Mentre l’universalismo della cattolicità si esprime e riassume nella “Fratelli tutti”,  si innalzano muri, si lanciano appelli alla difesa dei sacri “confini” e delle frontiere, nella logica nazionalistica dei “fratelli d’Italia” e di “prima gli italiani, contro la “sostituzione etnica”. Idee simili a quelle sostenute in passato dal card. Giacomo Biffi,  sul piano della preferenza da accordare ai migrarti provenienti da “popolazioni cattoliche o almeno cristiane.

Testimoni profetici nel racconto del cinema

Nella complessità storica dello “scontro di civiltà” paventato negli anni scorsi e dell’accoglienza realizzata in progetti di convivenza e di dialogo tra culture, religioni e umanità diverse, si ritiene pegagogicamente preziosa la valorizzazione del Cinema che presenta storie, volti e incontri tentati e/o realizzati. Se ne indicano alcuni, prodotti cinematografici generati da esperienze reali e vissute, lezioni significative per il lavoro scolastico e l’IRC con i giovani.

DUSTUR 

Nella biblioteca del carcere Dozza di Bologna, un gruppo di detenuti, coordinati dal religioso Dossettiano fra Ignazio de Francesco, un mediatore culturale musulmano si confrontano sul valore della Costituzione (Dustur), comparando quella italiana a quella dei paesi arabi. Si discute  in senso interreligioso e “laico” di esperienze, tradizioni e credenze religiose in relazione ai principi e ai valori della Carta. I detenuti infatti provengono da Tunisia, Marocco, Egitto e Algeria. Durante gli incontri, ai quali partecipano anche dei giuristi, si discute di esperienze, tradizioni e credenze religiose in relazione ai principi costituzionali fondamentali. All’interno del carcere si affrontano numerosi temi quali l’uguaglianza, la libertà, il diritto al lavoro e all’istruzione. La “laicità” può costituire un ponte tra le diversità?

 Il Volo

Un cortometraggio  di Wim Wenders che racconta, attraverso la genesi del “modello Riace” e in filigrana la vicenda del sindaco Mimmo Lucano (secondo Fortune  tra le 50 persone più influenti del mondo), come un “mondo migliore è possibile”. In una Calabria diversa, nascosta, emergono fatti di solidarietà, accoglienza, impegno, compartecipazione che sembrano appartenere ad una dimensione arcaica e mitica, senza nascondere contraddizioni e ambivalenze del territorio e di un’epoca.

“Ho visto un paese capace di risolvere, attraverso l’accoglienza, non tanto il problema dei rifugiati, ma il proprio problema: quello di continuare a esistere, di non morire a causa dello spopolamento e dell’immigrazione. E ho voluto raccontare questa storia in un film che ha come attori i veri protagonisti” (Wenders).

Si narra l’accoglienza  dei profughi come opportunità per una comunità  che ne ha colto il valore aggiunto. Capace di ritrovare la propria identità smarrita nel confronto con identità “altre” e solo in apparenza lontane (rifugiati e richiedenti asilo, disperati provenienti da teatri di guerre infinite o nascoste, dittature oscene, curdi, siriani…).

Riace ha dimostrato che italiani e migranti, se l’integrazione è ben governata, possono non solo vivere bene insieme, ma anche arricchirsi reciprocamente e prosperare tutti.  Far rinascere  borghi desolati e terre abbandonate, ricostruire una vita di comunità nei loro abitati, imparare gli uni dagli altri a conoscere, rispettare e valorizzare la cultura, le tradizioni, le usanze, ma anche le sofferenze e le domande di cui ciascuno di noi è portatore.

“È stato il vento” dice spesso Lucano. “Tutto cominciò in una notte buia e tempestosa quella di Santo Stefano del 1997. Quando alla spiaggia di santa Caterina dello Jonio a bordo della nave Ararat arrivano circa 1000 curdi esausti e in fuga dalle persecuzioni etniche”. A quello sbarco ne seguiranno tanti altri e matura il senso di un progetto culturale  che si fa civile e “politico”, che si proponeva di ribaltare le relazioni sociali ed economiche in nome dell’accoglienza e della convivialità delle differenze, considerando realistico un modello di sviluppo che poneva al centro l’uomo e il suo sacrosanto diritto alla dignità umana.

Oggi il “modello Riace”  e il sindaco Mimmo Lucano sono investiti di ombre e processi giudiziari, che  rispetto ad eventuali ed umani errori, non ne inficiano la vocazione e la sfida utopica.

 ArMO, storie di volontari e di migranti,  lezione  di un Documentario

A Reggio Calabria, l’accoglienza è diventata un film. Una narrazione fatta di immagini, volti, ma anche silenzi. Gesti ed espressioni dietro cui si nascondono tante storie di dolore e sofferenza, ma anche gioia di incontrarsi nella diversità, e la capacità di “restare umani”. Scene di “fraternità grandissima, che non guardava alla diversità di religione”, perché davanti a quelle morti si pregava con le stesse parole, affidando le vittime alla misericordia di Dio.  Tra occhi pieni di lacrime di chi ha perso un genitore o un figlio, i lievi sorrisi di chi finalmente ha realizzato un sogno insperato, dopo lunghi e rischiosi viaggi, iniziati molti mesi prima.

Curato dal regista Antonio Melasi, è anche il racconto di una bella pagina fatta di amicizia e amore. Nella memoria profetica cittadina, il piccolo cimitero periferico di Armo fa da specchio luminoso alla tenebra del grande “cimitero del Mediterraneo”. Un pezzo di storia che passa con gli oltre 60.000 arrivi in oltre 200 sbarchi dal 2014. Un’esperienza che continua, nella macchina dell’accoglienza, frutto della collaborazione tra istituzioni, terzo settore, associazionismo cattolico e laico, chiesa locale e altre confessioni. Che ha visto il dispiegamento di un vero e proprio contingente d’amore e speranza, anche dinnanzi alle immagini strazianti e di grande dolore delle 45 salme giunte al porto reggino il 29 maggio del 2016. Vittime dell’ennesimo naufragio nelle acque del Mare nostrum che hanno trovata degna sepoltura. Un’opera di carità e impegno civile, ma anche luogo dal quale lanciare, come sottolinea il direttore di Caritas Italiana, don Marco Pagniello, un forte segnale di denuncia alle istituzioni nazionali ed europee: «tutti hanno diritto di partire, tutti abbiamo il dovere di accogliere».

Interviene il regista Antonio Melasi

Che cosa ha significato l’esperienza di lavorare per ARMO o  sulla ecatombe di Cutro? Un Regista  cura la comunicazione e il linguaggio, ma non resta indifferente alla drammatica e complessa realtà trattata. Come la narrazione po’ aiutare a costruire la speranza ed a superare la “paura del diverso” che arriva da lontano e come le immagini, nella loro oggettività danno il senso etico della problematica -sempre accesa o ideologica- della realtà migratoria, dello scontro-incontro tra culture e religioni diverse, senza mai dimenticare la “lingua” della solidarietà e della dignità delle persone? Quale la lezione di ARMO per i ragazzi, oltre l’ideologia della “invasione” o del “carico residuo?:

“Armo, storie di volontari e di migranti” racconta l’umanità. Il tema del flusso migratorio è troppo facilmente ridotto a scontro fra ideologie, ma, come sottolinea uno degli intervistati nel docu-film “non avevamo il tempo di prendercela con l’Europa o con il sistema, perché dovevamo tornare a salvare vite”. Io per primo mi sono troppo facilmente, e troppo spesso, lasciato trascinare nella riflessione facile sul tema migratorio e la funzione pedagogica del documentario si è concretizzata su di me, ancor prima che sui destinatari del messaggio che stavo costruendo.

Sono stati mesi di produzione intensa, reputo i più intensi da quando svolgo questa mia attività di operatore della comunicazione. Non mi aspettavo un’esperienza così forte… è successo mentre giravo, con la straziante parentesi di Steccato di Cutro, inserita per caso nella narrazione, ma è successo in fase di post produzione, quando ho realizzato la forza delle testimonianze e delle immagini raccolte, così come sta continuando a succedere in occasione dei cineforum che stiamo organizzando. Rivedere il film con le persone è ogni volta un momento di rielaborazione del messaggio. Mi commuovono il silenzio e l’attenzione con cui giovani e meno giovani partecipano alla visione e mi auguro si moltiplichino le occasioni di proiezione e discussione.

È un documentario duro, qualcuno l’ha definito “un bel pugno allo stomaco”. In fase di ripresa, al cimitero dei migranti di Armo, ho anticipato ad alcuni scout la parte iniziale del film in cui il volontario tedesco Martin racconta le drammatiche fasi di recupero dei corpi di due neonati, davanti alle cui lapidi ci trovavamo. Dopo la visione dello spezzone, i ragazzi hanno sentito più autentico il senso della loro presenza in quel luogo, una ragazza ha accarezzato la tomba come fosse cosa propria. In quel momento ho percepito la forza della “lezione”.

Foto copertina: Tombe di immigrati nel cimitero di Armo (RC)

 Giorgio Bellieni