1. Origini e significato della “Gender Theory”
2. L’incongruenza della “Gender Theory” rispetto all’antropologia
La teoria del Gender mira a rimuovere qualunque discriminazione tra uomo e donna attraverso la cancellazione della differenza tra “maschile” e “femminile”. Questa infatti viene ricondotta, per un verso, alla distinzione anatomo/fisiologica (“Sex”); per l’altro, alla conseguenza di pratiche/convenzioni socioculturali (“Gender”). Il primo significato è considerato obiettivo, ma ovviamente irrilevante per quanto concerne gli orientamenti etico- pedagogici in quanto risponde al mero criterio della funzionalità; il secondo – ri(con)ducendo tutto alla convenzione – permette di mettere tutto in discussione senza riconoscere che vi sia alcunché di originario, per questa stessa ragione: orientativo. Si tratta di una strategia coerente: se tutto può essere messo in discussione, allora anche le prassi discriminatorie sono suscettibili di critica e di una ridefinizione che le porti a mutare. Ma il prezzo da pagare? C’è congruenza tra questa aspirazione e la cancellazione di qualunque significato originario dell’essere maschio o femmina che vada oltre la pura descrizione del “Sex”? La cosa appare tanto più sorprendente se facciamo caso a questo. La specie umana è l’unica specie animale che si interroga sul significato (e sul correlato valore) di ciò che la riguarda. Già Aristotele, riflettendo sulla peculiarità della parola umana rispetto al linguaggio animale, nota che la prima non si limita – come il secondo – a corrispondere alla percezione di piacere oppure sofferenza perché valuta l’azione e la situazione corrispondenti: infatti, la parola “bene” può essere associata anche ad una situazione che genera sofferenza se è valutata positiva- mente esattamente come la parola “male” può essere associata anche a una situazione che genera piacere se viene valutata negativamente. (4) Possibile che, per quanto concerne il nostro profilo sessuato, dobbiamo abbracciare una disposizione avalutativa? Sarebbe in piena controtendenza rispetto a ciò che ci identifica e che – di fronte alle cose – ci porta a domandare perché? e non soltanto come?
La “Gender Theory” sostiene che – a parte il significato anatomo/fisiologico dell’essere maschio e dell’essere femmina – nulla si può dire sul dimorfismo sessuale che non dipenda da una convenzione socioculturale. Se le cose stessero così, è vero che sarebbe destituita di credibilità qualunque teoria/prassi discriminatoria (in quanto costitutivamente rinegoziabile), ma sarebbe altrettanto vero che diventerebbe impossibile fondare la pratica educativa su riferimenti credibili, senza contare – l’ho considerato all’interno del paragrafo precedente – che l’indifferenza andrebbe contro la strutturale relazionalità dell’essere umano.
4. La risemantizzazione delle identità maschile e femminile
5. Educazione sessuale e sfida pedagogica
Dal momento che l’educazione è una pratica prospettica e orientativa, cioè che guarda al futuro, risulta chiaro che non può assumere un profilo “neutrale”. Non si esplicita infatti nell’assecondamento dell’esistente, ma nella sua interpretazione come sfida che rimanda a uno sviluppo: per questa ragione le è stata spesso associata l’espressione di Pindaro: “Divieni ciò che sei”. (8) Il dinamismo educativo porta alla manifestazione delle potenzialità che domandano però sempre l’adesione intenzionale di colui che cresce. Per quanto concerne l’identità sessuale, il bambino e la bambina vengono orientati a diventare uomo e donna alla luce del riconoscimento delle peculiarità maschile e femminile che prima ho identificato prendendo le mosse dalla lettura simbolica del dimorfismo sessuale. Sappiamo come non ci sia sempre la piena identificazione tra identità sessuale fenotipica e identità sessuale percepita, in coerenza con l’“idealtipo” come prima l’ho connotato. Ma questo è sufficiente per destituire di credibilità l’associazione alla identità maschile oppure femminile in coerenza con il corpo sessuato? Così sostiene la “Gender Theory” secondo la quale ogni identificazione è aleatoria, ma – se dovessimo assumere il criterio dell’autopercezione come dirimente in merito alla identificazione – tutto diventerebbe non solo incerto, ma variabile in coerenza con le fluttuazioni della conoscenza di tipo percettivo. Per questa ragione respingo la moltiplicazione dei generi, oggi divulgata dalla “Gender Theory”, mantenendo l’idea che siano solo i due tradizionalmente accolti: quello maschile e quello femminile (9) – non possiamo estendere ciò che si può verificare in pochi casi (ad esempio, nell’ermafrodito) all’universo dei soggetti in questione –. Già Aristotele identificava la “verità pratica” associandola a ciò che accade “per lo più”, (10) in considerazione del fatto che il mondo della prassi risente di variabili che non permettono mai di avere una totale corrispodenza tra ciò che viene riconosciuto come orientativo e ciò che di fatto acca- de. D’altro canto, se si abbraccia una prassi educativa – per ciò che riguarda la sessualità – dove non si distingue più tra tendenze diverse, ciò che accade è educare surrettiziamente alla bisessualità: un esito totalmente discutibile per il fatto che tratta il dimorfismo sessuale come se fosse privo di distinzio- ne significativa, mentre è precisamente questo ciò che ho evidenziato alla luce della interpretazione simbolica dei profili maschile e femminile.
6. Gender e omosessualità
Prima ho sottolineato come la “neutralità” rispetto all’educazione ses- suale esplicitamente orientata in senso eterosessuale esprima – di fatto – una educazione alla bisessualità conseguente alla indifferenza tra gli orienta- menti sessuali del tutto coerente con il “politicamente corretto”, ma non con il profilo relazionale dell’essere umano, quello che porta don Milani a dire: “I care” – “Mi interessa”, non: “Mi è indifferente”. Prima di concludere, con una sintetica riflessione relativa all’omosessualità, intendo chiarire il concetto di fondo: le persone vanno sempre rispettate – dalla prospettiva cristiana: amate – a prescindere da come praticano la sessualità. (11) Questo deve accade- re perché, in realtà, non ci sono “omosessuali” o “eterosessuali”, ma uomini e donne che praticano la sessualità, conseguentemente la loro dignità di persone è anteriore e ulteriore rispetto a qualunque valutazione morale dei loro atti che – come tali – sono sempre suscettibili di giudizio. Qualche anno fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha derubricato la omosessualità dal novero dei comportamenti patologici e questo ha indotto alcuni a dedurne la sua equiparazione all’eterosessualità. Ma è una conclusione affrettata: in realtà, quello che se ne può ricavare è che l’omosessualità viene restituita all’ambito della moralità – cioè dei comportamenti umani – e, per questa medesima ragione, viene considerata suscettibile di valutazione esattamente come ogni altra prassi.
NOTE
1 Cfr., fra i testi tradotti in italiano: J. Lorber, L’invenzione dei sessi, Milano, Il Saggiatore, 1995, che offre una panoramica efficace della “Gender Theory”.
4 Aristotele, in proposito, afferma: “la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (e, in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per espri- mere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori” (Politica, I, 2, 1253a 10-20). Secoli dopo, A. Schopenhauer riprende il concetto in questi termini: “La voce degli animali serve soltanto a esprimere la volontà nei suoi eccitamenti e movimenti; invece la voce umana serve a esprimere anche la conoscenza” (Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, Milano, Adelphi, 1993, p. 125). Analoga riflessione troviamo in E. Cassirer: “l’analisi del linguaggio mostra (…) che ogni espressione linguistica, lungi dall’essere una mera copia del mondo della sensazione o dell’intuizione che ci è dato, racchiude, invece, in sé un carattere determinato di ‘significazione’” (Filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, 1961, vol. I, p.51).
5 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit., vol. I, pp. 150-151.
6 Cfr. inoltre Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, 31.5.2004.
7 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, I, 7, 1097 b 25.
8 Pindaro, Pitica, II, 131.
9 Cfr. C. Atzori, Il binario indifferente. Uomo e donna o GLBTQ?, SugarCo, Milano 2010.