Nell’arco dei più di duemila anni di storia del teatro occidentale, il rapporto fra teatro e politica si è articolato nelle due maniere in cui, inevitabilmente, esso può svilupparsi: da un lato, il modo in cui la politica ha utilizzato il teatro per i propri scopi, dall’altro quello in cui il teatro ha inteso esercitare una pratica politica.

La politica ha sempre cercato di utilizzare le forme d’espressione artistica per raggiungere degli obiettivi e anche nel confronto del teatro così è stato. Nell’antica Grecia, la tragedia soprattutto, ma anche la commedia, ha contribuito in maniera essenziale alla costruzione della democrazia ateniese. Si pensi, per esempio, alla trilogia di Eschilo che noi chiamiamo Orestea, l’unica trilogia tragica che ci è giunta per intero. Tutta la vicenda cantata dal coro e interpretata dagli attori ci racconta vicende terrificanti: Atreo, il capostipite degli Atridi, padre di Agamennone e Menelao, uccide i figli di suo fratello Tieste e, con l’inganno, glieli fa mangiare. Agamennone, prima di partire per la guerra di Troia, per ingraziarsi gli dèi e avere una buona navigazione, sacrifica la propria figlia Ifigenia. Clitennestra, moglie di Agamennone, al ritorno di questi dalla guerra, vendica la morte della figlia spingendo il suo amante, Egisto, figlio di Tieste, a uccidere Agamennone. Clitennestra ed Egisto verranno poi uccisi da Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, che così vendica suo padre. Come si vede, ci troviamo dinanzi a una catena di vendette in cui il sangue chiama altro sangue, finché, sul finire della terza tragedia della trilogia, Eumenidi, Atena non interviene a imporre che il delitto, d’ora in poi, dovrà essere giudicato nei tribunali e non più vendicato con un altro delitto. È evidente che il contesto politico ateniese spinge Eschilo a trovare un fondamento mitico all’istituzione dei tribunali, uno dei momenti fondamentali per la nascita della democrazia.
Non stupisce che quest’uso strumentale che la politica può fare del teatro abbia prodotto, in altri contesti, la necessità di adeguare lo “strumento” a nuove esigenze politiche. Si consideri, al riguardo, quello che accadde in Italia durante il fascismo. Nel 1939, il Ministro della Cultura Popolare Dino Alfieri, parlando alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, auspicava la “nascita di un teatro drammatico che esprima i motivi ideali e i valori dello spirito fascista” e ancora più preciso è lo stesso Mussolini che, al teatro Argentina di Roma, ebbe modo di dichiarare: “Bisogna preparare il teatro di massa, che possa contenere 15 o 20 mila persone. La Scala rispondeva allo scopo quando un secolo fa la popolazione di Milano contava 180 mila abitanti. Non risponde più oggi che la popolazione è di un milione. La limitazione dei posti crea la necessità degli alti prezzi e questi allontanano le folle. Invece il teatro, che, a mio avviso, ha più efficacia educativa del cinematografo, deve essere destinato al popolo, così come l’opera teatrale deve avere il largo respiro che il popolo le chiede. Essa deve agitare le grandi passioni collettive, essere ispirata a un senso di viva e profonda umanità, portare sulla scena quel che veramente conta nella vita dello spirito e nelle ricerche degli uomini. Basta con il famigerato ‘triangolo’, che ci ha ossessionato finora. Il numero delle complicazioni triangolari è ormai esaurito… Fate che le passioni collettive abbiano espressione drammatica, e voi vedrete allora le platee affollarsi. Ecco perché la crisi del teatro non può risolversi se non sarà risolto questo problema.”
I due esempi riportati, opposti nei contenuti, s’identificano nella funzione attribuita al teatro. Anche se il primo utilizza il teatro per “educare” alla democrazia e il secondo per costruire uno stato totalitario, entrambi concordano nell’attribuire al teatro la funzione di educare a qualcosa e, inevitabilmente, lo relegano a un ruolo strumentale.
Il secondo modo di considerare il rapporto fra teatro e politica è dato dalla pratica politica che il teatro ha inteso produrre. Anche in questo caso mi limiterò a presentare due modalità esemplificative di segno opposto.
Il primo esempio è quello di Bertolt Brecht. Il teatro epico brechtiano è teatro politico nella maniera più esplicita ed evidente che si possa immaginare: politico nei contenuti trattati e, soprattutto, nella forma, poiché esso rifiuta di far immedesimare lo spettatore nella vicenda rappresentata e nei personaggi che la incarnano e richiede, di contro, uno spettatore “straniato”, distaccato e costantemente consapevole che ciò a cui sta assistendo è un vero e proprio messaggio politico.
In questa tipologia di teatro, il drammaturgo e l’attore non agiscono in nome e per conto di una struttura politica, al contrario s’indirizzano a quella struttura per esprimere una propria visione del mondo. Nel caso di Brecht essa è rivoluzionaria, ma nulla cambierebbe nell’impostazione se essa fosse indirizzata al mantenimento dello status quo.
L’esempio opposto che mi sembra interessante presentare è quello di Anton P. Čechov, poiché a una lettura superficiale della sua drammaturgia, egli appare un autore lontanissimo da qualsivoglia discorso politico, tutto preso dall’indagine dell’animo umano rappresentato nelle sfumature più sottili. Insomma, un teatro intimista, chiuso dentro un salotto o tutt’al più circoscritto in un giardino.
Per chi sa cogliere la profondità del teatro cechoviano, non può invece sfuggire che, accanto e oltre le minute vicende rappresentate, sapientemente mescolata ai sentimenti intimi dei personaggi, l’autore dà corpo alla tessitura di un ambiente in cui la sua visione politica trova piena espressione. Non nella maniera esplicita e dichiarata di Brecht, bensì con una delicatezza che, se meno evidente, non difetta d’intensità e precisione. In tutti i testi di Čechov, infatti, non si può non leggere un’analisi politica della Russia del suo tempo, in cui una nuova classe sociale, la borghesia, lentamente emancipatasi dalla condizione di servitù, sta scalzando dalla scena, economica prima e politica poi, un’aristocrazia immobilizzata a contemplarsi nello specchio di un passato che sta scomparendo.
Se, insomma, mi sembra ormai evidente che occorre prendere le distanze da qualsiasi forma di teatro “pedagogico”, poiché pericoloso, anche quando mosso da nobili intenti, sapendo ben leggere, il teatro continua a rimanere una profonda modalità interpretativa della vita politica, nel senso più ampio del termine.
di Giancarlo Loffarelli