“Sembrava immortale dai migranti ai poveri le nostre sfide comuni”
intervista ad Agostino Marchetto,
«Marco se n’è andato. Faccio fatica a pensare che quest’uomo, di una vitalità straordinaria, abbia ammainato le vele e sia giunto in porto. Ha combattuto la sua battaglia, le sue numerose lotte, i suoi corpo a corpo, ma non era immortale. Eppure sembrava che lo fosse. Sempre di nuovo in piedi, dopo essere apparso finito». Agostino Marchetto, arcivescovo diplomatico di curia, esperto dell’ermeneutica del Concilio Vaticano II, era amico di Marco Pannella. Con lui dialogava sulle frequenze di Radio Radicale.
 
L’intervista
Qual era il suo segreto?
«Aveva a cuore l’uomo, la sua dignità, quella di chi era sconfitto, emarginato, secondo la sua visione certamente».
Dai tempi dei referendum su aborto e divorzio in avanti non aveva le stesse idee della Chiesa.
«Sì, ma aveva un’idea larga del trovarsi insieme con chi, pur appartenendo a un mondo diverso dal suo, combatteva con lui. È forse anche per questo che nonostante la diversità di vedute su certi temi, eravamo amici. Su altri temi però avevamo la stessa visione: nella mia e sua battaglia per i migranti, contro i respingimenti in mare, a favore dei rifugiati, perseguitati, in pericolo di vita. Tra noi si creò una lunghezza d’onda che scoprii in alcuni incontri che lui mi chiese in un tempo nel quale avevo ormai lasciato il campo attivo e pubblico di segretario del dicastero dei Migranti e gli Itineranti».
Perché volle incontrarla?
«Per parlare, per dirmi dei suoi impegni, per invitarmi in qualche sua impresa affinché non dovesse fare tutto da solo; lui non fu manicheo, io non fui chiuso verso di lui, anzi ero meravigliato dalla sua libertà che sfidava anche la mia».
Chi vi fece incontrare?
«Grazie a Giuseppe Di Leo partecipammo a delle tavole rotonde di Radio Radicale, che mi lasciarono sempre sorpreso per la possibilità di parlare anche di Cristo e di Chiesa, della sua storia, del suo essere nel mondo. I suoi interventi erano fiume, con grandi conoscenze e direi anche simpatie, sul Vaticano II».
Cosa le mancherà di più?
«I suoi digiuni “scombussolatori” per lui e per noi, per il nostro quieto, troppo quieto, procedere nel campo della difesa dei derelitti, di chi è dimenticato. Mi mancherà lui, con il suo far da ponte in non poche questioni tra mondi non così visibilmente vicini. E proprio per questo mi permetto, oso, salutarlo così: addio, a-Dio».
i Paolo Rodari, in “la Repubblica” del 20 maggio 2016
 
 
“Distanze siderali su aborto e fine vita, ma anche lui dava voce a chi non ce l’ha”
intervista a Rino Fisichella

«Non ho certo condiviso le battaglie di Marco Pannella come l’aborto o in tempi più recenti, quella per l’eutanasia. Ma non posso dimenticare che è stato anche capace di far sentire la voce dei senza voce». L’arcivescovo Rino Fisichella, già cappellano della Camera dei deputati, oggi presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione e regista del Giubileo della misericordia, in un colloquio con «La Stampa» ricorda così il leader radicale scomparso. Parole simili a quelle del portavoce vaticano padre Federico Lombardi che ieri ha definito Pannella «una persona con cui ci siamo trovati spesso in passato su posizioni discordanti ma non si poteva non apprezzare il suo impegno totale e disinteressato per nobili cause ad esempio quella a cui si è molto dedicato negli anni recenti, in favore dei carcerati».
 
L’intervista
Monsignor Fisichella, conosceva Pannella?
«L’ho incontrato qualche volta e ho sempre trovato in lui il rispetto per l’altro. L’ultima volta l’ho visto qualche mese fa. Era tra il pubblico alla presentazione di un libro sulla misericordia. Gli ho detto che Papa Francesco avrebbe fatto cose importanti per i carcerati. Lui ha sgranato gli occhi e ha fatto un gran sorriso: “È quello che attendo, sono certo che farà ciò di cui c’è veramente bisogno”. Un’espressione che mi ha fatto capire il cuore di questa persona».
Colpisce sentir dire questo da un vescovo…
«Intendiamoci: ho condiviso ben poco, anzi nulla, di certe battaglie radicali degli anni ’70 e ’80. Ma non posso nemmeno dimenticare le iniziative per combattere la fame nel mondo o quelle per far sentire la voce di chi non aveva voce, come nel caso dei carcerati. Questo non dovrebbe stupire. È importante cercare con chi non crede un dialogo fondato sulla ragione. Su alcuni temi, come quelli che ho accennato prima, Pannella ha sempre mostrato un profondo interesse anche per le posizioni della Chiesa».
Ma su aborto, eutanasia, liberalizzazione della droga eravate su fronti opposti.
«Certo. Lui parlava di diritti e di libertà della persona. Ma questo non può intaccare la sacralità della vita che è un dono ricevuto del quale non possiamo disporre a piacimento».
Quanto ha influito Pannella nei cambiamenti avvenuti nel nostro Paese su questi temi? «Dal punto di vista culturale prima ancora che politico, certamente Pannella ha influito non poco nel cambiamento della società italiana, con la sua lunga presenza in Parlamento. Lo ha fatto dall’interno delle istituzioni politiche. Anche se minoritario, è stato determinante. Non dimentichiamo poi che le sue idee erano condivise dall’area politica rappresentata dal Partito socialista. Lui ha avuto una parte non secondaria e dunque porta certamente con sé delle responsabilità per quanto è avvenuto».
Anche con Giovanni Paolo II vi furono dei contatti, vero?
«Sì, certo. Ci fu un incontro nel 1986. E nei primi anni del pontificato, Karol Wojtyla era diventato un interlocutore per chi si impegnava contro lo sterminio per fame. Su alcune problematiche ci si intendeva. C’erano punti di contatto e insieme anche distanze siderali su questioni quali quelle del diritto di nascere – e non di venire soppresso nel grembo materno – per ogni essere umano».
C’è chi si è scandalizzato per le telefonate di Papa Francesco al leader radicale mentre faceva lo sciopero della fame. Lei è tra questi?
«E perché mai? Una delle caratteristiche di Francesco è la sua costante apertura verso tutti, senza distinzioni politiche, religiose o di altro genere. È particolarmente sensibile alle persone che sono nella malattia. E poi alcune battaglie, come quella per la dignità della vita nelle carceri, appartengono al Dna della Chiesa».
a cura di Andrea Tornielli, in “La Stampa” del 20 maggio 2016
 
 
«Tra noi nessuna corsa a convertirci ma voleva tenersi la croce di Romero»
intervista a Vincenzo Paglia,
«Quando ha visto la mia croce pettorale, mi ha chiesto da dove veniva. Ho spiegato a Marco che era la croce dell’arcivescovo Óscar Romero, del quale avevo seguito come postulatore la causa di beatificazione. Gli raccontavo che Romero era stato ucciso perché si scagliava contro un’oligarchia oppressiva, per difendere i poveri, forte solo della sua parola e della radio che diffondeva i suoi messaggi, tanto che a volte gliela facevano saltare. E questa cosa lo entusiasmava, mi ha preso la croce, se la rigirava fra le mani, se l’è pure messa, non voleva più ridarmela…». L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del pontificio Consiglio per la famiglia, sorride con un velo di mestizia. Con Pannella si sono parlati ancora la settimana scorsa, l’ultima volta che l’ha visto è stato mercoledì, in ospedale, «ma non ho potuto salutarlo ancora, era già sedato, ho detto una preghiera per lui».
 
L’intervista
Chissà che avrebbe detto…
«Ah, ma lui lo sapeva! Gliel’avevo detto: ti seguo con la preghiera, eh? E lui mi abbracciava. Eravamo amici. Non c’era, tra noi, una corsa a convertirci, ma ad approfondire la nostra amicizia rispettosa e fraterna. Noi siamo uno, mi ha detto, “siamo ecclesia!”. Ha voluto bere dal mio stesso bicchiere».
È vero che gli ha portato un messaggio del Papa?
«Aveva scritto una lettera a Francesco, mi ha chiesto di fargliela avere e l’ho portata al Santo Padre. Voleva sapesse che lo stimava molto: capisco e ammiro quello che Francesco sta facendo, diceva. Ne parlava spesso, come pure di Wojtyla. Nel giorno del compleanno di Marco, il Papa come risposta ha voluto mandargli in dono il suo libro sulla Misericordia e una medaglia che raffigurava la Madonna con Bambino. Li ho portati a casa sua, riferendogli le parole di Francesco: anche lui gli ha fatto sapere che lo apprezzava».
La sintonia sul tema delle carceri, l’impegno contro la fame o la pena di morte. Ma c’erano anche motivi di forte divisione, con la Chiesa, dall’aborto all’eutanasia, no?
«Certo, e ci siamo anche contrastati con franchezza, senza che questo incrinasse il nostro rapporto. Però, ultimamente, parlavamo d’altro. Mi aveva chiamato all’inizio di marzo, quando non poteva più uscire di casa: voglio parlare con te, mi ha detto. Da allora andavo a trovarlo più o meno ogni dieci giorni».
E di che parlavate?
«Ci sono cose tra amici che restano nella coscienza. Era interessato soprattutto ai temi spirituali. Ricordo quando il vento muoveva i rami, fuori dalla finestra, e lui esclamò: quello è lo spirito che agisce e muove la storia, è più forte di tutto!, e dobbiamo lasciarci guidare da questo soffio: vedi i gabbiani che volano? E continuava: se penso alla mia vita, ho lottato; la testimonianza è la nostra vera forza. Ecco, gli piaceva riflettere per ore di tutto questo… Con me amava parlare del Vangelo, delle parole di Gesù, della speranza».
Si definì «diversamente credente». Lei che ne dice?
«Talvolta mi diceva: credo sia il Vangelo la fonte che mi ispira e mi guida, del resto era un pilastro anche per Gandhi! Amava una frase di San Paolo, “spes contra spem”: di fronte alle manifestazioni di violenza e di crudeltà di questo mondo, ripeteva, credo che dobbiamo continuare a opporci anche contro ogni speranza, anzi dobbiamo essere speranza».
Personalità complessa…
«Su questo non c’è dubbio. Una volta, scherzando, gli ho detto: il tuo angelo è un po’ come San Marco, un leone! E lui: vero, io mi sento un leone! Non si rassegnava, non era rassegnato».
Poche settimane fa aveva detto: «Non ho paura di morire. E poi altri vent’anni così, sai che palle!». Avete parlato della morte?
«Non in astratto, ma rispetto all’amicizia. Noi siamo anziani, gli dicevo, ma io spero di restare tuo amico per sempre, anche se ci tocca morire ci dobbiamo ritrovare; e sono sicuro, caro Marco, che quando staremo davanti a Chi ci giudica, dalla folla si alzerà qualcuno di quei milioni di affamati che dicono: Marco ha lottato per noi! E questo ti varrà tanto. Lui mi abbracciava, a volte non finivamo di abbracciarci».
Pur nelle ovvie differenze, che cosa ha trovato di ammirevole nella vicenda politica di Marco Pannella?
«Lo spendere la vita negli ideali in cui ha creduto, senza fare di questi ideali un piedistallo per arricchirsi o avere un potere che non fosse quello della sua parola e delle sue idee. Credo sia questo che in lui ha apprezzato anche Francesco. Un uomo che è sempre stato ricco delle sue idee».
a cura di Gian Guido Vecchi, in “Corriere della Sera” del 20 maggio 2016
 
 
Trattava i carcerati alla pari e li ascoltava uno per uno
di Ornella Favero
«Ultimo giorno dell’anno del 2009, carcere di Padova, l’idea di Marco Pannella di essere qui con le persone detenute è un modo straordinario per riportare al centro dell’attenzione non il “problema carcere”, ma gli esseri umani che ci vivono accatastati dentro. Pannella ottiene di far aprire tutti i blindati e comincia, con Rita Bernardini, un paziente “porta a porta” di quelli veri, una notte di autentico ascolto di sofferenze piccole e grandi, solitudine, angoscia. Non sono ancora le undici dell’ultima notte dell’anno e quasi tutti stanno dormendo, nessuno qui dentro ha voglia di fare festa».
Iniziavo così il racconto di una notte particolare, vissuta con Marco Pannella a “festeggiare” il Capodanno in quel carcere, nel quale entro ogni giorno come volontaria. Di quella notte ricordo che mi ha colpito una cosa rara e preziosa: la capacità di far sentire le persone ancora vive e degne di ascolto, e la combattività, la conoscenza approfondita dei problemi del carcere, l’attenzione vera a tutti, anche a ogni agente che stava lì a testimoniare quanto sia duro lavorare in condizioni di degrado e rischio.
E poi mi ha impressionato l’accoglienza che le persone detenute riservavano a Pannella: era vissuto da ogni detenuto come un suo personale amico, uno che si conosce da sempre e con cui si è fieri di avere un rapporto di vicinanza e di affetto. Oggi sogno che si possa presto dedicare a Marco Pannella una vera riforma delle pene e delle carceri, un’idea di pena che rinunci a rispondere al male fatto con altrettanto male, e che metta al centro il dialogo, il confronto, l’ascolto.
L’autrice è direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia.
in “la Repubblica” del 20 maggio 2016
 
 
Gianfranco Spadaccia: «Vi racconto Pannella, il mio leader»
intervista a Gianfranco Spadaccia
Raccontare Marco Pannella in uno spazio finito non si può. Tanto più per chi, come Gianfranco Spadaccia, 81 anni, tra i fondatori e storico dirigente del Partito Radicale, con lui è cresciuto e si è formato, intrecciando lotte, destini, passioni politiche e amori per oltre tre quarti della propria esistenza.
 
L’intervista
Cosa è stato per lei Marco Pannella?
Innanzitutto un grande amico. Una persona che ha avuto molta importanza nella mia formazione complessiva, nella mia personalità: lui aveva 23 anni e io 18 quando ci siamo conosciuti. E un leader politico. Molti dicono carismatico: certamente aveva un grande carisma, ma pochi come lui sapevano parlare agli studenti come ai suoi coetanei, e aggregare gente attorno a battaglie politiche impervie, difficili da affermare prima ancora che da vincere. E’ stato il mio leader politico: senza di lui, battaglie a cui ho felicemente contribuito e che ho onorato con il carcere e con gran parte della mia vita, non si sarebbero potute combattere.
Senza di lui il Partito Radicale sarebbe quello che è oggi?
No. Senza Pannella e senza il gruppo che, nei sette anni del “Mondo” di Mario Pannunzio (settimanale politico fondato nel ’49, da cui nel ’55 nacque il Partito Radicale, ndr) , si spinse oltre e che temerariamente decise di portare avanti quell’idea, il Partito Radicale non sarebbe nato. Ma Pannella non ce l’avrebbe fatta, senza quel gruppo di cui era leader: Bandinelli, Mellini, Teodori, Giuliano e Aloisio Rendi, io e altri che mi scuseranno se oggi dimentico di citare. Eravamo il gruppo dirigente della sinistra radicale. Poi a metà degli anni ’60 si aggiunse Loris Fortuna che presentò la prima legge sul divorzio. Ed è singolare che questo deputato socialista, friulano, trovò interlocutori e compagni, anziché nel suo partito, tra i radicali. E fu dentro il nostro partito che nacque l’idea della Lega italiana per il divorzio. Senza Marco non avremmo avuto la capacità nemmeno di tentarla, quella strada.
La sua leadership è sempre stata riconosciuta dentro il partito, ed è davvero rimasta inalterata negli anni?
Lo fu fin dall’inizio. L’Unione goliardica italiana, di cui era leader insieme a Franco Roccella e a pochi altri, non aveva nemici a sinistra perché anche i comunisti ci stavano dentro. Era, per usare una categoria gramsciana, un’unità di sinistra a egemonia liberaldemocratica e laica. In un Paese in cui la sinistra era frammentata e divisa, e in cui qualsiasi idea di egemonia laica era stata seppellita sotto l’accordo dell’articolo 7 della Costituzione sui Patti lateranensi. La battaglia che combatteva Marco, e noi con lui, era contro l’unità politica dei cattolici. Quindi non con l’anticlericalismo ma facendo riferimento alla rivista Esprit, al personalismo di Maritain, al comunitarismo di Mounier, a Bernanos, a Mauriac: cioè a quella cultura cattolica minoritaria degli anni ’40 e ’50 che poi diventa determinante nel Concilio. Pannella li citava negli anni ’50 quando in Italia quei testi erano quasi banditi.
Furono anni di scontri durissimi tra comunisti e radicali, ma anche di incontri. Molto tempo dopo però Pannella, da liberale e liberista quale era, anche nel campo della politica economica, si ritrovò spesso più vicino a Berlusconi che agli eredi di quella sinistra, è così?
Sono convinto che nella polemica tra Croce e Einaudi, Pannella era dalla parte di Croce. Poi negli anni ’90 effettivamente rivalutò Einaudi perchè pensava ci volesse una scossa liberalizzatrice. Tuttavia la concezione del liberismo che aveva Marco – Bertinotti lo ha capito perfettamente – non aveva nulla a che fare con la finanziarizzazione dell’economia, perchè il liberalismo economico e einaudiano presuppongono regole. E’ esattamente il contrario della deregulation. E quando Occhetto fece la sua svolta della Bolognina, Marco dialogò con lui per due o tre anni, presentando a Catania, all’Aquila e a Teramo, la sua città, liste civiche che andavano nella stessa direzione. Ma poi quando nel ’93 e ’94 scoppiò Mani pulite il Pds mutò rapidamente la scelta delle alleanze: invece di guardare a Pannella, i post comunisti guardarono a Orlando, che con Marco e la concezione radicale dei diritti era incompatibile. I rapporti con i socialisti si sono rotti sul proibizionismo, con Occhetto sul caso Tortora. Certo, con Berlusconi Pannella tentò seriamente l’alleanza su questioni come il presidenzialismo e i collegi uninominali ma il Cavaliere fece il Porcellum e si rivelò il peggiore avversario dei sistemi elettorali più democratici. Quel tentativo di accordo è durato tre mesi, non di più, ma gli ha bruciato i rapporti con la sinistra. Dopodiché è vero che non demonizzava nessuno: per lui esisteva solo il diaologo per il cambiamento che si vuole. E bisogna riconoscere che quel dialogo con Berlusconi consentì un’impennata dei diritti umani negli anni ’90, quando cominciano a costruirsi i presupposti per il Tribunale penale internazionale o la moratoria della pena di morte. Marco è stato il leader dei diritti civili e umani e della democrazia, non solo in Italia.
Come nasce la scelta della nonviolenza?
Alla fine degli anni ’50 avevamo costruito una rete di sostegno al Fronte di liberzione algerino e di quanti in Francia si battevano per la fine del colonialismo in Algeria. Quando cominciano a scoppiare le bombe che ammazzano bambini e donne, non i parà che torturavano i combattenti algerini ma i bianchi nati e cresciuti in Algeria, ecco, credo che fu in quel momento che scegliemmo la nonviolenza. Poi, nell’incontro con Capitini e con la prima sana ventata di paura per la bomba atomica, si rafforza l’impegno contro l’idea liberale del tirannicidio, a favore invece della convinzione che bisogna mettere in gioco se stessi e la propria libertà. Quindi la nonviolenza, l’uso del corpo e i digiuni da un lato, e dall’altro la disobbedienza civile, diventano le nostre armi.
E Pannella entra in risonanza con il buddismo tibetano… Da lì la scelta transnazionale?
Noi siamo sempre stati iscritti al movimento federalista europeo, da ragazzini abbiano frequentato le case di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. L’idea di transnazionale europea e mondiale ha fatto sempre parte della nostra cultura, fin dai tempi dell’Algeria. Sentivamo vicini i cecoslovacchi e i musulmani, uiguri, tibetani, cristiani vietnamiti… Finché abbiamo avuto un gruppo parlamentare, prima che Veltroni e Berlusconi ce lo togliessero, eravamo i portavoce di queste richieste di democrazia nel mondo che approdavano al parlamento di Strasburgo e a Bruxelles. Mettevamo i nostri strumenti a disposizione. Purtroppo in occidente la ragione di stato prevarica lo stato di diritto.
Negli ultimi tempi, Pannella entra poi in particolare sintonia con Papa Bergoglio…
Gli anticlericali Bonino e Pannella furono ricevuti anche da Giovanni Paolo II, con il quale c’era grande distanza politica sulle quesioni di bioetica, e che tuttavia avevamo apprezzato quando andò in sinagoga a riconoscere i «fratelli maggiori» e quando fece appello per l’amnistia e l’indulto. E Marco andava a San Pietro a dialogare con Wojtyla sulla questione del sottosviluppo e della fame nel mondo. Anche Bergolio è stato un Papa dirompente. Il nostro anticlericalismo non è antireligioso ma al contrario è pervaso di religiosità laica: la religione della libertà di cui parlava Benedetto Croce nella Storia d’Europa. Pannella ha sempre rifiutato di essere definito non credente, diceva di essere «credente in altro».
Qual è l’ultima grande idea visionaria che ci lascia?
Forse «spes contra spem»: l’idea che la speranza presuppone intransigenza, duro impegno, per conquistarla. Essere e non averla. La speranza non va confusa con l’illusione.
a cura di Eleonora Martini, in “il manifesto” del 20 maggio 2016