Di questi tempi le nostre città viste dall’alto sembrano enormi plastici tridimensionali dove ​mancano però quei piccoli elementi , come le figure umane, fondamentali per dare all’osservatore il riferimento dimensionale del tutto. Siamo in quarantena da coronavirus e l’uomo non è più il protagonista assoluto di questi spazi aperti dell’urbanizzato. Gli edifici sono i veri protagonisti delle nostre città, tra il silenzio e la luce. In un’atmosfera surreale, in mancanza delle figure umane che si aggirano frenetiche, rimangono solo le macchine parcheggiate e impolverate a ricordarci che in questi stessi luoghi abita la vita.
Tutto il quotidiano delle persone si svolge ora all’interno delle proprie abitazioni. Spazi che non erano preparati ad assolvere più funzioni contemporaneamente, pensati per dare perlopiù riparo la notte, per cucinare e mangiare, ora sono diventati il luogo unico dove trascorrere tanto tempo nelle ore diurne e quindi dove lavorare, studiare, praticare lo sport e passare il tempo libero.
La spontanea ricerca di relazioni umane e lo spirito di adattamento fanno sì anche che si rivalutino immancabilmente i luoghi della casa più propensi a rivolgersi verso l’esterno come gli affacci, che siano finestre o balconi, da dove osservare quel po’ di mondo e magari parlare con il vicino. In poco più di un mese questi elementi non sono più residuali o accessori ma sono importantissimi per sentirsi vivi. Mai come in questo periodo si è dato sentitamente un valore prioritario a ciò che si vede dalla finestra, alla quantità di sole e di aria che vi entrano, all’ampiezza di un balcone e alla sua esposizione.
E se possibile si riscoprono altri spazi dimenticati ma molto vicini come le corti interne dei palazzi, i ballatoi e le terrazze condominiali. Queste ultime, che fin da quando esistevano i lavatoi erano usate per stendere la biancheria ma che sono cadute in disuso negli ultimi decenni, in questo momento si stanno rivalutando grazie alle persone  che spontaneamente vi si recano portando con se una sedia, un libro, un foglio di carta da disegnare. Sono diventate in questi giorni luoghi preziosi dove poter stare da soli  o in compagnia dei propri conviventi e dove poter vivere un senso, seppur limitato e illusorio di libertà.
Indubbiamente riconosciamo al coronavirus la capacità anche di renderci più solidali e più in contatto con noi stessi, cogliamo  il significato profondo di trovarci a vivere in un luogo che ci rispecchi, che risponda alle necessità di ognuno e che possa fare da protezione, adatto al contempo alle personali esigenze di socializzazione ed apertura verso l’esterno. L’architetto viennese Adolf Loos (1870 – 1933) in proposito vedeva più che mai nell’architettura e nell’arte lo specchio della cultura e della società in cui si esprimevano.
Si è, dunque, costretti a riconsiderare gli spazi all’interno delle case delegando ai tecnici del presente la revisione dell’abitare non solo rivolto alle case e alle stesse città, come giustamente grida nel suo titolo sull’Huffingtonpost del 3 aprile scorso Manlio Lilli “Post-pandemia. Architetti, pensate a città (e case) migliori”, ma anche agli aspetti riguardanti la socialità degli individui.
Si potrebbero, quindi, ripensare case più versatili e personali, rivalutare gli affacci e riprogettare le corti interne e le terrazze condominiali anche nel loro significato di spazi comuni, rivedere il “vivere insieme” sia nelle case che nelle città.
Tanti sono i riferimenti architettonici e urbanistici da cui ripartire ma uno, molto attuale e richiesto dalla collettività, è quello del cohousing o coabitazione che nasce tanto tempo fa, negli anni sessanta, ma che si evolve fino ad oggi nella progettazione e realizzazione di nuclei abitativi singoli e aggregati in unico organismo funzionale. Il cohousing è anche un abitare assistenziale e sostenibile e per questo si realizza attraverso un progetto partecipato di tecnici, utenti finali e pubbliche amministrazioni, recuperando dove possibile strutture edilizie esistenti e riconnettendo il tessuto sociale della città attraverso servizi di quartiere.
Probabilmente in tempo di coronavirus, il cohousing o altre e nuove forme dell’abitare permetterebbero di organizzare in modo migliore il proprio vivere in case più adatte, con la garanzia di non sentirsi poi più così soli.
 
Elisabetta Mazzitelli
architetto romano, fin dal 2000 si occupa di materie ambientali, paesaggio, edilizia e valorizzazione dei beni culturali. Per circa dodici anni lavora nel settore delle fonti energetiche rinnovabili con particolare riguardo agli Studi d’Impatto Ambientale e Paesaggistici e alla progettazione del paesaggio per strade, ferrovie, complessi industriali e impianti per la produzione di energia elettrica. Fin dagli anni ottanta si dedica anche all’arte e in particolare alla pittura, espone in diverse mostre personali e collettive e organizza laboratori per adulti e bambini.
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