L’articolo di Galli della Loggia, “L’Europa e la Shoah” e l’articolo di Frediano Sessi “Il monito di Bauman sulla Shoah”, che presentiamo, possono suggerire utili elementi di riflessione per interpretare il significato della Shoah nella difficile e complessa stagione che l’Italia e l’Europa stanno oggi attraversando.
Quale senso ha oggi il mito della Shoah? Quali conseguenze ha prodotto nella coscienza europea? Cosa può dirci nel difficile confronto/scontro con un’immigrazione incontrollabile, la violenza del terrorismo islamico, una crisi economica senza precedenti, una classe politica inadeguata?
La fine dell’uso ideologico della Shoah strumentalizzato, troppo spesso, per invitarci ai buoni sentimenti, alla tolleranza, ad essere comprensivi, a non essere xenofobi, dovrebbe portarci ad assumere la responsabilità di trovare, a tutti i livelli, soluzioni politiche ai problemi.Il macigno morale della Shoah, apre dentro di noi una quantità enorme di problemi. Resta indubitabilmente vero, tuttavia, che in un momento cruciale, in una contingenza estrema, l’unico modo per difendere le buone ragioni può essere l’impiego ragionato e ragionevole della forza.
 
 
L’Europa e la Shoah
Galli Della Loggia
Qual è oggi la presenza della Shoah sulla scena europea?
Quali caratteristiche assume l’odio verso gli ebrei e secondo quali modalità si trasforma in gesti di morte?
A ogni apparenza, l’antisemitismo conosce oggi in Europa un’impennata. Direi che negli ultimi tempi non è passata forse settimana che non abbia fatto registrare episodi sanguinosi di attacco a cittadini di religione ebraica o a istituzioni ebraiche da parte quasi sempre dell’islamismo radicale o del terrorismo islamico. Negli ultimi anni si contano a decine e decine episodi di sangue, di feriti e di morti. Quando si parla di terrorismo islamico non bisogna peraltro dimenticare che molto più numerose sono le sue vittime islamiche: praticamente non passa giorno o quasi che in qualche luogo del Medio Oriente o dell’Africa non vi siano attentati sanguinosissimi.
C’è anche un’altra forma che oggi assume l’islamismo radicale, in questo caso forte di un vasto stuolo di fiancheggiatori. È la forma del boicottaggio nei confronti di Israele che mira a una sua sostanziale delegittimazione. Che cerca — spesso con l’aiuto vergognoso degli ambienti accademici che si dicono progressisti e di alcune grandi organizzazioni internazionali — di mettere al bando dal mondo civile lo Stato ebraico. È quanto mai significativo che quest’azione di boicottaggio riscuota grande successo negli ambienti della cultura, negli ambienti universitari — in modo tutto particolare in quelli anglosassoni. Ed è paradossale che una tale azione avvenga proprio in un mondo come quello della cultura, in cui negli ultimi due secoli gli ebrei hanno dato un contributo così decisivo. Ma nulla sembra essere servito, ahimè, a mettere al riparo l’ebraismo e lo Stato di Israele. La cui politica naturalmente si presta ad essere criticata come tutte le politiche di tutti gli Stati. Sicché io stesso sono critico verso la politica israeliana degli insediamenti nei territori occupati, nonché verso la politica condotta nei riguardi delle istituzioni cattoliche: una politica che mi sembra ispirata spesso da uno spirito di rivalsa che non può portare alcun frutto. Ma tali critiche nulla hanno a che fare con il nostro dovere, di fronte al boicottaggio di cui parlavo prima, di alzare una voce alta e forte che gridi: «Anche questo è antisemitismo! Ogni azione che mira a delegittimare lo Stato di Israele è antisemitismo!».
Ma se penso a quale presenza ha l’antisemitismo nell’ambito della vita dell’Europa odierna, allora occorre chiarire che ci sono molte differenze rispetto alla Shoah. Oggi, infatti, gli ebrei non sono, in Europa, una minoranza perseguitata. Questo è dovuto anche al fatto che l’islamismo radicale e il terrorismo islamista considerano cristiani ed ebrei indifferentemente come loro nemici, e non si fanno scrupolo di distinguere tra gli uni e gli altri. In questo modo, paradossalmente, l’islamismo radicale ha l’effetto di produrre un amalgama oggettivo, potrebbe dirsi quasi un’alleanza di fatto, tra ebrei e cristiani. Non c’è cosa più forte del sangue versato insieme per cementare dei legami fortissimi. Inutile osservare che si tratta di un’alleanza tra posizioni che storicamente, viceversa, sono state sempre (almeno fino alla Shoah), di antagonismo e di contrasto. In tal modo le azioni omicide compiute dall’islamismo radicale nel nostro continente sortiscono un ulteriore effetto di grande portata. E cioè l’effetto di accreditare del tutto quella categoria di radici ebraico-cristiane che risale soltanto agli ultimi decenni, essendo un frutto proprio della riflessione sulla Shoah e peraltro essendo rimasta confinata finora a un uso colto e anche non poco discusso. Il concetto di radici ebraico-cristiane, di un legame storico (non già solo teologico) inestricabile tra giudaismo e cristianesimo si è trovato straordinariamente rafforzato nel momento in cui dalla dimensione astratta e ideale si è passati alla dimensione molto concreta dell’essere insieme obiettivi di sanguinose azioni di guerra.
In questo senso particolare — e ben consapevole del peso delle parole che sto per pronunciare — si potrebbe davvero dire che con quanto sta accadendo in Europa la Shoah è finita . E si potrebbe aggiungere che non è affatto vero che Dio sarebbe morto ad Auschwitz: lo hanno simbolicamente tenuto in vita alcune donne di origine ebraica ma convertite al cristianesimo, con ciò segno potente esse stesse dell’unione dei due monoteismi. Mi riferisco per esempio a Simone Weil e a Etty Hillesum, pensatrici tra le più importanti del Novecento.
Se comunque si può dire in qualche modo che la Shoah è finita, allora il ragionamento può fare un passo ulteriore, per avventurarsi su un terreno più squisitamente storico-politico. La sostanziale eclissi storica dell’Europa negli ultimi sessant’anni, l’impossibilità da parte dell’Europa stessa di costituirsi come soggetto politico, tutto ciò è a mio giudizio derivato da una sorta di terribile rimorso collegato alla Shoah. Collegato al terribile problema che l’Europa ha avuto in relazione alla dimensione della violenza, della guerra. Dal 1945 ad oggi, insomma, l’impiego della forza (elemento irrinunciabile di qualunque politica estera) si è trovato ad essere sostanzialmente vietato dal tabù rappresentato dall’effettiva complicità dell’intera Europa nella Shoah. Dalla consapevolezza che i popoli europei hanno avuto di una tale complicità a dispetto di tutte le mitologie circa le alleanze antifasciste; dalla consapevolezza che nel 1940 di fatto tutte le classi dirigenti europee avevano aderito a un progetto antisemita più o meno forte, radicale, sanguinario. Si è in tal modo depositato inconsapevolmente nello spirito pubblico del continente come un terribile fondo di rimorso nei confronti del passato, all’origine della convinzione che con la violenza, con la guerra, non bisognava e non si poteva più avere a che fare, così rinunciando di fatto a una dimensione fondamentale della politica.
Forse però — questo «forse» vorrei sottolinearlo dieci volte — la situazione nuova che si sta oggi disegnando, con questo amalgama ebraico-cristiano prodotto dal terrorismo islamista, e quindi con la «fine ideologica» della Shoah, forse tutto ciò è sul punto di produrre un superamento del tabù. Oggi, forse, sotto l’incalzare degli eventi, si sta per aprire la possibilità di un ritorno dell’Europa alla storia. Tutto questo sta accadendo per vie che non sappiamo ancora scorgere con chiarezza; vie che sono determinate a volte anche dagli impulsi pericolosi delle opinioni pubbliche, dalla reazione agli eventi in cui siamo immersi e da cui siamo così violentemente colpiti. Prima di terminare vorrei però trovare il modo, di rivolgere un invito: nelle società europee, che si trovano a fronteggiare i formidabili problemi prodotti da un’immigrazione senza precedenti — vuoi per le sue proporzioni quantitative, vuoi soprattutto per la sua natura —, gli uomini della politica la smettano di invitarci ai buoni sentimenti, alla tolleranza, ad essere comprensivi, a non essere xenofobi! Il loro compito non è questo, ma quello di trovare soluzioni politiche ai problemi. In questo campo come forse in nessun altro vale il detto che le chiacchiere stanno a zero.
La guerra, l’uso della forza, l’abbandono del tabù: si tratta di macigni morali, che aprono dentro di noi una quantità enorme di problemi. Resta indubitabilmente vero, tuttavia, che in un momento cruciale, in una contingenza estrema, l’unico modo per difendere le buone ragioni può essere l’impiego della forza. È una lezione della storia che può piacere o no, ma è indubitabile: in un modo o nell’altro la realtà finisce per imporsi, specialmente quando si tratta di difendere delle buone ragioni. E le nostre, ne sono convinto, sono buone ragioni.
Cfr. L’Europa e la Shoah di Ernesto Galli Della Loggia, in “Corriere della Sera” del 25 gennaio 2017
 
 
Monito di Bauman sulla Shoah. «Attenti, l’orrore resta in agguato»
di Frediano Sessi 
Ancora oggi, quando si parla dello sterminio degli ebrei nell’Europa nazista, sono in molti coloro che fanno ricorso all’idea di follia collettiva, per spiegare questo male assoluto.
Una follia collettiva non riconosciuta dai testimoni diretti, se pensiamo che già Primo Levi, nel 1975, scriveva di avere incontrato ad Auschwitz, tra le file degli aguzzini, uomini come lui, né pazzi e nemmeno sadici. Uomini comuni. Eppure, davanti a quel che resta dell’universo concentrazionario di Auschwitz è ricorrente il pensiero rivolto a quella parte demoniaca degli uomini che è sempre pronta a emergere nella storia, quasi che in ciascuno di noi fosse incistato un «piccolo Hitler», pronto a prevalere su tutto al presentarsi di una buona occasione.
Lo stesso Zygmunt Bauman, nell’introduzione al suo saggio Modernità e Olocausto(domani in edicola insieme al «Corriere», con la prefazione inedita di Donatella Di Cesare), confessa di avere osservato lo sterminio degli ebrei in modo distratto, come fosse un evento straordinario, lontano dal quotidiano, fino a che la moglie Janina, scrivendo la sua storia di sofferenza e persecuzione nel 1986 (Inverno nel mattino. Una ragazza nel ghetto di Varsavia, il Mulino, 1994) non gli suggerì un nuovo modo di guardare all’Olocausto. Una tragedia che aveva colpito gli ebrei, ma che riguardava tutti e, in particolare, il nostro modo di stare dentro il quotidiano; capace di condizionare il nostro agire, oltre che di incidere sul nostro pensiero e sulle nostre scelte.
Quando Bauman comincia a scrivere il saggio (siamo alla fine degli anni Ottanta) già alcuni storici hanno tentato di dare una visione globale dello sterminio nazista degli ebrei, senza tuttavia interrogarsi sul «perché» fosse accaduto, ma soffermandosi in particolare a ricostruire il «come», vale a dire ricostruendo quei meccanismi amministrativi e burocratici che avevano reso possibile lo scatenarsi della violenza. In particolare, tra gli studi che Bauman sembra privilegiare, emerge il saggio storico di Raul Hilberg La distruzione degli ebrei d’Europa (che oggi torna in libreria in una nuova edizione Einaudi).
Proprio l’intuizione di Hilberg di considerare in prevalenza i documenti di parte nazista per spiegare il lavoro dei burocrati, frammentato e a volte anche caotico, che andava oltre l’odio rivolto agli ebrei (dato che molti di loro non erano antisemiti), sarà alla base della straordinaria intuizione di Bauman, che scorge nella «modernità» il motore dell’Olocausto.
La civiltà moderna, scrive Bauman, caratterizzata da uno sfruttamento razionale delle risorse, materiali e umane, dalla tecnologia in continua evoluzione e da una evidente cultura burocratica alla base del funzionamento dello Stato e della società; con le sue quattro burocrazie principali (delle istituzioni pubbliche, delle forze armate, dell’economia e del partito) «ha rappresentato senza alcun dubbio la condizione necessaria», senza la quale l’Olocausto sarebbe stato impensabile.
In questo modo, il sociologo di origine polacca si incamminava verso la spiegazione del «perché» quel male assoluto fosse stato possibile in una Germania e in un’Europa che avevano raggiunto livelli di civiltà e di cultura elevati.
E tuttavia, al di fuori da ogni equivoco o semplificazione (che spesso sono stati causa di critiche ingiuste al suo lavoro), Bauman precisa fin da subito: «Ciò non significa suggerire che la portata dell’Olocausto fu determinata dalla burocrazia moderna o dalla cultura della razionalità strumentale che essa incarna, e ancor meno che tale burocrazia debba necessariamente sfociare in fenomeni simili all’Olocausto. Vogliamo però effettivamente suggerire — conclude — che le regole della razionalità strumentale sono singolarmente incapaci di impedire fenomeni del genere».
Le conseguenze da trarre, sono un monito: senza la civiltà moderna, non vi sarebbe stato alcun Olocausto, perché «la distruzione di massa degli ebrei non fu solo una forma estrema di antagonismo e di oppressione» o di odio collettivo. Non dimentichiamo che l’antisemitismo da solo, nella storia, non aveva mai portato a simili tragedie. E in secondo luogo, quando si giunge «all’omicidio di massa», a causa della frammentazione dei compiti che si differenziano e si articolano in varie istituzioni e burocrazie pubbliche e private, «le vittime si ritrovano sole».
La guerra degli Alleati contro i nazisti non poteva deviare i suoi progetti, per fermare le deportazioni e distruggere gli impianti di sterminio; le nazioni democratiche, a causa della crisi economica e alimentare, non erano in grado accogliere gli ebrei in fuga; il Vaticano doveva difendere le proprie chiese e i propri conventi dalla furia hitleriana, così come la Croce Rossa internazionale doveva tutelare i militari internati più che occuparsi della salvezza degli ebrei.
Sono solo alcuni esempi della cecità burocratica e politica intrisa di modernità che provocò, nei fatti, l’abbandono degli ebrei a se stessi.
Esistono dunque ragioni di preoccupazione se questa analisi è vera, scrive Bauman, «poiché oggi sappiamo di vivere in un tipo di società che rese possibile l’Olocausto e che non conteneva alcun elemento in grado di impedire il suo verificarsi».
La storia può dunque ripetersi? Per Raul Hilberg, sulla cui opera si fonda in gran parte l‘acuta riflessione di Bauman, la storia si è già ripetuta; «nell’indifferenza e sotto gli occhi delle democrazie occidentali, si è concretizzata, in Ruanda, la tragedia dei Tutsi». L’abisso si è aperto di nuovo di fronte all’intera umanità. E quali sono, oggi i segni premonitori che gli Stati democratici e opulenti non sanno o non vogliono leggere?
Per questo, ci ammonisce Bauman con preoccupazione e passione, «è sempre più necessario studiare la lezione dell’Olocausto. È in gioco molto di più che il tributo alla memoria di milioni di vittime». Il suo saggio, allora, ritorna a essere necessario, perché interroga il nostro agire di uomini, posti di fronte alle nuove vittime.
Bauman, scrive Donatella Di Cesare, «ha fatto della Shoah il caleidoscopio attraverso cui guardare nell’abisso disumano» della modernità, suggerendo che «la frantumazione delle responsabilità», capace di allontanarci dalle conseguenze delle nostre azioni, è una delle eredità avvelenate di Auschwitz.
Corriere della sera 27/1/2007