IL TEATRO VIVE NELLA DIFFERENZA

Livio Andronico era un tragediografo greco, nato e cresciuto nella Magna Grecia nel terzo secolo avanti Cristo. Combatté per la sua patria contro i Romani che, vinta la guerra, ridussero in schiavitù i soldati catturati, fra cui Livio Andronico. Egli, dunque, giunse a Roma da schiavo. Ma quando il suo padrone si rese conto che quello schiavo era un letterato, un drammaturgo, gli concesse la libertà e fu così, grazie a un liberto, che i Romani ebbero modo di conoscere la tradizione teatrale greca, con cui contaminarono le proprie primordiali esperienze teatrali, i Fescennini e la Satura, producendo la commedia di Plauto, di Terenzio e la tragedia di Seneca.

Gli storici non sono concordi sulla piena attendibilità di questa ricostruzione, ma certamente, reale o leggendaria che sia, questa narrazione si diffuse fin da subito, a dimostrazione che gli stessi Romani avrebbero voluto che così fosse stato.

Se consideriamo con attenzione il fenomeno, scopriamo un popolo vincitore sul campo di battaglia, certamente orgoglioso di una propria superiorità politico-militare che, dinanzi alla diversità di un mondo culturale rappresentato da un individuo per loro oggettivamente inferiore, uno schiavo, non esita ad accogliere quella diversità come occasione di crescita e arricchimento: il teatro a Roma non diventa grande perché si chiude di fronte alla Grecia schiacciata militarmente, ma perché a essa si apre, l’accoglie e ne accetta la ricchezza culturale.

Per il teatro, questo fatto non costituisce un unicum. Al contrario: è la norma.

Cambia il tempo e cambia il luogo.

Nel secondo dopoguerra, in pieno Ventesimo secolo, la tradizione teatrale occidentale, europea e americana, è in crisi. Come sempre accade, gli enormi successi, le scoperte geniali dei grandi esponenti del teatro italiano, francese, inglese, tedesco, russo e statunitense sono diventati, negli epigoni, chiché, formule da ripetere nella convinzione che garantiscano automaticamente il successo. Il risultato è un progressivo infiacchirsi della dirompente carica innovatrice del teatro.

Da dove giunge la spinta a un cambiamento che ridarà fiato alla voce teatrale occidentale? Dall’incontro con il diverso. Come sempre. E questa volta il diverso è l’Oriente. La scoperta delle tradizioni teatrali indiane, balinesi, cinesi, giapponesi porterà nuova linfa a drammaturgie inaridite, a tecniche attoriali consunte, a visioni teatrali stereotipate.

Si potrebbe continuare a evocare esempi: il teatro greco che nasce dal culto dionisiaco che è di origine mediorientale, il teatro nordamericano dei primi del Novecento che nasce dalla scoperta di quello europeo e così via.

L’apertura verso la differenza

Che dinanzi alla diversità occorra l’intelligenza dell’apertura e non l’ottusità della chiusura è prassi che il teatro ha sperimentato da sempre, che sta nelle proprie origini e in tutti gli snodi epocali della sua storia, che vive nell’alterità con cui l’attore si rapporta a quel “diverso” che è lo spettatore e che ogni drammaturgo sperimenta quando per creare tensione drammatica deve far interagire gli opposti senza ridurli ad unum.

Ecco perché questa straordinaria ricchezza viene sempre di più utilizzata da chi, avendo a cuore l’educazione all’apertura verso la differenza, scopre che il teatro costituisce un veicolo privilegiato per la formazione delle nuove generazioni verso questa direzione.

di Giancarlo Loffarelli