“Rilancio”: È proprio la particella ri- a stanare i pavidi, è la botola che svela il patetico. Rilanciare prevede che il lancio sia stato idiota, malmesso: il verbo significa, d’altronde, “lanciare di nuovo” – ma senza alcuna novità, perseguendo la stessa vipera traiettoria. Ma noi non siamo una moda da lanciare, non vogliamo lanciarci dalla finestra, e l’abuso di grammatica calcistica – vedi alla voce “ripartenza” – è francamente irritante. Questa non è una partita di calcio, tutto non tornerà come prima – non deve: eventualmente, tentiamo il meglio – e noi, umani, italiani, pretendiamo dignità di coraggio, parole potenti, che diano alla crisi valuta di gloria. Per altro – cretini all’ennesima – rilanciare sta per “gettare di rimando, in direzione opposta”. Insomma, ci muoviamo a contrario, hanno perso la diritta via, oltre che la rettitudine.
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Occorre rilanciareripartireriaprire: cioè bisogna rifare le stesse cose, eterno ritorno del giogo, anamnesi del corpo putrefatto, carezze al cadavere. Perché? Che messaggio stupido – presunzione di vicia stupidità. Piuttosto, bisogna aprire a un modo nuovo di fare economia, di fare uomo.
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Risorgere, semmai. Levarsi in alto, innalzarsi, sgorgare. Il lancio – rilancio – ha qualcosa di meccanico, di mediato: la presenza di qualcuno che lancia qualcos’altro. Nel sorgere c’è un atto individuale, solare, impavido, ingenuo, magari, ma privo di codardia. Qualcuno deve lanciarmi; a sorgere ci penso da me. Non si risorge per decreto ma per azzardo, per volontà individuale.
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A proposito di resurrezione, di risorgere – ma dove? – leggo dal Vangelo di Giovanni. “Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (12, 25). Mi accorgo di una disparità eclatante. La traduzione italiana rende con la stessa parola, vita, due parole greche che hanno significati diversi. Quando Gesù parla di “propria vita” l’evangelista usa il greco psyché, cioè “spirito, respiro, soffio vitale” e quindi “vita” (mi riferisco al Vocabolario del greco del Nuovo Testamento di Carlo Rusconi, Edb, 2013). Quando si accenna alla “vita eterna”, invece, vita viene intesa come zoé, “vita naturale, terrena”, ma anche “vita totale: naturale e soprannaturale”. Forse l’accezione – che è una accensione all’altro senso, un accesso intimo – intende che l’uomo ama il proprio soffio vitale, non la vita in sé, essenziale; e che – paradosso celeste – la vita eterna è anche quella più terrena. Pare che questa vita sia un soffio, l’altra il seme, che può dare frutto. È come se l’uomo ‘di mondo’ fosse astratto, estratto dal creato; la vita eterna ha più mordente, è più carnale di questa. Balbetto, è ovvio. Ma queste sono parole decisive, spesso tradotte in modo superficiale. Poco dopo, ad esempio, quando Gesù dice “Se qualcuno mi vuol servire mi segua e là dove sono io sarà mio servitore” (Gv 12, 26), il servaggio ha statura di gloria. Ciò che traduciamo come “servitore” o “servo”, che in italiano ha nitore di sudditanza, è diákonos, che vuol dire “inserviente, ministro”, uno che ha un ruolo nella liturgia della vita e nell’azzardo della salvezza. È servo in quanto aiutante, come si scende in lotta.
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Lo Zhongyong, tradotto da Marsilio come La costante pratica del giusto mezzo, è una raccolta di massime attribuite al nipote di Confucio, risalgono al IV secolo a.C., poi costantemente riviste. Va consigliato ai nostri pallidi governanti, come risciacquo mentale e alfabetico: “Al mondo solo chi è pervenuto al sommo grado di autenticità potrà realizzare appieno la propria natura; avendo realizzato appieno la propria natura, farà realizzare la natura degli altri. Facendo realizzare appieno la natura degli altri, farà realizzare appieno anche la natura di tutti gli esseri e le cose; facendo realizzare appieno la natura di tutti gli esseri e le cose, potrà assistere Cielo e Terra nell’incessante opera di trasformazione e generazione…”. Non amo questa visione armonica: l’uomo è una spaccatura, procura ferite, procede tra feritoie. Però, è già qualcosa.
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David Lynch ha aperto un canale YouTube: si chiama “David Lynch Theatre”. I capelli bianchi, ondulati, e gli occhi, curvi, ceruli, accertati da altri mondi. Lynch pare in una specie di bunker fuori tempo – lo dimostra la lampadina, il telefono arcaico, lo scaffale – e ci dice che tempo fa. Lo fa guardando fuori dalla finestra, senza mediazione televisiva o tecnica, con sguardo stupefatto e parole telegrafiche. Senza altra previsione, dedito all’adesso, che scalcia in fittavoli di luce dalla finestra, brevissima. È tutto. (d.b.)