1. Introduzione
Se vi è un documento del Vaticano II elaborato e votato in un momento e in un clima straordinariamente favorevoli dal punto di vista storico-ecclesiale, questo è il decreto sull’ecumenismo. Allo stesso tempo, se vi è un tema che, durante le discussioni degli schemi preparatori dell’Unitatis redintegratio, si è letteralmente materializzato davanti agli occhi dell’assemblea conciliare, manifestando importanza e attualità di prim’ordine, questo è il tema riguardante l’atteggiamento della Chiesa cattolico-romana nei confronti delle Chiese orientali non cattoliche.
Infatti, proprio nel periodo dell’ultima e decisiva fase di gestazione del decreto1 – ossia a partire dalle riunioni di febbraio e marzo del 1964, durante le quali il Segretariato per l’unità dei cristiani, aiutato da alcuni membri delle Commissioni per la Chiesa orientale e per la Dottrina, conferisce al documento il suo aspetto quasi definitivo, fino alle ultime votazioni (nei giorni 10, 11 e 14 novembre) e all’ultimo scrutinio (20 novembre) – iniziano a comparire e a moltiplicarsi quei concreti gesti del “dialogo della carità” tra Paolo VI e Atenagora, patriarca di Costantinopoli, che suscitano stupore e gioia e che vengono colti dai padri conciliari come segni dell’approssimarsi di un’epoca nuova, quella della ritrovata fraternità tra cattolici e ortodossi.
La prima parte del terzo capitolo dell’Unitatis redintegratio (cf. nn. 14-18), in cui il Vaticano II si esprime a proposito delle Chiese orientali non cattoliche, è scritta, discussa e votata sotto l’influsso, anche emotivo, di questi inauditi eventi, molto promettenti – come fece capire lo stesso Paolo VI appena tornato dal pellegrinaggio in Terra Santa, dove si era incontrato con Atenagora2 – per il futuro delle relazioni cattolico-ortodosse. Non sorprende, perciò, se il titolo della prima parte recita: De ecclesiarum orientalium peculiari consideratione, preannunciando – cosa che, invece, non succede nella seconda parte, dedicata alle Chiese e comunità ecclesiali della Riforma (cf. UR nn. 19-23: De ecclesiis et communitatibus ecclesialibus in Occidente seiunctis) – una trattazione elaborata in spirito di apprezzamento, vicinanza e apertura del tutto speciali nei confronti dell’Oriente non cattolico3.
Il susseguirsi, nel dopoconcilio, di concreti e, insieme, simbolici dimostrativi gesti del “dialogo della carità” tra Roma e Costantinopoli impronta fortemente anche i primi anni della ricezione – da parte della Chiesa cattolico-romana e della sua teologia – del decreto sull’ecumenismo, in particolare dei passaggi riguardanti le Chiese orientali non cattoliche. Ciò è inevitabile: la straordinaria rilevanza di eventi come la contemporanea abolizione (il 7 dicembre 1965, alla vigilia della chiusura del Vaticano II) delle scomuniche del 1054, lo scambio di visite tra Roma e Costantinopoli nel 1967, la restituzione all’Oriente di alcune importanti reliquie (tra cui quella di sant’Andrea), il gesto di umiltà di Paolo VI, che nel dicembre 1975 bacia i piedi al metropolita Melitone, rappresentante del patriarcato di Costantinopoli, e altri accadimenti …
 
Descrizione
Titolo Il cammino ecumenico aperto da Unitatis Redintegratio tra difficoltà e speranze: in dialogo con l’Ortodossia
Autore Lubomir Zak
Editore Lateran University Press
Data dicembre 2015
Formati PDF (, Watermark DRM), ePub (, Watermark DRM)
Costo 4 Euro
 
 
Le poche grandi cose che Francesco e Kirill non si sono dette all’Avana
di Sandro Magister
Il saggio è uscito nel 2015 sulla rivista teologica “Lateranum” e può essere acquistato anche come e-book: Il cammino ecumenico aperto da “Unitatis redintegratio” tra difficoltà e speranze: in dialogo con l’ortodossia
Il dato da cui parte l’analisi di Zak è il forte contrasto tra la visione che oggi la Chiesa cattolica ha dell’ortodossia e, viceversa, quella che la Chiesa ortodossa ha del cattolicesimo.
Infatti, per dirla con le parole del metropolita Hilarion di Volokolamsk, dal Concilio Vaticano II in poi la Chiesa cattolico-romana ha “finalmente” ammesso “che le Chiese ortodosse sono salvifiche, possiedono la successione apostolica e i sacramenti, e ciò che a esse manca è soltanto la comunione con la sede di Roma”.
Ed è proprio così. Tant’è vero che i decreti conciliari “Unitatis redintegratio” e “Orientalium ecclesiarum” arrivano a sostenere che “comunicare in cose sacre con i fratelli delle Chiese orientali separate… non solo è possibile ma anche consigliabile”.
Un’altra riprova della visione decisamente positiva che la Chiesa cattolica ha oggi delle Chiese ortodosse e orientali è il riconoscimento, avvenuto nel 2001, della validità sacramentale dell’antica anafora di Addai e Mari della liturgia eucaristica assira, nonostante non contenga la formula del racconto dell’istituzione dell’eucaristia.
E ancora, è diventato comune per i papi da Giovanni Paolo II in poi rivolgersi all’ortodossia con l’utilizzo del termine “Chiese sorelle”.
Ma niente di tutto ciò si ritrova nella visione che la Chiesa ortodossa ha del cattolicesimo, e nella prassi che ne consegue.
Un inizio di disgelo ci fu nel 1969, quando il sinodo della Chiesa ortodossa russa autorizzò l’amministrazione dei sacramenti ai cattolici sprovvisti di ministro proprio. A quell’epoca a capo delle relazioni esterne del patriarcato di Mosca, nel ruolo oggi ricoperto da Hilarion, c’era il metropolita Nikodim, campione di ecumenismo, con un giovane aiutante di nome Kirill, l’attuale patriarca.
Ma nel 1978 Nikodim morì d’infarto in Vaticano mentre era a colloquio con Giovanni Paolo I. E con il successivo papa Giovanni Paolo II, polacco, le aperture ecumeniche della Chiesa russa si arrestarono e regredirono, anche per le pressioni del Cremlino. Il decreto che autorizzava la comunione e i sacramenti ai cattolici fu revocato nel 1986.
La risurrezione, nel 1989 in Ucraina, della Chiesa greco-cattolica “uniate” e l’espansione “proselitistica” verso Est del papa polacco rafforzarono ancor più nell’ortodossia le pulsioni anticattoliche.
Oggi queste pulsioni sono meno bellicose che negli anni Novanta, quando toccarono l’acme. Il patriarca di Mosca Kirill ha ora persino osato l’abbraccio con il papa di Roma.
Ma le cause profonde di contrasto permangono tutte. E Zak le esamina ad una ad una.
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Una prima causa di contrasto è la diversa visione ecclesiologica.
Quando i papi chiamano “sorelle” le Chiese ortodosse lo fanno nel quadro di una visione di Chiesa in cui i vescovi diocesani, tutti, fanno unità con il vescovo di Roma, che ha autorità su tutte le Chiese particolari.
Per gli ortodossi, invece, la Chiesa è strutturata in “patriarcati”, in ciascuno dei quali si eleggono patriarchi e vescovi, con autonomia di ciascun territorio patriarcale in materia di liturgia e di disciplina canonica. Il papa sarebbe più propriamente, secondo questa visione, “patriarca dell’Occidente”, cioè proprio il titolo che Benedetto XVI, per fugare ogni equivoco, ha rimosso nel 2006 dalle qualifiche attribuitegli nell’Annuario Pontificio.
Il professor Zak commenta, sulla base di questo contrasto tra le ecclesiologie:
“Non meraviglia che anche il dialogo cattolico-ortodosso sul tema del primato del papa – di cui il frutto più recente è il documento di Ravenna del 2007 della commissione mista internazionale – abbia potuto fare soltanto pochi passi in avanti, arrestandosi a breve distanza dal punto di partenza”.
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Una seconda causa di contrasto è il cosiddetto “uniatismo”, termine dispregiativo con cui l’ortodossia squalifica le Chiese di rito orientale unite a Roma.
Tale squalifica viene di solito giustificata dagli ortodossi per la pericolosità mimetica di queste comunità, che celebrando liturgie identiche alle loro possono attrarre tanti ignari fedeli nella trappola della sottomissione a Roma.
“Tuttavia – scrive Zak – le ragioni del contrasto sono ancora più profonde e di natura ecclesiologica. Ciò che scandalizza il mondo ortodosso è che le Chiese orientali cattoliche facciano parte di una struttura che non è quella per loro originaria, patriarcale, ma quella romanocentrica, avente nella Chiesa di Roma il punto obbligatorio di riferimento per ogni aspetto della vita ecclesiale”.
La dichiarazione dell’Avana consegna verbalmente al passato questo “uniatismo”, di cui i greco-cattolici ucraini sono l’esempio più imponente. La questione però rimane irrisolta. Perché è vero che Roma dice alle Chiese orientali cattoliche: “Siate quelle che eravate prima”. Ma di fatto le ingloba in una struttura della Chiesa tipicamente latina e papale, che l’ortodossia non vuole in alcun modo accettare.
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Una terza causa di contrasto riguarda la “communicatio in sacris”. La Chiesa cattolica la ammette. Le Chiese ortodosse – dimenticata la parziale ed effimera apertura degli anni di Nikodim – la rifiutano categoricamente.
Il motivo di questo rifiuto – fa notare Zak – è anch’esso teologico ed ecclesiologico. Mentre la Chiesa cattolica considera veri tutti i sacramenti delle Chiese ortodosse, lo stesso non accade da parte ortodossa. Ufficialmente la Chiesa ortodossa non ha ammesso in nessun documento, decreto o dichiarazione che i sacramenti della Chiesa cattolica siano veri e salvifici.
Non solo. Gli ortodossi mettono seriamente in dubbio che la Chiesa cattolica sia una vera Chiesa, all’opposto di ciò che la Chiesa cattolica pensa dell’ortodossia. Che i non ortodossi non appartengano alla vera e unica Chiesa di Cristo è l’idea che continuano a tener ferma, sotto il velo delle cortesie ecumeniche.
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E siamo a una quarta causa di contrasto, che riguarda i motivi della rottura tra Oriente e Occidente iniziata un millennio fa.
Il decreto conciliare “Unitatis redintegratio” attribuisce questa rottura soprattutto a “mancanza di mutua comprensione e carità”. E anche papa Francesco sembra pensare che la questione stia tutta lì.
Ma in campo ortodosso sono convinti che i punti di divergenza siano ben più gravi. La Chiesa cattolico-romana – spiega tra gli altri un solenne documento del patriarcato di Mosca del 2000 – “si è separata dalla comunione con la Chiesa ortodossa, vera Chiesa di Cristo”, perché ha corrotto la purezza e l’integrità della fede, la fede di cui è custode e testimone appunto l’ortodossia, introducendo dei “nuovi dogmi” come la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, l’immacolata concezione di Maria, l’assunzione di Maria al cielo e l’infallibilità del papa.
Conclude il professor Zak:
“Una cosa è sicura: è a causa della mancata purezza e integrità della fede – non più in piena conformità con la tradizione apostolica – che nasce e continua a persistere il problema, per gli ortodossi, della vera ecclesialità della Chiesa cattolico-romana e, di conseguenza, dell’efficacia salvifica dei suoi sacramenti.
“È difficile pensare che il dialogo cattolico-ortodosso possa raggiungere, in un prossimo futuro, risultati rilevanti senza che prima cambi, o almeno si attenui, il parere dell’ortodossia sul ‘difetto di fede’ della Chiesa di Roma; tanto più che la convinzione circa il ‘difetto di fede’ dei cattolici è stata sostenuta e predicata, nel passato, persino da alcuni santi ortodossi, tra cui il vescovo Teofane il Recluso.
“Come spiega un autorevole manuale ortodosso di teologia ecumenica in uso nei seminari di Mosca, Teofane, molto critico verso le confessioni cristiane d’Occidente, era persuaso che lo Spirito Santo non agisse con pienezza presso i non ortodossi e, perciò, ‘tutti i sacramenti dei cattolici sono difettosi e tali sono anche molte loro celebrazioni’.
“Identificandosi con il parere del santo, gli autori del manuale non hanno remore ad aggiungere: ‘Si tratta di parole dure, ma che offrono un giudizio corretto circa lo stato spirituale della non-ortodossia’”.
 
in http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351253, 16 marzo 2016