In tempi di globalizzazione il problema dei “diritti universali dell’umanità” si incrocia inevitabilmente con l’esplosione di flussi migratori delle popolazioni provenienti dalle aree geografiche meno sviluppate per dirigersi verso i Paesi più ricchi, al fine di migliorare le proprie condizioni di vita.
Gli spostamenti di masse umane dalle grandi dimensioni sta tuttavia provocando forme di intolleranza, scontro, conflitti, piuttosto che forme di convivenza democratica, scambio, condivisione di “beni” di cui ciascuno è portatore.
All’origine di queste intolleranze e conflitti vi è la ostinata volontà di non riconoscere l’”altro” e i suoi “diritti” da parte di “identità” radicate/arroccate nella difesa del territorio, della etnia, della cultura, della lingua, della religione, della classe sociale di appartenenza.
Per questo, riflettere sul “diritto alla cittadinanza” significa prepararsi ad affrontare gli attuali e futuri scenari con cui l’umanità avrà inevitabilmente a che fare, a confrontarsi. Tutto questo richiede di preparare con urgenza le attuali e future generazioni ad affrontare nel modo meno conflittuale possibile le altrettante inevitabili trasformazioni sociali.
In questo contesto, la cittadinanza, in quanto “diritto-ad-avere-diritti”, è la condizione “sine-qua-non” per la pace e la convivenza, per esercitare diritti e doveri, per diventare a tutti gli effetti “membri” di una comunità, per partecipare alla presa delle decisioni riguardanti la cosa pubblica avendo diritto di intervenire, di essere ascoltati e rispettati.
Ma affinché questo “diritto” venga riconosciuto occorre rompere l’equazione 1cittadinanza=1nazione, per aprirsi verso forme di cittadinanza plurale, trans-nazionale. Tutto questo rimanda al seguente interrogativo: nell’attuale momento/contesto storico, caratterizzato da forte mobilità umana, a quale titolo viene acquisita la cittadinanza?
Interrogativo rimasto ancora per lo più senza risposte adeguate a partire dalle Organizzazioni sovranazionali. Le loro Carte fanno sì riferimento al diritto che ognuno ha di emigrare dal proprio Paese, ma non al diritto di entrare, da “cittadino-del-mondo”, nel Paese in cui si è scelto di vivere.
Ne consegue che questo jus migrandi in pratica esiste solo in teoria, mentre la cittadinanza rimarrà ancora uno “spartiacque” tra chi ha o no uno stato di diritto “riconosciuto”.
Senza progetti/programmi di vera integrazione anche la buona volontà di accogliere si presta a permanere nella piaga che tratta gli immigrati come “merce”, come forza-lavoro. Viceversa occorre partire dal prendere coscienza che se “ci aspettavamo braccia, in realtà  sono venute persone”.
 
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Antonita Santos Fermino