La  situazione distopica che stiamo vivendo a causa del COVID-19 presenta tre aspetti che, a mio avviso, non vanno confusi.
Il primo è quello più evidente: l’aspetto inerente la salute, dagli effetti meno gravi a quelli più gravi, fino alla morte. Si tratta di un aspetto relativamente al quale non ho alcuna competenza e, di conseguenza, in merito, oltre alla “compassione” (nel senso originario del termine) e alla speranza di non esserne coinvolto, non ho alcunché da dire.
Il secondo riguarda gli effetti disastrosi sul piano economico che esso sta producendo. Altro settore nel quale, oltre la comune e semplice percezione, non saprei cos’altro aggiungere, conoscendo molto superficialmente l’ambito economico.
Il terzo è relativo agli effetti sociali che il virus determina, primo fra tutti la “reclusione” forzata, la limitazione degli spostamenti, la costrizione a cui tutti ci sentiamo (e siamo) condannati.
Su questo terzo aspetto, dalla prospettiva della pratica teatrale, che coinvolge da sempre la mia esistenza, mi sento di poter svolgere qualche riflessione.
La costrizione a cui ci sentiamo condannati comporta, inevitabilmente, conseguenze la cui negatività è indubbia. Restando soltanto alla succitata pratica teatrale, in questi giorni ho dovuto rimandare “a data destinarsi” il debutto di due nuovi spettacoli, uno dei quali con tournée a Mosca, e la ripresa di un terzo spettacolo.
Ma la condizione di costrizione – il teatro ce lo insegna – può anche essere (se ben utilizzata) il presupposto di una esplosione di creatività.
Chi pratica il teatro perché lo scrive o lo mette in scena o, semplicemente, perché ne fruisce, sa che la natura “povera” del teatro è il terreno fecondo per la grande arte.
Shakespeare è stato maestro di questa paradossale situazione. Non c’è riduzione cinematografica in cui il regista si prende tutte le libertà di ambientazione, né ricchezza scenografica, che possa rendere la poesia, la commozione e il divertimento, per esempio, dell’originale teatrale di Sogno di una notte di mezza estate. Quando Shakespeare lo scrive, il cosiddetto teatro elisabettiano, che è il contesto culturale in cui egli crea, e il Globe Theater, che è lo spazio teatrale nella cui struttura lo spettacolo doveva essere inserito, lo costringono terribilmente: non gli consentono di avere attrici sulla scena, poiché il teatro è permesso soltanto ai maschi, non gli autorizzano cambi di scena perché quel tipo di spazio scenico non ha quinte, non ha fondali e nemmeno scenografie (come, al contrario, il teatro nelle corti rinascimentali italiane). Quel teatro gli consente soltanto di avere a disposizione la parola e il corpo degli attori.
Ebbene, da quella condizione di estrema costrizione, Shakespeare trae fuori un caleidoscopio di personaggi, di storie e di ambienti che è impossibile raccontare a chi non ha letto il testo o visto lo spettacolo: la reggia di Teseo ad Atene e una foresta fuori di Atene, nobili ateniesi e artigiani imbranati, fate, folletti e filtri magici che s’intrecciano e si rincorrono in un ritmo scoppiettante che ci trascina in luoghi incantati e sovrappone una storia all’altra, permeate di amori che sbocciano e che sfioriscono.
E Shakespeare non è un caso isolato, motivato dal contesto storico. L’Edipo re di Sofocle rappresenta una storia intrecciatissima che attraversa la Beozia da Tebe a Corinto, tutta “costretta” nell’angusto spazio antistante la reggia di Edipo a Tebe, racconta vicende distribuite nell’arco di quarant’anni, tutte contratte nell’unità di tempo della durata stessa della tragedia.
E questa non è caratteristica di un teatro che potremmo definire classico, perché se leggiamo, per esempio, Giuseppe Manfridi (che, personalmente, considero il più grande drammaturgo italiano vivente), prendendo, fra i suoi tanti lavori, Ti amo, Maria, che debuttò nel 1990 con Carlo Delle Piane e Anna Bonaiuto, ci troviamo dinanzi a qualcosa d’identico. Un’estrema storia d’amore contratta su un pianerottolo di casa, fra l’ingresso di un appartamento e la porta di un ascensore, con soli due personaggi.
Insomma, il teatro, più di altre forme d’arte, anche in questi momenti d’inaspettata e paradossale esistenza, ci indica una via, quella antichissima e sempre nuova, che ci costringe a tirar fuori il massimo dal minimo.
Se, quando usciremo da questa emergenza, saremo in grado di risollevarci dal baratro in cui siamo caduti con un’energia che saprà renderci migliori, lo dovremo anche agli stimoli che la condizione di costrizione ci avrà dato e che saremo riusciti a raccogliere.
di Giancarlo Loffarelli