La violenza giovanile

Sempre più di frequente nelle nostre comunità si registrano atti di violenza tra gli adolescenti e i giovani. Gli ultimi episodi avvenuti a Palermo e Caivano non soltanto destano preoccupazione e allarme nell’opinione pubblica, ma rivelano drammatiche solitudini, degrado morale e ammasso di povertà spaventoso come ha affermato il parroco del Parco Verde don Maurizio Patriciello (Cfr. Intervista di F. Fulvi su Avvenire, agosto 2023). Senza alcuna differenza geografica e sociale tra nord o sud, cresce un atteggiamento aggressivo tra i più giovani, nelle piazze del centro delle grandi città e nelle strade secondarie delle periferie, un fatto che non può essere affrontato superficialmente e tantomeno soltanto con una azione repressiva, moralistica o farmaceutica.

Il bullismo nelle scuole, il cyberbullismo, il fenomeno delle baby gang, gli stupri tra minori, la violenza negli stadi, il ritorno di azioni terroristiche da parte di giovani in preda al fanatismo e all’estremismo, episodi di autolesionismo, richiedono una lettura attenta e non banale del fenomeno. L’argomento più che risposte risolutive, di non facile e immediata costruzione tra l’altro, esige di non fermarci soltanto alle diagnosi ma di un risveglio delle coscienze e aprire cammini di prossimità. È urgente intervenire sul piano educativo creativo e preventivo con un coinvolgimento fondamentale di tutte le agenzie educative, delle famiglie, la scuola e le istituzioni territoriali, spesso isolate, disarmate e incapaci di interventi efficaci nei comportamenti violenti dei giovani.

Episodi sconcertanti

Alcuni episodi ci lasciano smarriti, sconcertati, come la recente violenza di gruppo sulle due minorenni del Parco Verde di Caivano o quella subita da una giovane adolescente a Palermo. Così come l’episodio sconcertante accaduto a Colleferro, dove alcuni giovani con ferocia agghiacciante si sono accaniti contro il gracile Willy Montero, fino ad ucciderlo. Un giovane di soli 21anni morto, solo perché non si è tirato indietro davanti ad un amico in difficoltà. A Rovigo in una classe di un Istituto Superiore uno studente che spara, con una pistola ad aria compressa alla professoressa durante l’ora di lezione e la classe invece di intervenire ride e riprende con il cellulare la scena. L’accoltellamento di una professoressa ad Abbiategrasso nel maggio scorso, solo perché lo studente rischiava il debito di italiano e storia.

Non scarseggiano neanche episodi di rabbia repressa, di autolesionismo tra i giovanissimi sempre più diffusi, sintomo di un malessere spesso vissuto in solitudine colmata dai social e da testi musicali che inneggiano ad azioni irrispettose e violente verso il mondo (Cfr. M.L. Piccinini, news/italaoggi.it/maggio2022/numero030). Psicologi e psicanalisti osservano che i giovani cercano emozioni forti, come i giochi rischiosi che praticano fino a morirne e i tagli che si fanno sulla pelle, perché vogliono sentire ciò che non riescono più a sentire, qualcosa che tocchi il corpo della vita con tutti i suoi organi e tessuti, che desidera di esprimersi, di essere e di vivere in tutta la sua capacità, ed evidentemente non percepiscono in altro modo. Quando la vita perde di significato si comincia a giocare con la morte.

Senza generalizzare

Non si può parlare dei giovani per luoghi comuni, per categorie perché ognuno di loro porta con sé una storia e più ancora un volto che la esprime, fatta di soste e di ripartenze, di drammi silenziosi e grandi conquiste, condizionati dai contesti familiari, sociali e culturali in cui vivono. Sappiamo però che i giovani sono anche altro, sono generosi, creativi, con valori importanti, ricchi di risorse intellettive e volitive, sensibili anche se deboli. Quanto accaduto a Torre Maura, un quartiere della periferia romana, dove Simone è intervenuto in difesa dei valori dell’accoglienza e dell’altruismo lo ha confermato. Come dimostrato anche il gesto coraggioso di Adam e Rami, i due ragazzi che con il loro intervento hanno salvato i compagni di scuola durante il dirottamento del bus scolastico di Crema, evitando una carneficina.

Tanti giovani che pure hanno sbagliato nelle carceri sono impegnati in attività di riscatto della propria storia, partecipando a progetti di solidarietà. Tanti sono stati i giovani che hanno compiuto gesti di autentica solidarietà, di volontariato a servizio di quanti erano costretti da soli a casa durante il lockdown. Molti hanno rischiato anche la propria pelle, come i giovani medici, infermieri e operatori sanitari. Tanti sono impegnati nel riscatto dei beni e delle terre confiscate alla mafia con le opere sociali portate avanti dal volontariato, dalle Associazioni laiche e cattoliche.

 

Mobilitare la coscienza

Le statistiche, le analisi di esperti e studiosi non mancano su tale drammatico fenomeno (rimando alla lettura di alcuni testi interessanti al proposito: Eugenio Arcidiacono, Baby gang, Edito dalla San Paolo; Salvatore Inguì, Tasselli di rabbia, PM Edizioni). Qui mi limito a dire sinteticamente ciò che può sembrare banale e tuttavia bisogna avere il coraggio di riaffermare nuovamente: un giovane che ricorre alla violenza non soltanto non ha una piena consapevolezza del sé e delle conseguenze fisiche, morali e penali dei propri sconsiderati gesti, avverte l’incapacità di considerarsi in relazione all’altro, un valore sempre da rispettare, ma è un giovane principalmente che non spera più, che ha smarrito i significati della vita e non ha alcun riferimento sociale.

Quali destini aspirano i giovani del nostro tempo? Che cosa sognano? Che cosa desiderano? Forse dovremmo più semplicemente chiederci: di che cosa si nutrono? Cosa leggono, cosa vedono e quali pensieri li abitano? I giovani che praticano violenza sembrano privi di un orizzonte buono, senza una grammatica bella che li aiuti a narrare il presente, compito che noi adulti pare abbiamo consegnato esclusivamente alle serie televisive. Chi pratica la violenza non crede che la vita sia un bene e trovi compimento in qualcosa di più grande, forse nello specifico non hanno mai incontrato persone adulte che abbiano indicato loro dove risiede la vera felicità, il valore del rispetto, dell’amicizia e della pace.

Chi pratica la violenza come affermano gli psicologi e psicoanalisti hanno generalmente subito a loro volte aggressioni verbale e fisiche che hanno tenuto nascosto e nessuno ha aiutato loro ad elaborare. Tante sono le violenze che si verificano all’interno del nucleo familiare e di amicizie sbagliate. La violenza subita ti segna per sempre. Lascia un segno, anche una volta curato quello sul corpo, invisibile. Che cosa fare? Perché tutta questa violenza tra i giovani? Come possiamo intervenire noi adulti, mamme, papà, i docenti e gli educatori?  C’è bisogno di mobilitare le coscienze di tutti. Dobbiamo sentirci coinvolti tutti.

 

Non basta la condanna

Genitori, docenti, parroci ed educatori sono preoccupati del fenomeno della violenza giovanile, spesso si sentono impotenti dinanzi ad un fenomeno sempre più preoccupante: di fatto affermano un fallimento, una grande fatica nel loro compito di accompagnare i giovani a gestire i momenti di noia e la rabbia che sempre più spesso non riescono a chiamare per nome. Ciò che si avverte non è solo un vuoto educativo, ma una rottura tra le generazioni, le diverse figure simboliche di riferimento non sono riconosciute più come tali, anche perché prevale una cultura nell’ipotesi migliore della complicità che sfocia in amicizia e molto spesso confonde i ruoli tra madri, padri e figli come osservato da Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet (Cfr. La fatica di diventare grandi. La scomparsa dei riti di passaggio, Einaudi 2014).

Un aspetto all’apparenza positivo, ma che però nasconde una questione cruciale scrivono gli autori: “non è sulla frattura condivisa tra giovani e adulti che si struttura l’identità?”. Se l’autorità dei genitori tende a scomparire, la scuola di conseguenza perde d’importanza e l’ingresso nel mondo reale pare dilatarsi nel tempo, la vita diventa un miraggio: ma quando arriva il momento delle responsabilità? In tante realtà di estrema periferia l’unico ingresso nel mondo della vita per molti giovani avviene attraverso le organizzazioni criminali. Non basta soltanto condannare gli atti di violenza e pensare che la repressione consenta di mettere un argine a tale fenomeno, ha affermato don Luigi Ciotti, ma bisogna prevenire e costruire opportunità di vita (Cfr. Intervista su Globalist.it/politics/2023/09/08/dlcaivano)

 

Aprire strade di prossimità

Ciò che necessita è recuperare la dimensione del dialogo tra genitori e figli, ma evidentemente non basta, bisogna ricostruire l’ossatura profonda della relazione significativa dell’esistenza che dia senso e promuova la cultura della vita, verso sé stessi e gli altri, un patto che trovi il suo baricentro nell’alleanza tra persone che abitano i luoghi educativi dei rispettivi contesti sociali, della famiglia, la scuola, la parrocchia e le associazioni. Papa Francesco ha richiamato più volte all’urgenza di firmare un “alleanza educativa” per e con le giovani generazioni che superi il conflitto tra famiglia e scuola, coinvolga comunità e istituzioni affinché praticamente si aprano percorsi per accompagnare i più piccoli, soprattutto chi vive ai margini e nelle periferie, a diventare persone mature (Cfr. Global Compact on Education, 15 ottobre 2020).

In questo modo ci si muove su di un elemento importante circa il problema della violenza giovanile, quello che don Giovanni Bosco, il prete piemontese che ha dedicato la sua vita ai giovani di strada, ha definito con i termini “metodo preventivo” (Cfr. P. Braido, Prevenire non reprimere, LAS 2006). Ci è così chiaro ma ci appare tante volte così difficile che spesso rinunciamo a qualsiasi pratica preventiva. Aprire strade di prossimità, abitare i quartieri con proposte pedagogiche alternative e creative, vuol dire costruire l’alleanza educativa nei territori. Giovanni Bosco già nell’ottocento è convinto che l’arte di educare riguarda non soltanto le intelligenze ma principalmente il cuore. Richiede il bisogno di un legame proaffettivo prima di tutto. L’educazione esige l’amorevolezza, uno sguardo che consente all’altro di essere riconosciuto e non superficialmente giudicato. Non si risolve tutto con la repressione, lo diceva un “sognatore”, un uomo prima che un prete che sognava e credeva nei giovani, quali custodi di qualcosa di bello che attende qualcuno che lo aiuti a sbocciare.

Marco Rossi Doria, esperto di politiche educative e sociali, per arginare tale fenomeno ha suggerito di attivare una reale politica pubblica di prossimità per i giovani, cosa che spesso manca, di costituire gli “educatori di prossimità” che fisicamente abitano il quartiere, per cercare di capire da vicino come vivono i giovani, cosa fanno tra di loro gli adolescenti, come si organizzano, come ragionano, quali sono le loro difficoltà e le loro sofferenze. Nei quartieri più a rischio organizzare “centri di aggregazione” che funzionano con fondi strutturali e funzionali di lungo periodo, animati da educatori che fanno da accordo tra tempo scuola ordinario e il tempo fuori, con ruoli distinti tra docenti e educatori, però in una unica “comunità educante” (intervista di S. De Carli, vita.it/lebabygangdinapoliquellocheancorasfugge).

di Paolo Greco