La didattica ermeneutica esistenziale: una sintesi.

 
La DEE nasce da un lungo e approfondito studio sulla possibilità di applicare i risultati del metodo ermeneutico alla didattica, seguendo come filo conduttore la centralità dell’alunno che apprende. Il punto di partenza a cui facciamo riferimento sono le riflessioni che Hans Georg Gadamer ha riassunto in “Verità e Metodo”[1] sviluppando la linea della fenomenologia che parte da Edmund Husserl e passa per Martin Heidegger andando a sottolineare il ruolo fondamentale del soggetto che apprende all’interno di un “orizzonte ermeneutico”[2]. Scrive Gadamer nella introduzione a “Verità e Metodo”: “la ricerca che segue si ricollega a quella resistenza che all’interno della scienza moderna si oppone alla pretesa di universale della metodologia scientifica. Il suo intento è quello di studiare ovunque essa si dia, l’esperienza di verità che oltrepassa l’ambito sottoposto al controllo della metodologia scientifica e di ricercarne la specifica legittimazione. Le scienze dello spirito vengono così ad avvicinarsi a quei tipi di esperienza che stanno al di fuori della scienza: all’esperienza filosofica, all’esperienza dell’arte, all’esperienza della storia stessa”[3] . Questo passo, che potremmo definire il “manifesto” della riflessione ermeneutica, ben si adatta anche alle intenzioni della DEE: arrivare a proporre una metodologia che dia alle “scienze dello spirito” un procedere rigoroso, in qualche modo verificabile e quindi falsificabile, da utilizzare nell’insegnamento della Religione. E’ in quest’ orizzonte che parliamo di didattica come della scienza che indaga il “concreto fare scuola”. Il metodo didattico si configura come: «l’organizzazione di un sistema di relazioni che mette in reciproca connessione tre strutture: la struttura conoscitiva dell’alunno; la struttura della conoscenza da acquisire; l’insieme delle operazioni da mettere in atto da parte dell’alunno per incorporare gli elementi della conoscenza proposta nella sua matrice cognitiva»[4]. Individuiamo principalmente tre metodi didattici: deduttivo, induttivo ed ermeneutico.

  • Metodo deduttivo: è il metodo classico d’insegnamento che ancora oggi vediamo applicato nella prassi di moti docenti, anche IdR. Si parte dall’idea che esiste una materia da conoscere che deve essere trasmessa, attraverso l’opera del docente, all’alunno. Questi ha il compito di “ripetere”, memorizzare e padroneggiare la disciplina così come gli viene proposta e, nella migliore delle ipotesi, si chiede di saper riorganizzare il sapere con collegamenti ad altre discipline. Nessun ruolo hanno i bisogni dell’alunno. Si tratta di trasmettere un sapere standardizzato, con schemi e moduli didattici la cui funzione è di esemplificare le conoscenze da acquisire o organizzarle. Il docente verificherà poi l’avvenuta “memorizzazione” dei contenuti e la loro adeguatezza a quanto stabilito. Al centro del processo didattico c’è il libro di testo.
  • Metodo induttivo: si parte dall’esperienza per poter poi arrivare ad una sintesi. E’ il metodo classico della scienza: l’esperimento, riproducibile da chiunque, è la base per arrivare a delle conclusioni verificabili. Nella didattica e nella prassi scolastica dell’IRC lo si applica nel momento in cui si parte dalle esperienze dei ragazzi per poi poter arrivare a delle conclusioni generali. Tale metodo però, applicato nella prassi dagli IdR in varie forme, può risultare produttivo, ma raramente si riesce a cogliere i veri bisogni degli alunni. Al centro del processo didattico c’è la realtà che viene interrogata ed analizzata.
  • Metodo ermeneutico: La vera novità del procedimento ermeneutico è di porre al centro del processo didattico il soggetto e i suoi bisogni. La ricerca della verità e di senso avviene tramite l’analisi delle domande esistenziali che partono dal soggetto che apprende in un “circolo ermeneutico” che tende a dare delle risposte via via più complete e proponendo nuove domande da cui ripartire. Il ruolo del docente cambia profondamente come sottolinea Romio“L’insegnante interroga e suscita la domanda; l’allievo riflette e cerca la risposta; il libro offre stimoli e contributi; i valori reali sono l’esperienza di vita vissuta; la finalità è fare esperienza personale; la didattica si occupa di accompagnare la persona[5]. L’obiettivo finale non sarà quello di trasmettere delle “verità” calate dall’alto, ma di costruire la conoscenza dell’atteggiamento religioso, del fenomeno religioso. L’apprendimento religioso allora diventerà l’esercizio di “un sapere consapevole di una presenza arcana in grado di illuminare il mistero in cui l’esistenza trova senso e l’intera realtà prende consistenza[6]. L’oggetto dunque non sarà la religione e la verità su di essa, ma piuttosto una indagine seria sull’atteggiamento religioso e la fede che lo sostiene.

 

1. Dall’individuazione della domanda all’elaborazione di una risposta non definitiva.

Il procedimento ermeneutico, proprio per l’idea di “conoscenza” che propone, dove non si dà novità di conoscenza se questa non viene integrata nella “vita” di chi conosce, parte necessariamente dall’esperienza, ma nel senso che essa costituisce l’orizzonte interpretativo dell’uomo e non un “dogma” da cui non poter prescindere (così come fa il metodo scientifico). Comprendere allora significa non acquisire dei contenuti, ma modificare il proprio orizzonte interpretativo all’interno del quale poi sorgono nuove domande e la ricerca di nuove risposte. Per questo è essenziale chiarire innanzitutto i processi educativi, prima che i contenuti. Processi che sarà utile condividere e discutere con gli alunni stessi, proprio per suscitare in loro la condivisione di un processo dove dono protagonisti e motivare alla ricerca. Passiamo a descrivere i punti in cui intendiamo articolare il procedimento ermeneutico.

 

1.1 La situazione concreta.

Massima attenzione e un’indagine adeguata deve essere messa in campo per individuare la situazione concreta degli alunni che compongono una classe. Per ognuno dei ragazzi dovrà essere fatta un’analisi della situazione esistenziale concreta, (condizione sociale, familiare, psicologica, culturale) e, ove possibile, trovare i punti di interesse che ognuno, ogni singolo alunno[7], può manifestare, a livello sia esplicito che implicito. E’ su questo ambito che il docente è chiamato a “spaccare la crosta dell’ovvio e del banale”, andando a ricercare le vere domande, i punti di interesse e curiosità sono alla base della situazione emotiva ed esistenziale degli alunni. Aggiungiamo però che la demotivazione generalizzata sempre più constatabile a vari livelli tra gli alunni costituisce uno degli scogli più consistenti per stimolare e suscitare la domanda in alunni sempre più difficili da “comprendere”. Un capitolo a parte verrà dedicato proprio al tema della motivazione, inserendo nel processo della didattica ermeneutica esistenziale uno specifico “momento” dedicato a questa delicata fase.

1.1.1 Motivazione.

Il processo che s’intende mettere in atto con gli alunni, il metodo proprio della didattica ermeneutica e i vari passaggi che la compongono deve essere ogni volta esposto e concordato con gli alunni che diventano parte attiva, creativa e critica di tutto il processo. L’idea che si “costruisce assieme un sapere” e per farlo sono necessarie alcune regole di base, può motivare maggiormente l’alunno alla partecipazione attiva a tutto il procedimento. Differentemente può sorgere l’idea che si “proceda senza una direzione”, anche perché l’ambiente scolastico è fortemente legato ad uno schema docente-contenuti-conoscenza-verifica, e difficilmente si coglie la serietà di metodi differenti se non realmente spiegati e condivisi. Approfondiremo questo passaggio dopo aver fatto una rassegna delle principali teorie sulla motivazione.
 

1.2. Formulazione degli interrogativi.

Per poter formulare degli interrogativi autentici e aprire la strada ad una “risposta autentica” è necessario che il docente metta nelle condizioni ogni alunno di esprimere quegli interrogativi che albergano nella vita di ognuno e che nell’adolescente si legano strettamente con la ricerca di una propria identità. Sarà necessario quindi in ogni classe un attento lavoro di dialogo e ricerca delle migliori condizioni che permettano ad ognuno di esprimersi. Tutto ciò si scontra necessariamente con i limiti di orario (un incontro di un’ora a settimana difficilmente permette una continuità, e sarà quindi necessario che il docente adotti delle strategie per “registrare” ogni intervento, come ad esempio la stesura di un “verbale” di ogni incontro).
 

1.3 La domanda mirata.

Nella formulazione della domanda va a confluire tutto il lavoro precedente. La domanda deve scaturire dalle indicazioni raccolte nelle analisi della situazione concreta e poi della formulazione degli interrogativi. La domanda, in altri termini, indica la direzione in cui cercare. Molto più facile e sbrigativo, da parte del docente, è presentare le proprie domande preconfezionate a cui spesso gli alunni non sanno dare risposte proprio perché non vanno a toccare la loro situazione concreta, ciò che vivono, i loro interrogativi. Mettere invece all’inizio di un processo di apprendimento una domanda in grado di esprimere i reali interessi di ogni singolo alunno, costituisce un elemento fondamentale per un reale apprendimento.

 

1.4 La ricerca delle fonti orientata – mirata.

In questa fase l’insegnante deve avere il ruolo di proporre agli alunni dei testi della tradizione (Bibbia, Magistero) che siano adeguati alla domanda cui si cerca risposta e allo stesso tempo risultino comprensibili e analizzabili dagli studenti. Sarà compito del docente accompagnare gli studenti nel processo di raccolta dei datidi confronto tra di loro, di analisi.

 

1.5 Contributi significativi.

I testi della tradizione non devono essere accolti come “risposte” preconfezionate. Piuttosto possono diventare significativi se riescono a fare chiarezza, a rispondere alle attese di chi li interroga. I testi della tradizione però vanno contestualizzati, sono scritti con un linguaggio e una simbologia che può risultare molto distante da quella attuale. Andrà quindi svolto un lavoro di esegesi che faccia emergere quello che qui definiamo il “contributo significativo”, cioè una parola, una testimonianza, in grado di illuminare o almeno rischiarare il cammino di ricerca che si è avviato nei precedenti punti.

 

1.6 Istanze attuali a cui confrontarsi.

Dopo il confronto con la tradizione si torna alla situazione esistenziale attuale. In questa fase il lavoro consiste nel mettere in relazione quanto emerso dalla ricerca nell’ambito della tradizione con la specifica situazione attuale. La verità che è sottesa ad ogni situazione ed esperienza può emergere se esplorata a fondo. Praticamente significa mettere in parallelo situazioni attuali, che possono emergere dalle esperienze stesse degli alunni, con i suggerimenti che vengono dalla tradizione. Il progetto personale di ognuno si delinea nel confronto tra le verità custodite nelle cose e gli interessi di ciascuno.

 

1.7 Elaborazione della risposta.

A questo punto la risposta deve arrivare: bisogna “dare il nome alle cose”, individuare cosa quei significati, esperienze altrui, riflessioni e problemi attuali e di altri tempi, possono dire oggi alla situazione concreta per la costruzione di un progetto personale. Non parliamo vagamente di “valori”, “scelte” o di qualcosa che possa “ingabbiare” la risposta dentro schemi banali e precostituiti. Piuttosto la risposta è quella che ognuno riesce a darsi dopo il procedimento ermeneutico.
 

1.8 Interpretazione: ipotesi di soluzione.

Quest’ultima fase mette in evidenza tutto il cammino percorso, le varie tappe, i risultati raggiunti e allo stesso tempo apre la strada a nuovi interrogativi, sentieri da percorrere per costruire il proprio progetto di vita. Ovviamente si tratta di un processo e quindi andrà verificata, in ogni singola classe e per ogni alunno, l’effettiva possibilità di applicare questa metodologia didattica.
 
 

  2 Il processo di motivazione nella DEE.

 
Il modello ermeneutico, come abbiamo visto, va articolato nella concreta azione didattica dell’IRC. Le fasi in cui ogni Unità di apprendimento si dispiega possono essere riassunte nel seguente elenco:

  • Il vissuto come base concreta da cui partire.
  • La formulazione degli interrogativi a partire dalle reali esigenze dei soggetti.
  • Elaborazione di una domanda mirata, fase in cui entra il docente per individuare quell’”Obiettivo formativo” che medierà e accompagnerà gli studenti anche guardano agli OSA (obiettivi specifici di apprendimento).
  • Ricerca sulle fonti, orientata dal docente e mirata a trovare risposte alla domanda iniziale.
  • Lavoro sui contributi significativi.
  • Istanze attuali cui confrontarsi.
  • Elaborazione della risposta.
  • Interpretazione e ipotesi di soluzione[8].

In quest’ambito vogliamo soffermarci su la possibilità di inserire una fase “2a”, ovvero un momento di vera e propria presa di coscienza della motivazione che può portare gli alunni verso l’ipotesi di soluzione e quindi ad una reale autovalutazione di tutto il processo. La chiameremo “fase della motivazione” e l’esigenza di aggiungere uno specifico momento per l’approfondimento dei motivi alla partecipazione e alla ricerca nel dispiegarsi dell’azione didattica nasce dalla constatazione che un numero sempre maggiore di ragazzi appare “tragicamente demotivato”. Qualsiasi stimolo è come rimbalzasse su un muro di gomma e la situazione con il passare degli anni sembra peggiorare. Sui motivi per cui questi giovani hanno un atteggiamento di disinteresse, disimpegno e stanchezza esistono varie teorie e spiegazioni. Fra le molte quella di M. Benasayag ci sembra cogliere nel segno quando parla di una”epoca delle passioni tristi”[9]. L’autore, uno psichiatra che ha avuto anche una lunga esperienza di prigionia perché coinvolto nel movimento di liberazione dell’Argentina dalla dittatura, sostiene che ai nostri giovani è stato “negato il futuro”, che si presenta più come una minaccia che come una promessa. Lo stato di “crisi” delle giovani generazioni è dovuto anche a questa mancanza di prospettive, di futuro, e quindi della possibilità di progettare positivamente la propria identità. Piuttosto sono educati a “difendersi” dalle possibili minacce che vengono dalla mancanza di prospettive lavorative, disorientamento riguardo ai valori su cui puntare, diffidenza nei confronti degli altri e dei “diversi”. Una epoca in cui prevalgono le “passioni tristi”, frutto della incapacità di scorgere un futuro positivo. “Le passioni tristi, l’impotenza e il fatalismo non mancano di un certo fascino – dice Benasayag – è una tentazione farsi sedurre dal canto delle sirene della disperazione, assaporare l’attesa del peggio, lasciarsi avvolgere dalla notte apocalittica (…) è a questo che ciascuno di noi deve resistere, creando”[10]. La situazione esistenziale di molti dei nostri giovani alunni è caratterizzata da questo tipo di percezione, ed è a partire da questa constatazione che possiamo iniziare a pensare di “motivare alla creatività”, uscendo dalla facile tentazione di perdersi nella pratica delle “passioni tristi”, della disillusione e impossibilità di costruire futuro. Per far questo però tentiamo di comprendere più a fondo il processo che stimola e “accende” la creatività e la ricerca. Partiremo dunque da alcune teorie sulla motivazione (e demotivazione) allo studio per poi scendere nello specifico della motivazione all’interno del processo della DEE[11].
 

2.1 La motivazione: alcune teorie

 

2.1.1. I bisogni motivazionali secondo Maslow.

Il primo a mettere a tema sistematicamente la motivazione fu Abraham Maslow nel 1954 con “Motivation and Personality”[12]. Le sue tesi, attualmente superate dalle successive ricerche, sono però un punto di riferimento per chi si occupa di motivazione. L’uomo, secondo Maslow, si “autodirige” nella direzione della realizzazione dei suoi bisogni secondo quanto la propria natura gli suggerisce. Se riesce ad “auto realizzarsi” l’individuo arriva alla capacità di percepire la realtà in maniera efficace e costruisce relazioni con essa. Per raggiungere questa condizione l’uomo deve innanzitutto aver realizzato i suoi bisogni che Maslow distingue in due grandi gruppi: bisogni di mancanza e bisogni di crescita:

Bisogni di mancanza (legati alla sfera psico-fisica) Ø  Bisogni fisiologici.
Ø  Bisogni di sicurezza.
Ø  Bisogni di appartenenza e amore.
Ø  Bisogni di stima.
Bisogni di crescita (riguardano la vera essenza dell’uomo). Ø  Bisogno di autorealizzazione.
Ø  Bisogno di conoscenza.
Ø  Bisogni estetici.

 
La realizzazione dei bisogni avviene progressivamente. Non è possibile cioè rispondere ai bisogni di crescita se prima non sono stati esauditi i bisogni di mancanza. A questo livello l’uomo non è portato alla realizzazione di se stesso, ma è semplicemente occupato a non provare “sofferenza” per la mancanza di cibo, sicurezza, amore, stima.
Cercando un’applicazione alla didattica possiamo dire che risulta quasi scontato che un alunno, magari un adolescente, che non ha nessuna possibilità di risolvere il proprio bisogno di sicurezza, perché magari vive in una famiglia disgregata, possa essere motivato al bisogno di conoscenza. Senza voler “ingabbiare” i comportamenti umani all’interno di schemi, torna utile però ricordare che lo studio, l’impegno e la motivazione allo studio possono nascere effettivamente laddove siano superati, o almeno seriamente affrontati, bisogni più “semplici”, ma non per questo meno rilevanti nella vita di un individuo. Lo stesso Maslow sottolinea il “ruolo dell’ambiente”, familiare, scolastico, che può aiutare l’individuo a rispondere alle difficoltà, nel trovare riscontro ai bisogni di mancanza. In ogni caso torna utile ricordare che un alunno si sentirà stimolato a svolgere il compito che l’insegnante gli chiede se si sentirà al sicuro, in un ambiente che lo garantisce.
 

2.1.2 La motivazione al successo di Atkinson.

J.W. Atkinson[13] riassume la sua teoria sulla motivazione attorno a due cardini: la motivazione al successo e quella ad evitare l’insuccesso. Un alunno in classe svolgerà un compito in base ad una previa valutazione emotiva delle possibilità di successo o insuccesso che gli si prospettano. Tanto più il compito sarà difficile tanto più la nascerà una convinzione di orgoglio nel poterlo risolvere. Ciò che frena l’individuo è la possibilità dell’insuccesso, il sentimento di vergogna ad esso collegata e la paura di essere giudicato negativamente dagli altri.

 

2.1.3. Le “attribuzioni causali”: B. Weiner.

Secondo Weiner[14], gli individui, per natura, vogliono comprendere, hanno desiderio di capire e si fanno domande sul perché degli eventi. Questo per due motivi:

  • Necessità di prevenire le situazioni problematiche improvvise. Conoscere significa ridurre la sorpresa di fronte a nuove eventualità.
  • Agevolare il raggiungimento di obiettivi, conseguenti alla conoscenza di situazioni.

Le attribuzioni causali sono di vario tipo: abilità (sono riuscito in questo compito perché sono intelligente), sforzi personali (mi sono impegnato e ho avuto successo), interconnessione con altre persone (non sono riuscito perché quella persona mi odia), fattori psicologici (ansia, depressione, felicità).
Tutte le attribuzioni secondo Weiner però sono riconducibili a tre tipi fondamentali:

  • Il locus interno o esterno (una causa può essere interna nel senso che l’infelicità mi ha portato al fallimento oppure esterna se do la colpa del mio fallimento alla fortuna o al destino).
  • Costanza: le cause possono essere percepite come temporalmente stabili (ad esempio un’abilità può essere considerata più stabile della situazione emotiva) o globalmente presenti (la mancanza d’intelligenza influisce in maniera globale sui risultati)
  • Responsabilità: cioè il livello di controllabilità dell’esito di una prova o di un impegno. E’ determinante comprendere se l’esito dipende da fattori modificabili o meno in occasioni future.
  • Le esperienze scolastiche, venendo al tema per cui stiamo trattando delle teorie della motivazione, costituiscono la fonte delle attribuzioni causali. Non solo le esperienze del singolo, ma anche quelle che vengono dagli altri. Sappiamo infatti quanto sia importante il ruolo del gruppo dei pari per la percezione dell’impegno da dedicare ad una materia o ad un compito. Andando poi ad analizzare le emozioni che scaturisco dalle varie situazioni scolastiche possiamo dire con Weimar che ogni “prova” è fonte di una emozione che poi sarà tra i “motivatori” di una successiva situazione. Se ad esempio una prova o una lezione o un intervento di un alunno l’ha portato ad un fallimento l’emozione “umiliazione” che ne sarà derivata eserciterà un ruolo decisivo nella successiva occasione e demotiverà l’alunno.
     

    2.1.4: Il bisogno di autodeterminazione e la motivazione intrinseca: E.L.Deci.

    In Deci[15] la motivazione intrinseca è molto più importante e determinate delle motivazioni estrinseche. Questo perché il bisogno di autodeterminazione dell’uomo e quindi il sentimento di “auto motivazione” è determinate per le scelte e le azioni che si compiono. Piuttosto che le regole esterne, le imposizioni, le punizioni o i premi, Deci pone l’attenzione su ciò che avviene intrinsecamente, sulla consapevolezza dei propri bisogni e delle necessità dettate dalla situazione che si sta vivendo. Questo tipo d’impostazione risulta quindi molto vicina alla DEE, e la riprenderemo per spiegare il processo di motivazione all’interno delle azioni e fasi proprie della didattica ermeneutica. Le teorie di Deci, dal punto di vista anche psicologico, rafforzano quanto detto a proposito del bisogno di partire dalla situazione esistenziale dei ragazzi, dai loro bisogni e dalle realtà che “intrinsecamente” sono più interessanti per loro. Altro punto su cui insiste Deci è la libertà o autodeterminazione. Le motivazioni estrinseche, anche se si tratta di premi o risposte positive da parte dell’ambiente esterno, non sono così decisive come sembrerebbe (pensiamo al peso della valutazione, del “voto” che molti insegnanti credono di possedere come “arma” per poter muovere gli alunni allo studio). I voti, i premi, possono addirittura essere vissuti dall’alunno come una sorta di controllo da parte del docente e quindi demotivare allo studio. Altro ruolo invece hanno le conferme e i “premi” a livello della comunicazione interpersonale e nel gruppo classe. E’ fortemente motivante una relazione basata sulla comunicazione efficace, non necessariamente verbale, tra insegnante e docente. Uno dei bisogni fondamentali per Deci infatti è quello di relazione con gli altri che costituisce un pilastro motivazionale. Per ultimo citiamo anche il bisogno di competenza, che influisce fortemente sull’autostima e sulla capacità di far fronte a situazioni problematiche. Sul concetto di “libertà dell’apprendimento e autodeterminazione” torneremo parlando delle teorie di Carl R. Rogers.
     

    2.1.5 Teoria socio cognitiva e autoefficacia: A. Bandura.

    Il concetto di “autoefficacia” costruito da Bandura[16], pur costruito su una visione “ottimistica” dell’uomo e delle sue motivazioni, può aiutarci a capire alcuni passaggi fondamentali del processo che stiamo analizzando. L’autoefficacia va riferita alla convinzione del soggetto riguardo alle proprie capacità di mettere in atto tutte le azioni necessarie per affrontare le situazioni problematiche che lo porteranno ad un fine che si è prefissato. Questa serie di convinzioni che costituiscono l’autoefficacia derivano da alcune fonti principali:

    1. Le performance: ovvero le esperienze di efficacia provate in varie situazioni problematiche. Se il soggetto ha esperienze che gli confermano le proprie capacità queste costituiranno un bagaglio per l’autoefficacia. Le esperienze negative, viceversa, porteranno il soggetto a una convinzione di scarsa autoefficacia.
    2. L’esperienza vicaria: il processo d’imitazione è per Bandura estremamente importante, non solo per i soggetti in crescita, ma anche per gli adulti. Avere una relazione intensa con un modello in possesso di capacità alte, sostiene il senso di autoefficacia. Anche in questo caso avere a disposizione modelli scarsamente efficaci provocherà una reazione negativa sulle proprie convinzioni di efficacia.
    3. La persuasione: attraverso i giudizi degli altri il soggetto si “persuade” di avere delle capacità che lo possono condurre al successo o all’insuccesso. Questo avviene soprattutto nel confronto con gli altri e nei giudizi che esprimono, siano essi negativi o positivi. C’è da rilevare però che i semplici apprezzamenti verbali (sei bravo, sei intelligente) se poi non collimano con i risultati effettivi, possono rilevarsi controproducenti per il senso di autoefficacia.
    4. Gli stati emotivi: stress ed emozioni negative hanno un ruolo determinate nelle prestazioni del soggetto. Il sentimento di sapere più o meno sopportare lo stress, la fatica mentale e fisica, favorisce o inibisce il senso di autoefficacia. L’umore e il senso di autoefficacia si influenzano reciprocamente: la sensazione di autoefficacia può infatti variare in positivo l’umore, così come una situazione emotiva negativa porta alla convinzione di non poter affrontare una prova.

    Per quanto riguarda il tema che stiamo trattando sarà necessario quindi tenere conto del concetto di autoefficacia che ha ogni alunno nell’affrontare le proposte didattiche e le prove.

     

    2.1.6 “Personal causation”: R. DeCharms.

    Per DeCharms[17] lo studente è “un agente attivo capace di interagire con l’ambiente”, al contrario di chi pensa che apprendere significhi acquisire delle abitudini trasmesse dall’insegnante, o che l’alunno sia un contenitore passivo di conoscenza.
    In questa interazione con l’ambiente lo studente deve essere condotto dall’insegnante, il cui ruolo passa da veicolo di contenuti a tutor nel processo di apprendimento.
    Il motore che porta l’uomo, e lo studente in particolare, a cercare di conoscere è un investimento personale attivo verso il cambiamento. Questo meccanismo viene definito da DeCharms come “personal causation”, ovvero la causa che muove l’interesse dell’alunno non può essere esterna, ma interna, qualcosa di “intenzionale”, volto a produrre un effettivo cambiamento nella vita della persona. Se qualcosa deve essere eseguito per “dovere” o per conseguire ricompense, apprezzamenti, valutazioni positive, si può ingenerare un processo di demotivazione proprio perché l’obiettivo non è più la conoscenza in se. Piuttosto l’individuo punta ad ottenere la ricompensa.
    Fondamentale per questa nostra indagine è la posizione di DeCharms riguardo al coinvolgimento dell’alunno: se un soggetto viene coinvolto nella scelta e nel processo di apprendimento questo sarà un forte elemento motivante. Se, in altri termini, ad un alunno si propone di seguire un percorso in base alle sue effettive domande, che hanno a che fare con la sua situazione esistenziale, ciò provocherà una motivazione più forte alla ricerca e alla partecipazione al lavoro in classe.
    De Charms ha un riferimento importante a Jurgen Habermas: per il filosofo la società capitalistica tende a far credere che con il processo democratico il cittadino possa realmente partecipare alle decisioni, mentre in realtà le questioni importanti vengono risolte ai vertici e fatte calare dall’alto sulla popolazione. Uno degli strumenti che tale società utilizza è l’abbattimento della capacità critica della popolazione con strumenti di comunicazione di massa che sono funzionali al potere.
    Per DeCharms il processo didattico che porta l’individuo, l’alunno, ad una maggiore consapevolezza e alla acquisizione di una sapere critico e basato sulle decisioni proprie e libere è l’unico modo per poter invertire questa tendenza all’appiattimento delle coscienze indotto dal sistema di potere delle società occidentali.

     

    2.1.7 “I sistemi motivazionali”: Martin Ford.

    L’intenzione di Ford[18] è di unire in una teoria più ampia le principali posizioni sulla motivazione che si possono reperire tra gli esperti. La premessa è che la motivazione è il fattore determinate che rende efficace qualsiasi processo educativo. Distingue tra:

    1. Direzione motivazionale. Riguarda le decisioni sul “cosa fare”, perché impegnarsi, quali obiettivi si intende raggiungere.
    2. Risorse operative. Riguardano le reali risorse che il soggetto ha per mettere in atto le decisioni prese.
    3. La motivazione per Ford si compone dunque di tre elementi fondamentali:

      • Gli obiettivi personali. Fondamentale è il “progetto di vita” che si vuole raggiungere e in questo modo di intendere la motivazione possiamo ritrovare pienamente quanto detto a proposito della didattica eremeneutica: è necessario aiutare l’alunno a scoprire il proprio progetto di vita ed in base a questo arrivare ad un progressivo chiarimento del cammino da percorrere. Un obiettivo personale troppo alto o comunque irraggiungibile è necessariamente un freno motivazionale ogni qual volta si vede più lontano il raggiungimento. Se si pensa a quanti giovani si trovano a confrontarsi con modelli irraggiungibili, proposti dai media, dagli stereotipi della bellezza e forza fisica, del successo economico, si capisce anche perché la motivazione allo studio, a costruire un percorso di conoscenze e competenze, diventi sempre più difficile.
      • I vissuti emozionali: la situazione emotiva condiziona pesantemente la vita di ogni uomo, tanto più lo fa nel caso dei giovani e degli adolescenti. E’ inutile pensare di poter motivare allo studio un ragazzo che si trova in una situazione emotiva negativa, se non gli si permette prima di affrontarla.
      • Percezione delle proprie risorse. Per Ford tale componete è necessaria nella fase in cui l’individuo si pone gli obiettivi da raggiungere. E’ chiaro che abilità e situazione concreta sono condizioni del raggiungimento di qualsiasi scopo. Nella didattica sarà importante allora dare la giusta percezione agli alunni delle loro capacità reali, senza inibire e nemmeno creare false aspettative.

       

      2.2 Rogers e la “Libertà nell’apprendimento”.

       
      Nel mondo che si apre davanti a noi, lo scopo della scuola e di ogni processo educativo in generale deve essere quello di creare individui aperti alle novità e alle trasformazioni. Solo persone di questo tipo possono affrontare in maniera costruttiva l’inquietante realtà di un mondo in cui i problemi si moltiplicano molto più rapidamente delle risposte a questi stessi problemi. La meta dell’istruzione deve essere quella di far nascere un tipo di società nella quale la gente si senta più a proprio agio quando tutto cambia che non quanto tutto resta come prima. Nel mondo di domani la capacità di adeguarsi alle novità sarà più importante della capacità di conoscere e perpetuare l’eredità del passato.[19] Rogers, psicologo statunitense, fondatore della “terapia non direttiva”, già all’inizio degli anni settanta, pone come impellente un modello di apprendimento incentrato sull’acquisizione di capacità per interpretare una realtà in continua mutazione. Nella sua impostazione è centrale il ruolo della “libertà”, intesa come possibilità di conoscere e approfondire al di là dei ruoli istituzionali, del binomio docente-discente. Le sue riflessioni sono certamente il frutto di un ambiente e di un periodo storico dove il concetto di “autorità” viene messo in crisi, a volte in maniera anche ideologica, ma è innegabile che la capacità di Rogers di costruire un modello di apprendimento basato sulla libera iniziativa, sulla creatività, ci permette anche oggi di riflettere sulle dinamiche che possono favorire la motivazione nella scuola. Rogers dice: “Soltanto quando una persona dice a se stessa: “Sono qualcuno; sono qualcuno degno di esistere; mi impegno ad essere me stesso”[20], può avviarsi quel processo di ricerca e di conseguente acquisizione di conoscenze e competenze che possono portare, sempre secondo il linguaggio rogersiano, ad un individuo “pienamente realizzato ed efficiente”. Motivazione e impegno allora sono una sorta di “proiezione di tutto l’organismo verso una direzione”, che comporta una partecipazione non solo della mente, ma di tutte le componenti, fisiche, emotive, dell’individuo. “L’impegno è dunque qualcosa di più di una semplice opzione intellettuale. Esso è il modo di funzionare di un individuo che si muove alla ricerca delle vie suggerite dal suo essere più profondo”[21]. La creazione di una “verità personale”, provvisoria, legata all’azione, è l’essenza della motivazione e dell’impegno. Una continua conquista, che riparte una volta raggiunto un obiettivo, una ricerca che non ha mai fine, in linea con quel modello di “vita liquida[22]” che non si lascia afferrare in definizioni statiche.

       

      2.3 La fase di “motivazione e condivisione” in un’unità di apprendimento secondo il modello della DEE.

       
      Cerchiamo ora di applicare al modello della DEE quanto fin’ora detto a proposito della motivazione. Innanzitutto va specificato che tutto il modello della didattica ermeneutica, si muove nella prospettiva di partire dai bisogni autentici dell’alunno, e quindi in se risponde a vari livelli a quanto riscontrato nelle varie teorie elencate. In particolare però crediamo che sia necessaria un’esplicitazione di tutto il processo con l’alunno stesso che deve poter partecipare attivamente, in prima persona, in maniera creativa e non “direttiva” alla creazione del percorso che lo vedrà protagonista. Pensiamo sia decisivo, e lo abbiamo sperimentato in aula, che prima di procedere a qualsiasi attività, essa sia condivisa, analizzata, programmata in modo da rispondere meglio alle esigenze e aspettative degli alunni. Con Bandura potremmo dire che il senso di autoefficacia passa attraverso una valutazione di tutti i passaggi che portano l’alunno verso un risultato. Per ogni fase è necessaria una presa di coscienza delle risorse disponibili, della situazione delle proprie conoscenze e competenze, dell’ambiente in cui si è e del gruppo con cui si è chiamati a interagire. DeCharms pone l’attenzione proprio su questo elemento di coinvolgimento dell’alunno al fine di migliorare la sua motivazione e l’impegno che ne consegue.
      Nella pratica didattica abbiamo potuto constatare come dedicare del tempo al momento della condivisione del processo crei un clima tra gli alunni di buona e a volte ottima partecipazione da parte di tutti. Si può dedicare anche un’intera lezione a questa fase dividendo le questioni in alcuni punti principali.
      Dopo la fase vera e propria di progettazione, basata sulla condizione esistenziale dell’alunno, l’individuazione dell’area dell’esperienza, la modalità applicativa, l’elemento qualificante e l’obiettivo formativo, per ogni unità didattica si porterà in classe la proposta di una “domanda” a cui cercare risposta. Con gli alunni verranno ricercati:
       

      • Le domande guida per ognuno dei singoli problemi che la domanda generale pone.
      • Il materiale da analizzare, singolarmente o preferibilmente in piccoli sottogruppi. Gli alunni sono chiamati a partecipare alla creazione dell’elenco dei documenti possibili, sulla base delle loro conoscenze. Potranno essere articoli di giornale, saggi, materiale fotografico, siti Internet, film o documentari. Il docente poi proporrà, a sua volta, della “documentazione” e la divisione di esso nei vari gruppi con un compito preciso.
      • Definizione dei tempi e della modalità di svolgimento della ricerca in classe. Condividere anche questo punto aiuta gli alunni a comprendere il valore che si da ad ogni singolo passaggio.
      • Criteri per l’autovalutazione. E’ importante che si arrivi a definire così quali tipi di competenze è possibile raggiungere dopo aver svolto il percorso. L’idea che si vuole far passare è che ognuno dovrà valutare l’effettiva validità del percorso per la propria vita, per le scelte esistenziali che può fare, per il progetto personale che sta costruendo.

       

      2.4 Congruenza della “fase di motivazione” con il modello della didattica ermeneutica esistenziale.

       
      Abbiamo prima solo accennato al fatto che la DEE è “di per se stessa” motivante perché va a cogliere i veri bisogni dell’alunno e si pone nella prospettiva di dare delle risposte “interessanti”, nel senso proprio del termine: che abbiano a che fare con la propria esistenza, e non solo con le proprie conoscenze “teoriche”. Il modello della DEE segue questa prospettiva dal momento che si dedica all’approfondimento della situazione esistenziale dell’alunno e calibra la ricerca della domanda, del bisogno, proprio sulle effettive capacità e sugli interessi di ognuno. In altri termini: gli obiettivi formativi non sono più funzionali ad una sapere da trasmettere quanto piuttosto alla possibilità di dare competenze e abilità nell’abito del sapere religioso. Tale passaggio viene esplicitato anche nel delineare la figura dell’insegnate di religione nel modello ermeneutico: “un insegnante, per dirla con Rogers, che rende consapevole l’allievo del processo di apprendimento e lo guida a gestirlo in prima persona in modo che l’apprendimento divenga significativo ed autonomo attraverso la ricerca personale e l’utilizzazione delle nozioni apprese”[23]. Il ruolo dell’insegnante cambia completamente nel modello della DEE proprio perché è chiamato ad uno “sforzo” diverso. Non si tratta più di trovare gli argomenti più interessanti o curiosi che coinvolgano la classe, ma gli argomenti trattati scaturiscono dall’analisi della situazione degli alunni e dalla condivisione del processo di apprendimento. Il lavoro in classe per il docente diventa quello del facilitatore, del tutor, del “compagno di viaggio” che ha alcune indicazioni utili per trovare delle risposte. In questo contesto,
       

      NOTE 

      [1]           H.G. GADAMER, “Verità e Metodo”, Milano, Bompiani, 1983.
      [2]           Il valore della riflessione di Heidegger per l’interpretazione del linguaggio religioso e del soggetto come “perno della interpretazione si trova in: T. ZELINDO, Opzione religiosa e dignità umana, Roma, Armando Editore, 2003, pagg. 119-134.
      [3]           H.G. GADAMER, “Verità e Metodo”, Milano, Bompiani, 1983, pag.19.
      [4]           M. PELLEREY, Progettazione didattica, Torino, SEI, 1982, pag.172.
      [5]           R. ROMIO in Z. TRENTI (a cura di) “Manuale dell’insegnante di Religione”, Torino, Elledici, 2006, pag.248
      [6]           Z. TRENTI – R. ROMIO, Pedagogia dell’apprendimento, pag. 148.
      [7]           C’è da sottolineare la questione dei piani di studio personalizzati e della attenzione alle reali esigenze di ogni alunno e non di un generico “gruppo classe”. L’errore, ad esempio, di una programmazione che abbia come destinatario un gruppo classe e non ogni singolo individuo è quello di costruire dei percorsi didattici formalmente molto interessanti, ma praticamente lontani dalla situazione concreta di ogni alunno.
      [8]           Un’accurata descrizione di come si articola il modello ermeneutico nella didattica dell’IRC si trova in: Z. TRENTI- R. ROMIO Pedagogia dell’apprendimento, pagg. 200-205
      [9]           M. BENASAYAG – G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2004.
      [10]          M. BENASAYAG – G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, pag. 127.
      [11]          Un’ampia trattazione delle principali teorie sulla motivazione si trova in: L. D’ALONSO Demotivazione alla scuola. Strategie di superamento, La Scuola, Brescia, 1999.
      [12]          A.H.MASLOW, Motivazione e personalità, Armando, Roma, 1992.
      [13]          J. W. ATKINSON, La motivazione, Bologna, Il Mulino, 1973.
      [14]          B. WIENER in R.AMES – C. AMES, Motivation in education: Student Motivation, Academic Press, San Diego (CA), 1984.
      [15]          E. L. DECI, Intrinsic motivation, Plenum Press, New York, 1975.
      [16]          A. BANDURA, Autoefficacia. Teoria e applicazioni. Trento, Centro Studi Erickson, 2000.
      [17]          R. DeCHARMS , Enhancing motivation: Change in the classroom, Irvington, New York, 1976.
      [18]          M. E. FORD, in D. IANES (a cura di), Metacognizione e insegnamento, Trento, Erikson, 1996.
      [19]          C. R .ROGERS, Libertà nell’apprendimento, Giunti, Firenze, 1973, p. 341.
      [20]          C. R. ROGERS, Libertà nell’apprendimento, p. 316.
      [21]          C .R. ROGERS, Libertà nell’apprendimento, p. 318.
      [22]          La definizione è di Z. BAUMAN, Vita liquida, Laterza, Bari, 2006.
      [23]          Z. TRENTI – R. ROMIO, Pedagogia dell’apprendimento, pag.205.