una visione più completa e più convincente della realtà». Cosa tutt’altro che semplice, perché esige che si faccia un passo oltre il semplice prospettivismo: «Non è che gli indiani, gli aztechi, i maya abbiano un’altra concezione del mondo – del nostro mondo, naturalmente –, ma vivono in un altro mondo. Non è una diversa concezione dell’universo, è un universo differente. Se non si arriva fino a questo punto, si rimarrà prigionieri delle nostre prospettive monistiche e del criptokantismo: c’è una “cosa in sé”, cioè il mondo, evidentemente sconosciuto, di cui poi ciascuno ha la sua visione. Questa concezione è falsa: ci sono mondi diversi, universi differenti, e non c’è nemmeno “una” realtà umana che poi ciascuno vede a modo suo».

Massimo Diana