Le migrazioni sono sempre state massicce. Perché?
Perché la modernità, il senso della modernità, è ossessiva e compulsiva: possiamo parlare di «tossicodipendenza» dalla modernizzazione. Essere moderni significa modernizzare. Una modernità senza modernizzazione è un vento che non soffia o un fiume che non scorre: semplicemente non ha senso. Perché la modernizzazione tende a produrre migranti? Perché crea persone «in eccesso», che vogliono lasciare il proprio Paese.
Esistono due fattori di esubero oggi assodati: il primo ha a che fare con il desiderio diffuso di ordinare, di ristrutturare la società per renderla migliore. Ogni volta che si cerca di introdurre un nuovo ordine o di riformare il precedente, accade sempre che alcune persone non vi si adattino. Le ragioni possono essere diverse: a volte queste persone dispongono di competenze non più richieste, o sono abituate a uno stile di vita che non ha più spazio nel nuovo ordine, oppure appartengono a un’altra religione, solo per fare qualche esempio. Il secondo fattore ha a che fare invece con la questione del «progresso economico», ossia con la possibilità di produrre le stesse cose, ma a un costo più basso e impiegando meno persone. In entrambi i casi si crea migrazione. Ma se le migrazioni sono un fenomeno che esiste da secoli, dove sta la novità allora? Sta nella diversa reazione che le popolazioni autoctone mostrano all’arrivo dei migranti. In passato, quando arrivavano stranieri per stabilirsi in Europa, ci si aspettava che avvenisse un’assimilazione, che quelle persone cioè diventassero esattamente come noi, cessando di essere stranieri e accettando in toto il nostro modo di vivere.
 
Una sfida enorme
Ora questo non accade più. Poteva accadere quando il mondo era ancora organizzato secondo una gerarchia culturale e si credeva nell’evoluzione: alcune popolazioni si trovavano sul gradino più basso, noi su quello più alto e ovviamente erano quelle più in basso a doversi adeguare al nostro stile di vita, uno stile «superiore», lo abbiamo perfino chiamato «Illuminismo».
La speranza che queste persone rinunciassero alla loro identità e diventassero come noi nasceva dalla convinzione che paesi come la Svizzera, l’Italia, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna rappresentassero il più alto livello di civiltà. Le cose sono cambiate. Un esempio significativo in questo senso è quello dei migranti turchi che sono arrivati in Germania e lì vogliono restare: si comportano in maniera corretta, pagano le tasse e agiscono come un qualsiasi altro cittadino, ma non vedono alcun motivo per smettere di essere turchi. Possono essere buoni cittadini tedeschi e allo stesso tempo rimanere turchi. La stessa cosa vale per gli immigrati magrebini in Francia. Perché mai dovrebbero rinunciare alla loro identità? Credo che l’introduzione nel linguaggio politico contemporaneo dell’espressione «multikulti» si debba alla cancelliera tedesca Angela Merkel. «Multikulti» è un concetto che nasce dalla sovrapposizione di due diversi fenomeni con status molto differenti tra loro. Il primo è la multiculturalità. Oggi viviamo in società multi-culturali, dove melting pot e coesione non si realizzano più. Ci troviamo di fronte a una situazione per cui, di fatto, in ogni città europea vi è una compresenza di persone che hanno culture e valori differenti, seguono modelli di comportamento diversi e vanno a pregare alcuni il venerdì, altri il sabato, altri ancora la domenica. È come se l’era dell’assimilazione si fosse ormai conclusa e fossimo «condannati» a vivere per sempre alla presenza di stranieri. Usciamo per strada e vediamo centinaia di stranieri, andiamo a lavorare e il nostro collega è straniero. Non si tratta più di un fenomeno circoscritto, ci riguarda da vicino. In una strada di Londra si possono trovare luoghi di culto islamici, cattolici, evangelici, ebraici, battisti e metodisti, tutti vicini, tutti a distanza di pochi passi. La società multiculturale ci pone di fronte a una sfida enorme, che richiede lo sviluppo di nuove competenze, di cui i nostri padri erano privi: per loro la presenza degli stranieri era del tutto transitoria. Solo adesso ci stiamo abituando all’idea che non sia così. In tutta franchezza, data la natura della nostra economia e le caratteristiche intrinseche al moderno stile di vita, che producono competizione tra i popoli e causano migrazioni, è molto difficile pensare di poter invertire questa tendenza.
 
Stili immutabili
Dalla multiculturalità, secondo me, non c’è ritorno. C’è un altro concetto, però, che affiora dall’idea di «multikulti», ed è il multiculturalismo, un derivato della multiculturalità, ovvero il comportamento di chi segue con rigore la propria cultura, anche se essa non ha nulla a che fare con la realtà in cui vive. Tutte le culture, secondo questo assunto, devono essere rispettate, semplicemente perché sono diverse. Il solo fatto di essere diversa dà a quella cultura il diritto a cristallizzarsi in uno stile di vita che si ritiene immutabile e proprio di questa cultura.
 
Nuovi apartheid
Questo indirizzo politico ufficiale andrebbe messo in discussione perché, come mostra l’esperienza, provoca due conseguenze: da un lato sviluppa il «multicomunitarismo», che non è una coesistenza di popoli, ma un vivere accanto in un insieme di comunità diverse, che non comunicano tra loro, restano separate e invece di creare ponti tracciano confini; dall’altro lato, conseguenza strettamente legata alla prima, c’è quella che il Primo Ministro francese Manuel Valls ha recentemente chiamato «Apartheid». Valls ha definito la Francia un Paese dell’Apartheid, con una particolarità, però: l’Apartheid non è la politica ufficiale del Paese, al contrario. La politica ufficiale vuole la parità dei diritti umani. Il problema è che, nel tentativo pratico di attuare una convivenza tra le diverse culture, sono stati commessi così tanti errori che ciò che ora emerge spontaneamente e resta fuori dal controllo del potere politico è una sorta di società dell’Apartheid.

in “l’Unità” del 25 gennaio 2016
 
 
Bauman L’odio che sospende l’etica
di Zygmunt Bauman
 
Il suo prossimo libro s’intitola “Stranieri alle nostre porte” e ne pubblichiamo in anteprima un brano.
Il grande pensatore spiega la logica che prevale oggi di fronte ai migranti: «La paura impulsiva suscitata dalla vista di persone “aliene”, fonti d’imperscrutabili pericoli, confligge con l’impulso morale che sorge alla vista della miseria umana. E ciascuno di noi viene arruolato in una guerra dove il web diventa veicolo di pregiudizi»
I problemi generati dall’attuale “crisi migratoria”, esacerbati dal panico sulle migrazioni, appartengono alla categoria delle questioni più complesse e controverse: in essi, infatti, l’imperativo categorico e morale si scontra con la paura del “grande sconosciuto” impersonato dalle masse di stranieri che troviamo alle nostre porte. La paura impulsiva stimolata dalla vista di persone “aliene” che porterebbero con sé imperscrutabili pericoli entra in competizione con l’impulso morale causato dalla vista della miseria umana. Quasi in nessun altro caso potrebbe risultare più grande la sfida al tentativo morale di persuadere la volontà a seguire il suo imperativo; e raramente potrebbe essere più lacerante il compito della volontà che cerca di chiudere le orecchie a questo imperativo morale. Tutti noi saremmo potuti essere arruolati in un momento o in un altro, o contemporaneamente, nei diversi ruoli di questo combattimento: “campo di battaglia”, “soldato” o “cannone”. E alcuni di noi potrebbero perciò esser tentati dalla “grande semplificazione” offerta dal web. Lì, in questo rifugio, uno viene salvato dall’inevitabilità di confrontarsi con l’avversario faccia a faccia. Uno potrebbe imbattersi nella trappola della menzogna conflittuale e che intacca il rispetto di sé col semplice espediente di chiudere gli occhi di fronte alla presenza dell’avversario, arrivando anche a chiudere le orecchie ai suoi argomenti. Entrambi questi due aspetti sono facilmente visibili online, mentre non lo sono per niente nel mondo reale. In maniera prevedibile è quello che hanno riscontrato alcuni ricercatori in molti utenti di internet, avendoli studiati per spiegare quali siano le funzioni della Rete nella difesa di se stessi rispetto al vedere e all’udire quello che accade sul campo di battaglia. Nella “zona di sicurezza” delimitata da questa scelta sono ammesse solamente persone che la pensano allo stesso modo, mentre a quelli del campo avverso viene impedito l’ingresso. Basta poco, in termini di decisione e coerenza, per schiacciare il tasto “cancella” del computer ed eliminare la controversia e i suoi protagonisti dalla memoria digitale. Dal momento che il mettere in discussione qualcosa comporta il rischio di essere smentiti, e quindi si ritiene più conveniente evitare il dibattito, ecco che l’eliminazione della necessità di discutere l’importanza e la gravità degli imperativi morali si presenta come un sollievo: «Diventare moralmente ciechi e sordi ora basterà, grazie…». Con questa moralità resa cieca e sorda, non c’è da stupirsi che «milioni di americani – come è stato dimostrato in un recente studio pubblicato dalla “National Academy of Science” –, «credano che le loro posizioni siano fondamentalmente filantropiche mentre gli altri siano il male da combattere». Donald Trump, di gran lunga il più popolare tra i candidati repubblicani per la presidenza degli Stati Uniti, e che ha già una lunga e crescente storia di odio razziale e religioso, grazie alla tipica invettiva “noi contro loro” e al rifiuto di dissociarsi dai discorsi pieni di odio di alcuni suoi sostenitori, è stato individuato come «il candidato perfetto per la nostra epoca virale» da Emma Roller, editorialista del “New York Times” (29 dicembre 2015).
Perché questo? Come ha scoperto uno psicologo dell’Università delle Hawaii, i momenti virali più ricorrenti sono quelli che «provengono direttamente dall’inconscio» – mentre «l’odio, la paura dell’altro, la rabbia» provengono direttamente dal fondo pulsionale. I soggetti solitari di fronte a un cellulare, allo schermo di un tablet o di un computer portatile, che hanno solamente altre persone “virali” con cui confrontarsi, sembrano mettere a dormire la ragione e la moralità lasciando senza guinzaglio le emozioni che normalmente vengono controllate.
Ovviamente, internet non è la causa del crescente numero di internauti moralmente ciechi e sordi; ma esso facilita e alimenta in maniera notevole questa crescita. La prima reazione di fronte all’altro tende perciò a essere di vigilanza e di sospetto, un momento di indefinita ansietà, un impulso a cercare un’ancora di salvezza, che è causa di ulteriore nervosismo proprio perché è indefinita. E durante questo processo il rispetto degli imperativi morali è sospeso.
( Traduzione di Lorenzo Fazzini e Chiara Brivio)