Così come La grande fuga, famoso film del 1963, racconta l’evasione di un gruppo di soldati da un campo di prigionia della Seconda guerra mondiale, questo libro evoca la fuga dalla deprivazione e dalla morte precoce come costante nella storia dell’umanità. Le azioni che, una generazione dopo l’altra, sono state intraprese per rendere l’esistenza meno dura hanno tuttavia prodotto un incessante oscillare tra progresso e disuguaglianza. Avremo mai un progresso senza disuguaglianza? Non si parla qui solo di denaro, ma anche di salute, di felicità, e della possibilità di vivere abbastanza a lungo per godere delle opportunità della vita.
 
Descrizione
Titolo La grande fuga. Salute, ricchezza e le origini della disuguaglianza
Autore Deaton Angus
Prezzo € 28,00
Data 2015
Pagine 381
Traduzione Palminiello P.
Editore Il Mulino
 
 
 
La fuga verso un’economia più equa
di Angus Deaton
Le condizioni di vita dell’umanità sono oggi migliori rispetto al passato
Nel mio libro “La grande fuga” ho descritto come le condizioni di vita dell’umanità siano migliori oggi rispetto a qualsiasi altro storico. I popoli sono più ricchi e godono di migliori condizioni di salute. Gran parte dell’umanità vive con standard che i propri nonni non avrebbero neppure sognato. Ad esempio quando mio padre nacque, in Inghilterra il tasso di mortalità infantile era alto quanto lo è oggi in gran parte del continente africano. In tutti i Paesi del mondo il tasso di mortalità infantile, sia quello sotto il primo che quello sotto il quinto anno d’età, è sceso a partire dal 1950.
La globalizzazione ha danneggiato molti e molti ne mettono in dubbio gli effetti. Tuttavia noi non dovremmo mai dimenticare le centinaia di milioni di persone che hanno beneficiato di questo fenomeno, specialmente (anche se non esclusivamente) in India e in Cina. La miseria e la povertà, che un tempo molti erano costretti a sopportare, erano tali da negare infatti la loro stessa dignità e umanità.
La globalizzazione ha quindi molti difetti come ne ha il modo in cui il capitalismo globale è organizzato e regolato. C’è infatti ingiustizia e c’è molta sofferenza di cui non si sente davvero il bisogno e migliori strutture di previdenza sociale a livello nazionale e globale potrebbero certo alleviare una buona parte di questi problemi. Le disuguaglianze reddituali stanno poi rapidamente crescendo in molti Paesi ricchi e in un gran numero di quelli più poveri; in molte zone del pianeta chi si sta avvantaggiando dei benefici della crescita economica è una piccola minoranza che già viveva in condizioni più che favorevoli rispetto al resto della popolazione.
L’ascesa della Cina e dell’India ha inoltre ridotto la disuguaglianza globale tra tutte le popolazioni del pianeta, anche se rimangono grandi disparità tra i Paesi ricchi e quelli poveri.
Ma le disuguaglianze di reddito sono sempre e necessariamente ingiuste? E se lo sono, in cosa sono sbagliate e cosa occorre fare per ridurle?
I più grandi divari che oggi vediamo nel mondo hanno la loro origine nella “Grande divergenza” del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. La rivoluzione industriale e i successivi miglioramenti delle condizioni di salute e igiene inizialmente hanno toccato infatti soltanto un nucleo ristretto di Paesi. La “Grande Divergenza” non fu causata dall’impoverimento o dallo sfruttamento di alcuni a favore di altri: anzi la Divergenza si accrebbe a causa della graduale “fuga” da condizioni di privazione economica e sanitaria di un gruppo ben preciso di Paesi.
Quella “fuga” causò certamente un’enorme disuguaglianza globale, ma salvò anche le vite di milioni di persone, senza mai danneggiare quelle di altri. La disuguaglianza che la “fuga” portò con sé non è iniqua o ingiusta, a meno che noi crediamo che la giustizia richieda che nessuno possa “fuggire” se non lo fanno anche tutti gli altri nello stesso momento. Nel ricco mondo contemporaneo ci troviamo di fronte a due tipi di disuguaglianza economica. Uno nasce dal successo di innovatori e imprenditori lungimiranti, le cui invenzioni e scoperte hanno reso il mondo migliore di quello che era in passato. Questi davvero rappresentano la fonte della crescita economica e di quella creatività nel pensare e nel produrre che contribuisce a farci stare sempre meglio. Che questi uomini costruttori di progresso divengano più ricchi, non è certo un crimine visto tutto ciò che fanno. Lo stesso però non può essere detto per il secondo tipo di disuguaglianza, quella guidata dalla ricerca di una rendita improduttiva da parte di quanti sono già ricchi e potenti. Questi ultimi infatti si arricchiscono senza creare nulla, ma anzi sottraendo sempre più a tutti gli altri.
Pensiamo così a quelle aziende che coi loro lobbisti scrivono leggi a loro favore, leggi in grado di renderle più ricche a spesa di tutti gli altri. Queste aziende spesso si adoperano contro le legislazioni antitrust che, invece, forniscono quelle regole basilari per cui il mercato funzioni per tutti e non solo per i più ricchi o per quelli con i giusti contatti nei posti giusti. Questi soggetti economici stanno ribaltando la distribuzione dei redditi, allontanandola dai salari e spingendola verso i propri profitti. La disuguaglianza che origina da questo tipo di capitalismo clientelare è un vero cancro che ci minaccia tutti. Questo cattivo tipo di disuguaglianza mina anche la (dis)uguaglianza politica, lasciando indietro coloro le cui voci si perdono annegate nel flusso incessante del denaro. Negli Stati Uniti è infatti quasi impossibile essere eletti membri del Congresso o restare in carica senza un grande supporto finanziario. È così che gli interessi che vengono portati avanti sono quelli di chi contribuisce coi propri fondi alla vita politica ed elettorale.
In Europa il finanziamento alla politica non costituisce un problema così serio. Ciononostante troppi sono gli elettori che sentono che i propri interessi non sono rappresentati né nei governi nazionali né in quelli sovrannazionali e si stanno così rivolgendo a partiti estremisti la cui elezione però renderebbe le cose ancora più difficili. Dunque è la corruzione della disuguaglianza a dover essere rimossa, non tanto con tasse o meccanismi di ridistribuzione, quanto piuttosto con un migliore funzionamento delle democrazie che possa realmente scacciare il capitalismo clientelare e riportare in carica governi che rappresentano realmente l’intera collettività.
Angus Deaton è Premio Nobel per l’Economia 2015. Professore emerito di Economia e Affari Internazionali alla Woodrow Wilson School of Public and International Affairs e al Dipartimento di Economia dell’Università di Princeton
in “Il Sole 24 Ore” del 20 settembre 2016
 
La voce della critica
Adelino Zanini

Lavoro importante, ben scritto, chiaro, problematico, capace di affrontare le questioni connesse alla diseguaglianza presente nelle società odierne senza ricorrere a geremiadi e senza indulgere in moralismi vieti. I giudizi dei recensori dell’edizione americana del libro di Angus Deaton sono stati per lo più concordi.
Oggetto d’indagine è la “grande fuga” del genere umano dalla deprivazione e dalla morte precoce, dunque, l’insieme delle azioni e delle iniziative con cui uomini e donne sono riusciti, generazione dopo generazione, a rendere le proprie esistenze meno aspre e dure, aprendo la strada a chi sarebbe venuto dopo di loro. Meno aspre, cioè migliori in termini comparati, tenendo conto che fuggire dalla miseria non significa solo possedere più denaro, potere d’acquisto, bensì anche, e soprattutto, disporre di una salute migliore e di migliori aspettative di vita per sé e per i propri figli.
La “grande fuga” descrive quindi un processo già realizzatosi in occidente (perché illuminismo, rivoluzione industriale, teoria microbica delle malattie, sono eventi occidentali) e i cui effetti si sono certamente diffusi nel mondo intero; un processo che non può essere analizzato adeguatamente senza riconoscere che la storia del benessere sin qui raggiunto può essere narrata solo abbracciando l’insieme di fattori che hanno reso la vita migliore e sempre più degna di essere vissuta.
Un processo, infine, che non coincide affatto con la storia della ricchezza, a cui sia da affiancarsi quella della diseguaglianza a essa relata. Non solo perché la ricchezza non può essere espressa ricorrendo semplicemente a indicatori economici (la cui valenza è peraltro spesso parziale, quando non tecnicamente dubbia), quanto perché la storia del progresso è anche storia intessuta di diseguaglianze e generata dalla spinta proprio da esse impressa.
La “grande fuga” rappresenta altresì un modello: che il processo possa ripetersi è infatti auspicabile – osserva Deaton –, quantunque nient’affatto certo. Si può cioè sperare che l’indigenza incoraggi il desiderio sempre presente di fuggire e la ricerca di “sistemi nuovi per colmare i divari, se non altro perché l’esistenza di persone non indigenti dimostra che la deprivazione non è inevitabile”. E sebbene il pianeta sia oggi immensamente più disuguale di quanto fosse trecento anni fa, nessuno potrebbe avanzare la bizzarra idea che si stesse meglio quando si stava tutti peggio. La palese assurdità di un tale paradosso balzerebbe agli occhi quando si considerasse, ad esempio, che nessun paese registra oggi una mortalità infantile pari a quella degli anni cinquanta del secolo scorso e che un bambino “che nasca oggi in Cina o in India (paesi che nel 2005 contavano insieme più di un terzo della popolazione mondiale e quasi la metà di quella più povera) può aspettarsi di vivere rispettivamente per 73 e 64 anni”, considerazione la cui rilevanza si mostra quando ci si riferisca, ovviamente, al numero di abitanti del pianeta, non al numero di paesi.
Perché, tuttavia, la qualità di vita dei paesi più poveri non è cresciuta più rapidamente di quella dei paesi più ricchi? Perché le conoscenze epidemiologiche acquisite e divulgate da metà Ottocento in poi non sono bastate a generare una catena di “fughe”?
Detto in breve, all’evoluzione del reddito – la quale spiega molto, ma non tutto, rispetto ad esempio al controllo dei vettori che trasmettono malattie e alla razionalizzazione dei sistemi atti a bloccarli – non è necessariamente legata la diffusione delle conoscenze, i loro frutti in campo medico, la consapevolezza di ciò che è necessario fare e di chi dovrebbe farlo – per tacere della volontà di farlo, ossia della scala di priorità politiche di un determinato paese, del livello di democrazia in esso presente, della corruzione diffusa o meno, etc. A fare la differenza è quindi la conoscenza partecipata, il suo impiego, la sua diffusione. Fattori certo non disgiungibili dalla povertà, ma neppure vincolati alla sola crescita, i cui benefici, del resto, si possono distribuire in modi differenti entro lo stesso paese. Ciò richiede la necessaria accortezza nell’interpretazione delle interrelazioni tra i dati, e in ciò Deaton porta un contributo notevole.
All’incessante problematicità può però conseguire anche una sorta di circolo vizioso, come accade, ad esempio, quando l’autore, dopo molte pagine di raffinate analisi, sottolinea, con illuministico stupore, il fatto che molti cittadini africani antepongono, ancor oggi, la lotta alla povertà o alla disoccupazione allo stato di salute, dimostrando di non avere “ancora compreso che la fuga è possibile o che accedere a cure sanitarie di qualità può essere una via verso la libertà”. Questo perché il modello “grande fuga” non funziona là dove la volontà di fuggire non sia sorretta dalla conoscenza; quest’ultima, tuttavia, richiede a sua volta adeguate strutture, per le quali sono necessari tempo, denaro, democrazia e conoscenza. D’altra parte, se così non fosse, non si potrebbe dire quello che Deaton dice, ossia che un “mondo migliore produce un mondo di differenze; le fughe creano diseguaglianze”.
Ebbene, a chi sia riuscito di fuggire incombe una responsabilità verso coloro che sono rimasti indietro? A livello di singolo paese, la disuguaglianza può “orientare o incoraggiare coloro che sono rimasti indietro”, ma può diventare così profonda “da inceppare la crescita e compromettere il funzionamento stesso del sistema economico”. Del resto, nemmeno l’uguaglianza delle opportunità “conduce necessariamente a risultati indiscutibilmente conformi a giustizia”, giacché è la disuguaglianza a essere d’ostacolo alla realizzazione di opportunità eguali e i due fenomeni tendono a procedere insieme, come mostrano gli Stati Uniti, ove peraltro tali opportunità sono lungi dall’essere effettivamente tali.
A livello globale, comunque, le sperequazioni maggiori sono dovute in larga parte alle differenze tra paesi. Quindi, il quesito sopra posto andrebbe riformulato, al fine di comprendere “se sia davvero opportuno curarsi della disuguaglianza nel mondo, ed eventualmente perché”. Al riguardo, prima osservazione da farsi, secondo Deaton, è che non esistono istituzioni di governo sovranazionali a cui i cittadini debbano lealtà e le quali siano dunque tenute a “correggere le diseguaglianze internazionali che dovessero apparire ingiuste”. La stessa misurazione di tali disuguaglianze tra paesi diversi non è statisticamente realizzata o affidabile. Non di meno, istituzioni internazionali quali l’Organizzazione mondiale del commercio e la Banca mondiale sono artefici di politiche che incidono sui redditi di molti abitanti del pianeta. Si può quindi concludere che “la loro capacità di fare del bene o causare danni rappresenta di certo una buona ragione perché le si incarichi se non altro di monitorare la distribuzione dei redditi”.
Monitorare non equivale però a intervenire per aiutare. Di nuovo, un vero e proprio circolo vizioso – dilemma, dice l’autore – si profila, giacché, se in un determinato paese povero le condizioni indispensabili allo sviluppo fossero presenti, gli aiuti non sarebbero necessari; se invece le condizioni locali fossero avverse alla crescita, gli aiuti sarebbero inefficaci.
Ma c’è di più: secondo Deaton, gli aiuti allo sviluppo risultano per lo più inutili allo scopo, perché non è loro fine quello di eliminare la povertà globale. Nella maggior parte dei casi, a indirizzarli sono infatti gli interessi di politica estera (e/o commerciale) dei paesi donatori. Non poca importanza hanno poi la diversione dei fondi messa in atto dai paesi riceventi, i conflitti burocratici tra agencies internazionali e, di nuovo, l’effetto paradosso che le politiche di sostegno internazionale potrebbero generare. Non è infatti del tutto chiaro se nel corso degli ultimi cinquant’anni gli aiuti abbiano sostenuto o ostacolato la lotta alla povertà. A non funzionare, in sostanza, sarebbe la cosiddetta “concezione idraulica”, secondo cui gli aiuti che defluiscono dai paesi ricchi dovrebbero assicurare a quelli poveri un’opportunità certa di sviluppo. Viceversa, spesso risultano es–sere addirittura causa di turbamento del funzionamento delle istituzioni locali, quando non una minaccia esplicita alla democrazia presente nei contesti più promettenti.
Il quesito circa l’opportunità di curarsi o meno della disuguaglianza nel mondo pare perciò essere parte indisgiungibile del problema. Semplicemente, non tocca “a noi” inter–venire, nessuno ci ha affidato quest’incarico, osserva Deaton. Dobbiamo farci da parte, lasciare che i paesi poveri se la cavino da soli, smettere di fare ciò che ne ostacola la “fuga”. Tesi discutibile, non necessariamente condivisibile o, viceversa, sacrosanta e coraggiosa? Forse, anche una tale domanda sarebbe francamente riduttiva rispetto alla problematica ricchezza del libro di Deaton.
La questione da sollevarsi sembra casomai un’altra. Quale che sia l’efficacia retorica del modello “grande fuga” e per quanti siano gli aspetti morali a cui esso semplicemente si sottrae, non può sfuggire l’azzardo metodologico che implica. Che non è dovuto tanto al non saper prevedere il modo in cui altre “fughe” si produrranno (come osservato dallo storico economico John Parman), quanto al più semplice fatto di trascurare del tutto ciò che comporta il “salto di paradigma” implicito nell’ipotizzare, analogicamente, che esse possano ripetersi “là”, poiché già una volta sono state possibili “qua”. Una sorta di “occidentalismo”, o un più banale attaccamento alla potenza evocativa del film di John Sturges?