L’incertezza odierna è un potente fattore di individualizzazione; essa divide anziché unire e l’idea di “interessi comuni” diventa sempre più nebulosa e in definitiva incomprensibile. (Z. Bauman)

Entriamo nell’argomento attraverso questa affermazione chiave come varcare un portone enorme, pesante. La questione economico-finanziaria assomiglia a uno di quei forti letterari alla Dumas. Fatti di stanze e di scale. Di ingressi segreti, di ombre lunghe, di prigioni. Per molti aspetti un labirinto di logiche e presupposti in cui si fa fatica a trovare, sotto il profilo educativo, una via d’uscita utile e convincente.

Proveremo tuttavia a lasciarci guidare dall’acuta riflessione di don Pier Davide Guenzi, presidente dell’ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale) e docente di Teologia Morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Sullo sfondo del nostro castello il suo intervento al congresso concluso pochi mesi fa alla facoltà Teologica di Milano (Homo Oeconomicus? Esigenze etiche e provocazione teologiche, febbraio 2023). E l’immagine di un metaforico Edmond Dantès attento alle preziose risposte di un Abate Faria sui generis…

 

L’intervista

Partiamo con la domanda principale: in che modo la teologia può essere “d’aiuto” alla riflessione etica sulla scienza economico/finanziaria?

E’ innanzitutto importante non cadere nella trappola di alcuni stereotipi centrati riduttivamente sulla radice egoistica e utilitarista dell’operatore economico e del profitto come sua unica motivazione. Occorre piuttosto un confronto con i presupposti razionali soggiacenti alla scienza economica. In questo senso la dottrina sociale della chiesa ha progressivamente riconosciuto il percorso della modernità e assegnato al campo economico e politico un bene umano integrale da tutelare e promuovere.

Già e ancora il magistero di Benedetto XVI e Francesco innesta la questione in una prospettiva più marcatamente antropologica e teologica. Ossia, ogni decisione in ambito economico non può essere compresa solo come condizionata da fattori tecnici, ma acquista la dimensione di un “atto umano”: dà forma ad un volere e a un desiderio; crea relazioni. Ed è in questa visione che si può comprendere come la persona non dà forma al suo agire solamente in ossequio a regole pre-definite dalla logica del mercato, ma come soggetto di relazioni esprimentesi in molteplici forme, tra cui anche quella della gratuità.

E’ il grande tema dello “scambio” e del “dono” e della conseguente ricaduta sul “bene umano”, quello delle relazioni… Quali gli spiragli educativi possibili?

L’attenzione al tema del dono (donare – ricevere – contraccambiare), senza precipitosi concordismi, consente di associare il tema teologico della “grazia” con l’interpretazione della vita sociale e delle sue istituzioni. In tempi recenti si è prodotta un’ampia letteratura a partire dalla ripresa del “ciclo del dono” tesa a ripristinare quanto l’egemonia della commercializzazione degli scambi avrebbe rimosso.

Il prezzo da pagare è quello di una socialità “rigida, neutra, efficiente”, capace di gestire i legami sociali attraverso uno strumento di regolamentazione, il contratto, che per sua natura tende a ridurre l’intensità delle relazioni personali. Tale stato dell’arte interpella la riflessione teologica –e dunque educativa- nel mettere in luce la differenza tra patto interumano e contratto, ossia ridefinire l’anteriorità del primo rispetto alla logica del secondo.

Così Luigino Bruni: “I contratti piacciono molto all’individuo postmoderno perché gli appaiono come ‘relazioni umane senza ferita’, cioè rapporti con costi ‘di attivazione’ e ‘di uscita’ molto bassi, certamente più bassi dei costi dei patti”.

Il patto invece, anche sotto la declinazione teologico-biblica di ‘alleanza’ se vogliamo, avrebbe da sempre una connotazione più marcatamente esistenziale, specie sotto il profilo del riconoscimento individuale e sociale…

Il patto ha natura simbolica (e rigenerante la collettività) mentre il contratto reifica la relazione sulla prestazione configurata in ossequio alla clausole sottoscritte. Non coinvolge, cioè, la “comune umanità”dei contraenti, finendo per esaltare il tratto individualistico-liberatorio. Sempre citando Bruni: “la teoria economica dei contratti è ormai diventata una grammatica universale per disegnare i rapporti umani non solo nelle imprese, ma anche nelle università, nella politica, e sempre più in ogni forma di organizzazione”.

Occorre ripensare il legame sociale dei cittadini liberi sotto il profilo di quei vincoli di prossimità (propri del patto) che stanno a monte della mera correttezza civile tra soggetti competitori o indifferenti (logica del contratto). “Vincoli” di cui avrebbe bisogno per una maggiore “libertà” –paradossalmente- di comprensione e sostegno. Il rischio, se no, è quello di tramutare l’interessante –ad ogni costo-, e dunque il proprio significato biografico, attraverso il diritto di proprietà (cosa è mio) e le quote che mi spettano (tu mi devi) dalla collettività o quelle che io devo dare per il funzionamento della cosa pubblica.

Verrebbe da pensare allo stato di frustrazione sociale che in Italia si respira sul tema tasse –Stato – caro vita. Dimensioni che allontanano da un “senso politico”, cioè collettivo e comunitario del riconoscimento individuale e, se vogliamo, culturale, cioè di quel bagaglio simbolico necessario a “stare gli uni di fronte agli altri” – e di fronte all’Altro- come direbbe Mounier?

E’ il grande tema dell’empasse epocale messo già in luce da Roberto Esposito: il passaggio da communitas a immunitas. Cosa significa? Significa che se l’espressione communitas sottintende, non tanto “ciò che è di tutti” ma “ciò che obbliga verso gli altri”, il contro-progetto della modernità disegna un itinerario di dissoluzione e di affrancamento da tale obbligo ritenuto costitutivo del legame inter-umano.

“Il progetto ‘immunitario’ della modernità (conservare integra la proprietà di sé) non si rivolge soltanto contro gli specifici munera (doveri) che gravano sugli uomini, ma contro la stessa legge della loro convivenza associata. La gratitudine che sollecita il dono non è più sostenibile dall’individuo moderno che assegna ad ogni prestazione il suo specifico prezzo. Gli individui moderni divengono davvero tali solo se preventivamente liberati dal ‘debito’ che li vincola l’un l’altro. Se esentati, esonerati, dispensati da quel contatto che minaccia la loro identità esponendoli al possibile conflitto con il loro vicino. Al contagio della relazione“.

Una disamina ancora più agghiacciante se pensiamo a quanto essa avvicini a sé un’idea di ‘pace’ diametralmente opposta a quella, a proposito di dottrina sociale della chiesa, promulgata da Giovanni XXIII nella Pacem in terris (1963) di cui quest’anno ricorre il 60esimo anniversario. La pace dell’ homo oeconomicus somiglia a una ‘pacificiazione/soddisfazione’ privata dei bisogni, legata al concetto di ‘utilità’ e di ‘merce’ da comprare più che di rispetto fondato dalle esigenze di tutti gli uomini. Lo vediamo nel fenomeno della tristezza collettiva circa il grande tema del lavoro, su cui, forse, mancherebbe attualmente una adeguata riflessione…

C’è una forte e unilaterale connotazione tra il tema del lavoro e il denaro, di cui l’aut-aut evangelico segnalò, non a caso, l’emergenza della sua ‘conversione’: perché l’idolo ridiventi solo segno e strumento. Da qui la riflessione di Bruni (Fondati sul lavoro, 2014): “Il denaro è diventato il principale o unico ‘perché’ del lavorare, la motivazione dell’impegno nel lavoro, della sua qualità e quantità. E’, questa, la cultura che possiamo chiamare dell’incentivo, che si sta sempre più estendendo anche in ambiti tradizionalmente non economici, come la sanità e la scuola, dove è divenuto normale pensare che un insegnante o un medico si comportano da buoni lavoratori solo se e solo in quanto adeguatamente remunerati e controllati.

Una tale antropologia sta producendo il triste risultato di riavvicinare sempre più il lavoro umano alla servitù se non alla schiavitù antica, perché chi paga non compra solo le prestazioni, ma anche le motivazioni delle persone e quindi la loro libertà”.

Può esistere un orizzonte di speranza, un’isola di Montecristo verso quale tendere lo sguardo del cuore dagli alti e invalicabili bastioni di questa fortezza? Quale “tesoro” da trovare e da cui ripartire per provare a rimettere a posto le cose?

E’ soggiacente alla riflessione operata dalla Gaudium et spes (Vaticano II, 1965) la congifurazione di un munus, dono e compito, accolto e assunto, della comunità cristiana nei confronti della vita sociale e delle sue istituzioni, economia compresa. In esso la vita di grazia conferita alla chiesa e sua anima interna, può avere una “ripercussione” sulla vita sociale, “ridondando” sulla communitas per rafforzare il legame sociale senza risolvere nella sola funzione (eccezionale) critico-profetica il contributo etico-civile della compagine dei credenti.

Simone De Rosa