«Così si può ripensare la Riforma»
intervista a Fulvio Ferrario 
L’ormai imminente viaggio apostolico di papa Francesco in Svezia (31 ottobre- 1° novembre) segna l’inizio di un percorso destinato a culminare tra un anno esatto. Il 31 ottobre del 2017 ricorrerà infatti il quinto centenario della Riforma protestante, il cui inizio viene fatto tradizionalmente coincidere con la pubblicazione delle 95 tesi contro la dottrina delle indulgenze elaborate nei mesi precedenti da Martin Lutero. Affisso al portale della cattedrale di Wittemberg, quel testo sta all’origine di un processo storico che ha portato alla costituzione di numerose Chiese riformate. In Svezia Francesco parteciperà a una commemorazione ecumenica di quell’evento nella cattedrale luterana di Lund, secondo lo spirito che lo stesso Papa ha sintetizzato nel giugno scorso dialogando con i giornalisti di ritorno dal viaggio in Armenia: «Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate: era un riformatore», ha dichiarato. Con l’intervista al pastore e teologo valdese Fulvio Ferrario inauguriamo una serie di interviste e interventi che intendono analizzare i temi di questo quinto centenario dal punto di vista storico e teologico, intrecciando tra loro voci del cattolicesimo e del protestantesimo.
Il pastore valdese Fulvio Ferrario ci tiene a precisarlo subito, come si fa con le questioni di metodo: «Se qualcosa abbiamo imparato dalla teologia del Novecento – dice – è che ogni pensiero teologico è contestuale. Valeva ai tempi di Martin Lutero come vale oggi». È in questa prospettiva che va letto il suo libro più recente, Il futuro della Riforma (Claudiana, pagine 200, euro 14,90), nel quale l’ormai imminente anniversario del 2017 viene situato e discusso nel contesto contemporaneo. «Nel contesto contemporaneo italiano ed europeo», precisa Ferrario, voce tra le più autorevoli della teologia protestante.
 
L’intervista
Quali sono gli elementi distintivi?
«In primo luogo la cosiddetta “areligiosità”, che costituisce l’evoluzione e insieme il superamento della secolarizzazione. La mentalità secolare, infatti, contrastava il cristianesimo, ma si muoveva in un orizzonte di senso nel quale era ancora riconoscibile l’impianto biblico, riassumibile in una visione della storia intesa come evoluzione da un passato peggiore del presente a un futuro addirittura migliore. L’uomo areligioso, invece, trova insensata la stessa nozione di senso. Si considera del tutto liberato da ogni ipoteca spirituale e di Dio, ormai, non percepisce più neppure l’ombra».
Non è così per tutti, però.
«Certo, e per questo va tenuto in conto un altro paradigma, che è quello della società postsecolare. Qui il dibattito è vastissimo, come sappiamo. Si va dalla “spiritualità senza Dio” alle nostalgie d’Oriente e al New Age, in una temperie alla quale non sono estranee, almeno in parte, le vicende dei movimenti nella Chiesa cattolica e l’ascesa delle congregazioni carismatico-evangelicali, che configurano sempre di più una quarta famiglia ecclesiale all’interno del cristianesimo».
In che senso?
«Nel senso di un nuovo tipo di Chiesa accanto alle tradizioni, molto più forti sul piano storico, rappresentate da cattolici, ortodossi e protestanti. I quali ultimi, nel quadro attuale, partono da una condizione indubbiamente svantaggiata».
Perché?
«Perché da un punto di vista areligioso un protestante è pur sempre troppo religioso, mentre in ambito post-secolare passa per essere troppo razionale, troppo illuminista».
Eppure la Riforma ha anche un’anima anticlericale e, per certi aspetti, razionalista.
«Non c’è solo questo, come non c’è solamente la polemica antipapista. Se torniamo a leggere la prima della famose 95 tesi di Wittemberg, troviamo un’insistenza sulla penitenza che oggi appare quanto di più antimoderno si possa immaginare. Il ricorso alle indulgenze viene contestato non per motivi morali, ma in quanto espressione di un cristianesimo che procede in via esclusivamente sacramentale, non tenendo nella dovuta considerazione l’obbedienza a Cristo nella vita quotidiana. Sono convinto che, in questa fase iniziale, Lutero non avesse messo in conto una rottura definitiva con Roma. Del resto, lo spirito della Riforma era nell’aria, se ne riconosce la presenza già nell’opera di Erasmo da Rotterdam, che fino al 1525 assume posizioni molto simili a quelle di Lutero. Poi, con la disputa su libero e servo arbitrio, l’opposizione tra i due diventa netta».
Che cosa significa parlare oggi di un “Cristo della Riforma”?
«Per me significa soffermarsi su tre aspetti che nella Riforma vengono sottolineati in modo particolare, per quanto nessuno di essi sia tipico solo della Riforma. Gesù si manifesta, in primo luogo, come rivelazione di Dio. Come porta di Dio, se così vogliamo esprimerci: nel momento in cui guardo a Gesù, comprendo che Dio è davvero creatore e signore del cielo e della terra. Il secondo elemento è costituito dalla Croce: “Cristo e questi crocifisso”, nell’espressione di Paolo. È il tema del Dio ucciso e non uccisore, carissimo alla teologia del Novecento, in una linea che ha in Jürgen Moltmann il suo esponente più noto. Decisiva è la consapevolezza che il Dio trinitario è coinvolto in quanto accade sulla Croce e non è un’entità astratta che si limita a contemplare il sacrificio di Gesù dall’alto. Infine, il terzo elemento è il pro nobis con cui la storia della salvezza viene a coincidere. Gesù è Dio con noi e Dio per noi, conoscerlo significa conoscere quelli che Melantone chiamava i suoi beneficia: il fatto che nella mia relazione con Cristo sta la mia salvezza, perché Cristo stesso ha assunto la mia condizione. Accoglie tutto di me, ma non per abbandonarmi a me stesso. Mi accoglie come sono perché, così come sono, ho bisogno di essere trasformato dalla conversione».
Il centenario è un’occasione per tornare a riflettere su tutto questo?
«Penso di sì, se non altro per quanto riguarda l’Italia. Minoranza del cristianesimo in un mondo nel quale il cristianesimo è a sua volta minoranza, il protestantesimo italiano ha subìto negli ultimi decenni mutamenti innegabili. Un’approfondita conoscenza della Bibbia, che fino a poco tempo fa era patrimonio comune dei credenti, non può più considerarsi scontata nella comunità. Difficile stabilire, per esempio, quanto la preghiera dei Salmi appartenga ancora alla sfera della devozione personale. E altre osservazioni si potrebbero fare sul culto domenicale, che non coincide necessariamente con la sola predicazione della Parola. La predicazione rimane centrale, non ci sono dubbi, ma andrebbe forse meglio inserita nel contesto della liturgia. C’è tutta un’ampiezza di registri da esplorare, a partire dalla dimensione del canto liturgico, che del resto appartiene assai profondamente alla tradizione protestante».
Il centenario può essere uno stimolo al dialogo ecumenico?
«Il pontificato di Francesco determina una situazione che ha aspetti di grande interesse per i protestanti. A volte si tratta del rafforzamento di processi già maturati nel passato, primo fra tutti il superamento della logica di contrapposizione tra una confessione e l’altra. Di suo, papa Bergoglio esce dalla mentalità di un primato assoluto dell’elemento dottrinale. Per me è abbastanza evidente che quella di Francesco è una teologia del tutto conforme alla tradizione cattolica e il suo ecumenismo non va misurato sulla base di una maggiore o minore vicinanza al protestantesimo. Ma in questo caso è la modalità stessa dell’incontro ad assumere valenza teologica. Nessuno può sapere quanto durerà questa fase, né se l’eredità di Bergoglio verrà raccolta dal suo successore, eppure questo non toglie nulla al carattere energico dell’attuale pontificato. So che nella Chiesa cattolica si parla volentieri di svolta, se non anche di rivoluzione. Ogni svolta, però, implica una conversione, come ci insegna Lutero. Questa volta, forse, ci si potrebbe accontentare di un po’ di autocritica: se si elogia il cambiamento è perché di cambiare qualcosa c’era bisogno, no?»
a cura di Alessandro Zaccuri in “Avvenire” del 12 ottobre 2016
 
 
“Papa Francesco a Lund? Un grande passo”
intervista a Paolo Ricca
Il prossimo 31 ottobre papa Francesco si recherà a Lund, in Svezia, e parteciperà alla cerimonia congiunta luterano-cattolica per commemorare il 500° anniversario della Riforma. Come si legge nel comunicato redatto dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, «l’evento intende mettere in evidenza i 50 anni di continuo dialogo ecumenico fra cattolici e luterani e i doni derivanti da tale collaborazione. La commemorazione si impernia sui temi del rendimento di grazie, del pentimento e dell’impegno nella testimonianza comune. L’obiettivo è di esprimere i doni della Riforma e chiedere perdono per la divisione perpetuata dai cristiani delle due tradizioni».
Nell’imminenza di questo avvenimento abbiamo rivolto alcune domande a Paolo Ricca, 80 anni, teologo e pastore valdese, docente emerito della Facoltà Valdese di Teologia e docente ospite del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Generosamente impegnato nel dialogo ecumenico da decenni, dirige una collana di opere scelte di Lutero per l’editrice Claudiana di Torino.
 
L’intervista
Quale significato riveste la partecipazione di papa Francesco alla commemorazione di Lund?
«Considero la sua partecipazione un fatto molto bello, importante. Anzitutto perché è la prima volta che un papa commemora la Riforma. Ciò a mio avviso costituisce un passo avanti rispetto ai traguardi significativi che si sono raggiunti con il Concilio Vaticano II, il quale – includendo nei suoi testi e così valorizzando alcuni principi e temi fondamentali della Riforma – segnò una svolta decisiva nei rapporti tra cattolici e protestanti. Partecipare alla commemorazione, come si appresta a fare il sommo rappresentante della Chiesa cattolica, significa, a mio parere, considerare la Riforma un evento positivo nella storia della Chiesa che ha fatto bene anche al cattolicesimo. La partecipazione alla commemorazione è un gesto di grande rilevanza anche perché il papa si reca a Lund, in casa dei luterani; come fosse uno di famiglia. La mia impressione è che lui, in un modo che non saprei definire, si senta parte anche di quella porzione di cristianità che è nata dalla Riforma».
Quale pensa sia stato sinora e potrà essere in futuro il contributo di papa Francesco al cammino verso l’unità dei cristiani?
«A me pare che il principale contributo da lui offerto in vista dell’unità sia il suo sforzo di reinventare il papato, ossia la ricerca di un modo nuovo e diverso di intendere e vivere il ministero del vescovo di Roma. Questa ricerca – supposto che la mia lettura colga almeno un poco nel segno – potrebbe portare molto lontano perché il papato – per il modo in cui è stato inteso e vissuto negli ultimi 1000 anni – è uno dei grandi ostacoli all’unità dei cristiani. Mi sembra che papa Francesco si stia muovendo verso un modello di papato diverso da quello tradizionale, rispetto al quale le altre Chiese cristiane potrebbero assumere posizioni nuove. Se così fosse, questo tema potrebbe essere completamente ripensato in ambito ecumenico».
Quali ritiene siano stati i passaggi più significativi del dialogo cattolico-luterano svoltosi negli ultimi 50 anni?
«Vi sono stati accordi molto importanti: anzitutto la “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione” risalente al 1999, nella quale compare anche la creazione di una nuova formula di intesa o di patto tra le Chiese, il “consenso differenziato”, che ritengo particolarmente interessante. Questa espressione significa che è stato raggiunto un accordo sui fondamentali della dottrina e che, nello stesso tempo, permangono differenze che tuttavia non inficiano la realtà dell’accordo raggiunto su quello specifico tema.
Purtroppo però questo accordo non ha ancora portato i frutti che molti si attendevano, probabilmente perché, mentre per i luterani la dottrina della giustificazione per fede è la stella polare che plasma e guida l’intera visione del rapporto tra Dio e l’uomo, essa non possiede un ruolo così centrale nel cattolicesimo.
Vi sono stati altri accordi significativi, ad esempio quello sull’Eucaristia, anche se non ha prodotto cambiamenti sostanziali tanto che oggi, ufficialmente, la Chiesa cattolica (come le Chiese ortodosse) non autorizza l’ospitalità eucaristica nei confronti dei protestanti sebbene nella realtà sia sovente praticata.
Indubbiamente ha grande valore il clima nuovo che si è creato negli ultimi 50 anni: non siamo più “l’un contro l’altro armati”, ma c’è uno scambio bello, la messa in comune dei doni che ciascuno può aver ricevuto da Dio e dei problemi che come Chiese dobbiamo affrontare in presenza dei molti drammi della società odierna e del fenomeno di una dilagante secolarizzazione».
Lei pensa che i drammi, le fatiche e le sofferenze degli uomini e delle donne del nostro tempo possano costituire uno sprone, una sollecitazione alla ricomposizione dell’unità?
«Le circostanze storiche possono sollecitare e favorire un cammino più spedito verso l’unità: ne sono prova alcune iniziative che protestanti e cattolici hanno promosso insieme per affrontare uniti i problemi della contemporaneità. Penso tuttavia che se la comunione non nascerà dalla fede, dalla speranza e dall’amore (ossia dalle realtà spirituali profonde che costituiscono il cuore del cristianesimo), finirà per essere debole o per sfaldarsi quando i problemi che l’hanno suscitata saranno risolti. Quindi occorre lavorare con pazienza sulla dimensione spirituale, perché solo in questo modo si costruisce una comunione duratura».
Nel continente europeo quali sono, a suo giudizio, le iniziative più interessanti avviate insieme da cattolici e protestanti?
«Tra le iniziative più significative vi sono i Consigli delle Chiese Cristiane che in Italia sono stati costituiti in alcune città, ad esempio a Milano e a Venezia. Questo Consigli, di cui fanno parte rappresentanti delle diverse Chiese cristiane, si incontrano periodicamente e operano in molti modi e su vari fronti. In alcuni Paesi (non in Italia) esistono anche i Consigli Nazionali delle Chiese Cristiane: penso che questa sia l’iniziativa più rilevante unitamente agli incontri promossi dalla Conferenza delle Chiese Europee (che riunisce le Chiese protestanti e ortodosse) e dal Consiglio delle Conferenze Episcopali Cattoliche d’Europa. Questi due organismi hanno organizzato assemblee comuni di grande interesse e valore ecumenico. Io ho partecipato a due incontri, a Basilea e a Graz. Tutto il cristianesimo europeo si trovò riunito: ne ho un ricordo molto bello». Secondo lei, i fedeli cattolici e protestanti avvertono come una ferita la divisione della Chiesa? «In generale direi di no; in tutte le Chiese il tema dell’unità dei cristiani è sentito solo da alcune minoranze. La divisione è una ferita grave, una infedeltà oggettiva di cui pochi hanno reale consapevolezza. La maggior parte dei cristiani la considera semplicemente un dato di fatto privo di reali conseguenze sulla propria vita di fede. Ma le conseguenze esistono. Quando i cristiani di diverse confessioni vivono gli uni accanto agli altri senza avere né cercare alcun rapporto tra loro significa che si sentono cristiani autosufficienti, che bastano a se stessi per realizzare la pienezza del cristianesimo. Questa è un’illusione! Il cristiano non è né può mai considerarsi autosufficiente. Qui ci soccorre la bellissima parabola del corpo di Cristo proposta da san Paolo nella prima Lettera ai Corinzi (12, 12-26).
Come l’occhio ha bisogno della mano e la testa dei piedi, così ogni cristiano ha bisogno non solo dell’altro simile a sé, ma anche di quello diverso da sé: questa diversità è manifestazione dell’opera dello Spirito che suscita molteplicità e varietà di doni. Il cristianesimo è un fatto plurale e in questo senso la molteplicità e diversità delle Chiese è cosa normale. Ciò che è anormale è la divisione. La diversità è cristiana, la divisione no. Occorre dunque superare la divisione senza cancellare la diversità».
Nel documento “Dal conflitto alla comunione” redatto dalla Commissione Internazionale Cattolico-Luterana nel 2013, si legge: «Nel 2017 dobbiamo confessare apertamente che siamo colpevoli dinanzi a Cristo di avere infranto l’unità della Chiesa. Questo anno giubilare ci presenta due sfide: la purificazione e la guarigione delle memorie, e la restaurazione dell’unità dei cristiani secondo la verità del Vangelo di Gesù Cristo». In quali forme lei pensa si tradurranno questi impegni?
«Non saprei dire come potranno tradursi questi impegni nei singoli paesi. Certamente sono obiettivi che non si raggiungeranno nell’arco di un anno: si tratta di processi che richiederanno decenni. La “purificazione della memoria” è un passaggio sul quale bisogna intendersi: purificare non significa dimenticare il passato né addomesticare la storia, ma rileggerla insieme. Questa è un’operazione nuova e indispensabile perché sino ad oggi cattolici e protestanti l’hanno riletta ciascuno per proprio conto.
Riguardo all’unità della Chiesa, penso che il passo decisivo o meglio, la premessa necessaria ad ogni ulteriore passo, sia il riconoscimento – da parte delle Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse – delle comunità protestanti come Chiese di Gesù Cristo, e non solo come “comunità ecclesiali”, per usare l’espressione del Concilio Vaticano II. Questo mancato riconoscimento è per tutti noi, figli della Riforma, una ferita dolorosa».
Con quali sentimenti si appresta a vivere la commemorazione della Riforma?
«Ho 80 anni: anzitutto sono grato a Dio per essere arrivato a questo appuntamento. Ritengo che la Riforma sia stata una benedizione per molti: per noi, ma anche per tutto il cristianesimo e per la Chiesa cattolica. Credo che difficilmente – senza la Riforma – il cattolicesimo sarebbe stato in grado di formulare un progetto di riforma propria: il Concilio di Trento non ha prodotto solo Controriforma, ma anche riforma tout court.
Commemoro e celebro questo anniversario perché la Riforma ha dato vita a un nuovo tipo di cristianesimo, a un ripensamento originale della fede: non è stata una riforma dell’esistente, ma la creazione di una nuova articolazione del fenomeno cristiano, che ha conservato il suo cuore antico, il cuore biblico. La Riforma ha creato un nuovo modello di Chiesa cristiana e un nuovo modo di porsi, come Chiesa, nella società. Potremmo parlare anche, senza cadere nella retorica agiografica, di una nuova civiltà.
Se guardo al futuro del dialogo ecumenico sono ottimista: non negli uomini o nelle Chiese, ma in Dio, perché ha compiuto meraviglie in questi ultimi 50 anni.
Il grosso nodo da sciogliere resta, a mio parere, quello del potere, che nessuno vuole perdere. Occorrerà ripensare al potere nella Chiesa, nelle Chiese e fra le Chiese».
a cura di Cristina Uguccioni, in “La Stampa-Vatican Insider” del 9 ottobre 2016