“L’elemento comune a tutte le situazioni limite è questo, che esse suscitano una sofferenza. Un elemento comune è anche, per altro, che esse danno origine a un dispiegamento delle forze cui s’accompagna una gioia d’esistere, di avere un senso, di crescere. […] Ma nessuna riflessione che fa opera di considerazione – lei che sa indicare così bene la miseria dell’esistenza – può condurre all’elemento di valore positivo, se non mediante un appello alla vita”.
Così, ne La psicologia delle visioni del mondo (1925), lo psichiatra e filosofo tedesco Karl Jaspers (1883-1969) ci aiuta a organizzare la domanda di senso dinanzi al “fatto” della pandemia che sta affliggendo il mondo. Si tratta certamente di un “fatto”, di un oggetto di cui la scienza indica caratteristiche, fattori causali, effetti. E tuttavia non è questo l’elemento più rilevante. Lo è che quel “fatto” assume la forma di una “situazione limite”, sentita, sperimentata, pensata ai limiti della nostra esistenza. La situazione limite non offre un punto fermo, “un elemento assoluto indubitabile, un sostegno che dia fermezza e stabilità a ogni esperienza e a ogni pensiero”. Anzi, tutto è messo in forse: il nostro presente, lo scorrere ordinario delle nostre giornate, il ritmo quotidiano della nostra vita, la nostra libertà, le nostre relazioni con gli altri, con il mondo, con Dio, per chi un Dio ce l’ha. E soprattutto è messo in forse il nostro futuro. Di norma le situazioni limite sono insopportabili per chi vive; per questo “non si presentano quasi mai in tutta la loro cruda chiarezza alla nostra viva esperienza”; ma avviene che, di fronte ad esse, abbiamo quasi sempre un punto d’appoggio, senza il quale la vita cesserebbe.
Qual è il punto di appoggio nella nostra attuale situazione limite?
In questo inizio di primavera, nella luce del sole mattutino, vedo dalla finestra erbe e fiori risvegliarsi, il picchio scavare sotto la corteccia della betulla, i merli lavorare alla propria dimora nella siepe, … Al pari della “silenziosa luna” leopardiana, nessuno di loro sa del coronavirus; ignari del “fatto”, non vivono né tantomeno pensano la situazione limite; le loro vite scorrono in un mondo parallelo a quello degli umani. Questa distanza, e la consapevolezza della situazione limite, ci porta davanti agli occhi, senza poterla aggirare, la nostra condizione umana, nella sua essenzialità: coscienza del “fatto”, domanda di senso, comprensione di sé, esposizione alla fine.
Il pensiero meditante, finora latitante, si riappropria dello spazio che il pensiero calcolante aveva tentato di esaurire; e ciascuno di noi, in quanto ne viene preso, si riappropria dell’umanità che lo rende uguale e diverso rispetto ad ogni altro essere umano. La globalizzazione rivela la propria matrice, nascosta perché coperta dagli interessi economici: il mondo è globale perché è umano. E questa volta il terreno comune in cui tutti gli esseri umani si incontrano non è il mercato né la virtualità tecnologica, ma ciò per cui ciascuno è ciò che è: l’essenza, direbbero i metafisici, che ci distingue da ogni altro ente in natura, ossia il pensare e, insospettabilmente per chi credeva di essere invulnerabile, la sofferenza. Ancora, come dicevano gli antichi: mè phynai, non essere nato è il meglio per l’uomo. Perché il suo destino è soffrire.
E tuttavia è proprio nella sofferenza che si istituisce il rapporto più alto, quello dell’uomo con Dio. È il dolore il luogo della solidarietà fra Dio e l’uomo, perché anche Dio, come l’uomo, soffre. Ne L’uomo in rivolta (1951) Albert Camus (1913-1960) scrive che “Cristo è venuto a risolvere due problemi, il male e la morte […]. La sua soluzione è consistita innanzitutto nell’assumerli in sé. Anche il dio uomo soffre. […] Per essere uomo il dio deve disperare”. Nella sofferenza del dolore di Cristo l’uomo tocca il fondo della sua stessa condizione, riconoscendo la propria solitudine e, insieme, il proprio bisogno dell’altro. Di fronte alla sconvolgente sofferenza del Cristo piagato dipinto da Mathias Grünewald ne L’altare di Isenheim (1512-1515), Jean-Pierre Tafforeau scrive: “Il dolore in- finito dice: ‘Al limite dell’abisso non c’è niente o ci sei Tu’ – altro. Il dolore in-finito dice: ‘‘Al limite dell’abisso non c’è niente o ci sei Tu’ – Dio. La sofferenza è la verità dell’amore. Ma, forse: l’amore è la verità della sofferenza”.
Nella situazione limite con cui siamo chiamati a convivere in questo tempo, possiamo forse comprendere che lo sforzo delle passate generazioni di affermare che siamo figli del Niente e del Nessuno è vicino ad esaurirsi, e che, come scrive Guido Ceronetti, “nella paternità del Niente non ci sono sostegni”. Ma per comprenderlo davvero, dovremo ascoltare il silenzio nel quale il “fatto” si palesa come situazione limite, il silenzio che dà a pensare, il silenzio che marca la nostra distanza dalla natura circostante che continua a vivere ignara di ciò che sta accadendo, nonostante il nostro dolore: il silenzio che è spazio per pensare il senso, la nostra condizione originaria di umanità, la nostra solidarietà con gli altri e con Dio.
Rispetto all’indifferenza e allo scetticismo di molti davanti all’incarnazione e alla sofferenza di Dio in Cristo, per cui quelli “resteranno esattamente ciò che erano”, John Henry Newman si chiedeva: “Perché capite così poco il Vangelo della vostra salvezza? Perché i vostri occhi sono così lenti e le vostre orecchie così resistenti all’ascolto? Perché avete così poca fede, così poco cielo nel vostro cuore? Per questa sola ragione, fratelli miei, se devo esprimere ciò che intendo in una sola parola: perché meditate poco. Non meditate, e quindi non ne siete colpiti”.
 
Per approfondire:
A. Camus, L’uomo in rivolta, trad. it. di L. Magrini, Bompiani, Milano 20023.
G. Ceronetti, L’occhiale malinconico, Adelphi, Milano 1988.
J.H. Newman, “Christ’s Privation. A Meditation for Christians”, in Parochial and Plain Sermons, vol. VI, 4 (in www.newmanreader.org).
L. Pareyson, Filosofia della libertà, il melangolo, Genova 1990.
G. Reale, I misteri dell’Altare di Isenheim di Grünewald. Una interpretazione storico-ermeneutica, Bompiani, Milano 2006.
J.-P. Tafforeau, L’impossible souffrance, in Aa. Vv., Regards contemporains sur Grünewald, Musée d’Unterlinden Colmar – Adam Biro, Colmar – Paris 1995, pp. 131-140.
di Michele Marchetto, m.marchetto@iusve.it