Andrà tutto bene?
Fino a poche settimane fa lo slogan mediatico, poi incarnato nel sentimento di gran parte degli italiani, è stato: “andrà tutto bene!”.
Negli ultimi giorni, invece, alla luce del forte rallentamento della diffusione del coronavirus, ciò che fa capolino nella mente degli italiani è la domanda: “cosa succederà ora e nel prossimo futuro?”. Il senso di questo interrogativo è dovuto a una sorta di disorientamento come conseguenza di quasi tre mesi di clausura domestica, correlata a una forte forma di timore sociale.
Se prima la casa era considerata il bunker di massima sicurezza, dentro il quale era possibile rimanere immuni al virus, dopo il 4 maggio è divenuta lo spazio nel quale gli italiani è come se avessero scontato gli arresti domiciliari. Il lockdown, comportando delle dure restrizioni, ha innescato un sentimento claustrofobico, tanto che in molti luoghi, non appena le limitazioni sono state ridotte, si è ritornati quasi a vivere come se non fosse accaduto nulla. Gli aperitivi al centro delle città, che hanno richiamato i giovani a ritrovarsi di nuovo insieme, e  l’affollamento dei tifosi del Napoli per festeggiare la conquista della Coppa Italia, sono la dimostrazione che l’uomo non è fatto per la solitudine, ma per vivere in  relazione con gli altri.
 
Le misure di contenimento della pandemia
Ora, dopo la diffusione della pandemia, la domanda che ci si pone è questa: gli uomini possono ancora mettere in pratica questa loro attitudine con facilità e spensieratezza, oppure dovranno sottoporla a delle limitazioni?
Sicuramente ciò che abbiamo appreso è che, purtroppo, dovremmo imparare a convivere nel tempo con delle misure di contenimento della nostra libertà, per il bene nostro e per il bene degli altri. Questo però provoca una sorta di risentimento e si è allora, aperta la caccia, a ciò che ha scaturito il coronavirus, con tutte le ripercussioni dannose per la nostra salute fisica e sociale. E’cominciata così la carrellata delle ipotesi con cui si è tentato di dare una spiegazione a quali potrebbero essere le cause da cui ha avuto origine questa pandemia. Che il virus sia nato in Cina per poi diffondersi in tutto il mondo sembra ormai assodato. Si discute però se siano stati gli animali a diffonderlo oppure un errore di laboratorio.
 
La crisi della globalizzazione
Senza entrare troppo nel merito di questo dibattito, ciò che risulta evidente per tutti è che questa situazione di disagio comporterà una vera e propria metamorfosi antropologica.
Due potrebbero essere le strade da percorrere per limitare i danni: continuare ancora a credere al fenomeno della globalizzazione, cercando di considerare ciò che è accaduto come un semplice incidente di percorso, o riconoscere che tale modello inizia a evidenziare le proprie falle, prendendo anche atto che, in molte parti del mondo, sta venendo meno il culto idolatrico che gli era stato riservato. La riduzione delle distanze tipica della globalizzazione, caratterizzata in gran parte anche dall’utilizzo degli  strumenti tecnologici, ha permesso che le relazioni tra gli uomini, nonostante i divieti imposti in questo periodo di quarantena, potessero continuare. La vita sociale ha proseguito il suo corso proprio grazie all’ausilio della tecnica: si pensi allo smartworking, alla didattica a distanza e alle varie modalità di sburocratizzazione che in realtà hanno determinato una maggiore velocità e snellimento di pesanti procedure, rivelandosi soprattutto utili per il futuro. Grazie alle videoconferenze si è sicuramente raggiunto un livello di inquinamento inferiore, un recupero dei rapporti familiari e una buona riduzione di stress a cui la vita frenetica prima del Covid-19 ci aveva abituato.
 
Alcune opinioni sulla globalizzazione
Secondo il politologo indiano Parag Khanna: “la globalizzazione come la conosciamo, un flusso continuo di merci  e persone, sulla breve distanza, non c’è dubbio, si è interrotta. Ma attenzione, questo non significa che la globalizzazione stia collassando del tutto[…], anzi, la globalizzazione è tutt’altro che morta: l’obiettivo resterà ‘porta dove vendi’e per i prodotti come auto e tecnologia sarà ancora più vero”. Una maggiore riduzione delle distanze, che evidenzierebbe quanto la globalizzazione possa ancora contribuire al benessere dei cittadini, mediante una società cosmopolita, è visibile nel forte senso di solidarietà tra gli uomini dei vari continenti.
E’ di questo avviso anche lo storico israeliano Yuval Noah  Harari, il quale ha dichiarato che: “la sfida posta dal Covid-19 rappresenta una sorta di lezione che deve spingere l’umanità a chiudere i confini tra i virus e l’uomo, non tra le nazioni, a scegliere la solidarietà globale e non il nazionalismo isolazionista, ad ascoltare leader che vogliono unire i propri paesi, non dividere. Soltanto la cooperazione, la solidarietà e uno sforzo comune di tutti possono risolvere il problema e fare compiere un passo avanti alla nostra civiltà”. E ancora, questo senso di comunione globale, comprende anche l’aspetto sanitario, in riferimento alla collaborazione scientifica di tutte le nazioni nella ricerca di cure e vaccini volti a debellare il virus.
Anche papa Francesco ha sottolineato quanto sia importante lo spirito di comunione in questi momenti, dove è possibile “ritrovare i piccoli gesti di vicinanza e concretezza verso le persone che sono a noi più vicine, una carezza ai nostri nonni, un bacio ai nostri bambini, alle persone che amiamo[…]. Dobbiamo capire che nelle piccole cose c’è il nostro tesoro”.
 
Pandemia e crisi economico-sociale
Se da una parte sono stati evidenziati gli effetti positivi delle nuove  modalità utilizzate in questo preciso momento storico, senza cedere in una ideologia faziosa aprioristica volta a demonizzare tali novità, dall’altra non si possono neanche lasciare nell’ombra gli inconvenienti che si sono già verificati e che potranno verificarsi in futuro. Secondo alcuni esperti la crisi in atto non solo inciderà in ambito sanitario, ma coinvolgerà anche altri campi. Si pensi ad esempio al commercio e all’imprenditoria che verrebbero a trovarsi in difficoltà molto serie se si dovesse continuare a lavorare con i soli strumenti digitali: gli effetti di tutto questo avranno una ripercussione in ambito occupazionale e incideranno sul PIL. Per non parlare poi di quanto già stanno subendo l’artigianato, il turismo e i mezzi pubblici.
I dati di Confcommercio e  Codacons mettono in risalto quanto il nostro paese stia soffrendo in questo momento: a maggio sembrerebbe che i consumi siano diminuiti del 30 per cento; un numero elevato di italiani ancora deve ricevere la Cassa Integrazione di marzo e nel campo della moda sembra si sia registrato un calo di vendite pari al 76 per cento dall’inizio della pandemia. Fa scalpore la decisione del marchio Zara di chiudere 1200 negozi nel mondo indirizzandosi verso il mercato online. Secondo il Seattle Times  anche Microsoft  dovrebbe non rinnovare il contratto a 50 giornalisti utilizzando l’intelligenza artificiale per svolgere le loro mansioni di desk. Il lavoro dei giornalisti sarà sostituito dall’uso di algoritmi che dovranno riscrivere le notizie, aggiungere le fotografie e slide show.
 
Pandemia e tecnodipendenze
Un altro elemento da tenere in seria considerazione è caratterizzato dal dilagare delle tecnodipendenze, che si sono diffuse non solo tra i giovani ma, anche, tra gli adulti, costretti a stare per motivi vari sui mezzi tecnologici per molte ore al giorno. Il riferimento ai giovani, definiti oggi come generazione internet, non è casuale: secondo il parere di molti psicologi i ragazzi rischierebbero ancor di più, in questo periodo, di legarsi agli strumenti tecnologici, mettendo così a repentaglio “l’adesione alla realtà, la fiducia nelle proprie capacità, l’autonomia nella vita sociale e bloccando tra l’altro la capacità di elaborare un ‘pensiero pensante’. E’ come se vivessero in una gigantesca bolla da cui non riescono ad uscire per vivere liberamente la loro realtà”. Il pericolo in cui i giovani e anche tutti gli altri fruitori delle nuove tecnologie potrebbero incappare, è quello di vivere una sorta di  asincronizzazione con il mondo.
Nel secondo volume de L’uomo è antiquato il filosofo Gunther Anders ha dato una spiegazione del venir meno del ruolo centrale dell’uomo nella storia a scapito della tecnica: “abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia, e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia, anzi un altro soggetto: la tecnica[…]. Dal suo corso, infatti, e dal suo impiego, dipende l’essere o non essere dell’umanità”.
 
Pandemia e nazionalismo
Un altro  contesto in cui la pandemia potrebbe lasciare degli strascichi pesanti è senza ombra di dubbio quello sociale: comincia a crescere, infatti, il timore di poter essere contagiati o di poter contagiare i propri pari, persino quelli più prossimi, e, allora, le distanze finirebbero pian piano per dilatarsi anziché ridursi. Si innescherebbe un movimento di ritorno al passato volto a  restaurare una sorta di “nazionalismo” in cui gli interessi del proprio popolo tornerebbero ad avere la precedenza sulla fraternità internazionale.
Jurgen Habermas ha cercato di capire quali potrebbero essere i fattori che potrebbero portare a un incremento del populismo nazionalista, individuandoli nel “cambiamento tecnologico, la digitalizzazione del mondo del lavoro, le migrazioni, il crescente pluralismo delle forme di vita, etc. Queste paure si combinano a loro volta sia con lo sgomento assolutamente giustificato di perdere il proprio status sociale, sia con l’esperienza dell’impotenza politica”.
Secondo il premio nobel polacco Olga Tokarczuk: “quando passerà la pandemia l’Unione Europea dovrà superare il test più importante della sua storia. O l’Unione si integrerà ancor di più, oppure cesserà di esistere”.
L’unica alternativa a questi inconvenienti è caratterizzata da un sano connubio tra le novità a cui dovremmo abituarci e la tutela dei diritti, tra cui anche quelli del proprio paese.
 
Pandemia, morte e religione
Ciò che ha scosso comunque tutti gli uomini in questo tempo di pandemia è stato quello di dover fare i conti con la morte. Un evento quest’ultimo, che nella società liquida e disincantata in cui viviamo, spesso viene rimosso. L’emergere del nichilismo come cura per non pensare a questo dramma che ci coinvolge tutti, senza distinzione, sta portando l’uomo a non avere più certezze su cui fondarsi, ed ecco che, allora, si pensa di rimuovere il problema cercando di creare dei feticci con cui raggiungere un illusorio senso di felicità che il solo pensiero della morte ci ruberebbe.
Vengono così a crearsi i vari vitelli d’oro che andrebbero a compensare l’assenza di una autentica relazione con la divinità e di una speranza in una redenzione. L’uomo sembra preferire al rapporto con un Dio personale, una religiosità mitica, in cui fa scendere Dio al proprio livello riconducendolo a categorie di comprensibilità e visibilità.
E’ sembrato dello stesso avviso anche papa Francesco, quando nell’udienza dell’8 agosto 2018, all’interno dell’aula Nervi, ha così dichiarato: “Senza il primato di Dio  si cade facilmente nell’idolatria e ci si accontenta di misere rassicurazioni […]. La natura umana, per sfuggire alle precarietà, cerca una religione ‘fai da te’[…]. Ma gli idoli hanno bocca e non parlano. Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani[…]. Noi cristiani volgiamo lo sguardo a Cristo Crocifisso, che è debole, disprezzato e spogliato di ogni possesso. Ma in lui si rivela il volto del Dio vero, la gloria dell’amore e non quella dell’inganno luccicante”.
Marco Mancini