Negli ultimi tempi accade frequentemente di incontrare un termine inglese a cui non eravamo abituati, ma che è destinato ad occupare stabilmente le cronache, almeno fino a quando non ci sarà una sufficiente presa di coscien- za in merito al suo significato ideologico. (1)  In questo breve intervento, dopo averne richiamato i tratti salienti, vorrei mettere a fuoco la sfida educativa connessa al Gender e prospettarne il superamento correlato alla risemantiz- zazione dei profili maschile e femminile.
 

1. Origini e significato della “Gender Theory”

La “Gender Theory” ha sullo sfondo – in particolare – due vettori culturali, con peculiarità proprie, ma accomunati dalla medesima aspirazione emancipazionista. Il primo è costituito dalle lotte in favore dei
diritti civili condotte negli USA con lo scopo di superare la segregazione razziale ossia la discriminazione alimentata dai pregiudizi circa l’inferiorità delle appartenenze etniche minoritarie, soprattutto quella di colore, rispetto al prevalente gruppo “wasp”(white/anglo-saxon/protestant – bianco/anglo- sassone/protestante). Il termine, a cui occorre prestare attenzione, è “discriminazione” perché costituisce il punto di convergenza con l’altro vettore culturale – prevalente europeo, almeno nei suoi inizi – quello relativo alla emancipazione femminile. La saldatura tra i due indirizzi è avvenuta attraverso la “Contestazione” ossia il passaggio culturale che – tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta – ha messo in discussione la socie- tà tradizionale e ha introdotto in un nuovo orizzonte di civiltà, quello in cui ci troviamo oggi.
In particolare, è stata la cosiddetta “rivoluzione sessuale” (2) a riscrivere l’immaginario pubblico e privato nel momento in cui l’istituzione che da tempo reggeva l’ordine sociale – la famiglia come nucleo generato dal matri- monio tra un uomo e una donna – è diventata il bersaglio privilegiato di una campagna (fortemente sostenuta dai media) che le ha attribuito la responsabilità principale circa la perpetuazione delle discriminazioni: quella razziale collegata all’accettazione dell’“ordine sociale” basato sull’esistenza del padrone e del servo, quella femminile collegata all’accettazione dell’“ordine culturale” basato sull’esistenza del “capo famiglia” e della “donna di casa”. Sul piano ideologico un ruolo fondamentale l’ha giocato la concezione mar- xista della storia che, interpretando l’esistente alla luce della “lotta di classe”, ha introdotto in una prospettiva secondo cui la differenza è conseguente alla discriminazione e postula la contrapposizione conflittuale per essere risolta e restituita all’equità. Questo tipo di approccio è confermato dalla logica di “sospetto” con cui gli autori della “Gender Theory” affrontano l’argomento, pienamente convinti di quello che scrive J. Butler ossia che “Il genere è una norma che viene creata a servizio di altri tipi di regola”. (3) Come respingere ed evitare tutto questo? La via d’uscita è stata identificata nella cancellazione della differenza stessa e questo ha condotto alla “Gender Theory” odierna. Infatti, la prospettiva con cui facciamo i conti, muove da una aspirazione chiara (e condivisibile): togliere di mezzo la discriminazione tra uomo e donna. Sennonché questa meta è perseguita attraverso la cancellazione della differenza tra uomo e donna (il cosiddetto “Poli- tically Correct”) che risulta devastante sui piani antropologico, culturale e pedagogico. È su questo che intendo ora portare l’attenzione.
 

2. L’incongruenza della “Gender Theory” rispetto all’antropologia

La teoria del Gender mira a rimuovere qualunque discriminazione tra uomo e donna attraverso la cancellazione della differenza tra “maschile” e “femminile”. Questa infatti viene ricondotta, per un verso, alla distinzione anatomo/fisiologica (“Sex”); per l’altro, alla conseguenza di pratiche/convenzioni socioculturali (“Gender”). Il primo significato è considerato obiettivo, ma ovviamente irrilevante per quanto concerne gli orientamenti etico- pedagogici in quanto risponde al mero criterio della funzionalità; il secondo – ri(con)ducendo tutto alla convenzione – permette di mettere tutto in discussione senza riconoscere che vi sia alcunché di originario, per questa stessa ragione: orientativo. Si tratta di una strategia coerente: se tutto può essere messo in discussione, allora anche le prassi discriminatorie sono suscettibili di critica e di una ridefinizione che le porti a mutare. Ma il prezzo da pagare? C’è congruenza tra questa aspirazione e la cancellazione di qualunque significato originario dell’essere maschio o femmina che vada oltre la pura descrizione del “Sex”? La cosa appare tanto più sorprendente se facciamo caso a questo. La specie umana è l’unica specie animale che si interroga sul significato (e sul correlato valore) di ciò che la riguarda. Già Aristotele, riflettendo sulla peculiarità della parola umana rispetto al linguaggio animale, nota che la prima non si limita – come il secondo – a corrispondere alla percezione di piacere oppure sofferenza perché valuta l’azione e la situazione corrispondenti: infatti, la parola “bene” può essere associata anche ad una situazione che genera sofferenza se è valutata positiva- mente esattamente come la parola “male” può essere associata anche a una situazione che genera piacere se viene valutata negativamente. (4) Possibile che, per quanto concerne il nostro profilo sessuato, dobbiamo abbracciare una disposizione avalutativa? Sarebbe in piena controtendenza rispetto a ciò che ci identifica e che – di fronte alle cose – ci porta a domandare perché? e non soltanto come?

C’è poi almeno un’altra considerazione da fare. L’essere umano è strutturalmente relazionale e il pensiero filosofico – soprattutto nel XX secolo – lo ha declinato secondo svariate modalità. Ne parlano – benché in modo diverso – sia la concezione cristiana attraverso il concetto di persona sia quella esistenzialistica relativamente al nesso Io-Tu sia quella marxista quando analizza il collettivo sia quella liberale quando – riconoscendo l’esistenza della comune natura umana – codifica i diritti dell’uomo… Qual è l’esigenza implicitamente contenuta nel riconoscimento della relazione interperso- nale, cioè del rapporto tra l’identità e l’alterità? Che ci sia differenza perché la relazione – per essere riconosciuta e praticata – postula il rifiuto della indif- ferenza. Ma è precisamente quest’ultima ciò che viene tematizzato nella “Gender Theory” attraverso il “Politically Correct”: che ci sia indifferenza tra l’essere maschio e l’essere femmina – una profonda contraddizione rispetto a quanto ci connota strutturalmente .
Stando così le cose, è essenziale procedere ad una revisione che persegua l’obiettivo della rimozione della discriminazione basata sull’essere maschio e sull’essere femmina in modo diametralmente opposto rispetto alla teoria del Gender la cui incongruenza rispetto alla realtà ne mostra il carattere ideologico. Più avanti riprendo questa riflessione, ora proseguo mettendo sul tappeto un’argomentazione culturale tesa a confutare in radice la lettura che la “Gender Theory” fornisce dei profili sessuali.
 
3. L’insufficienza culturale della teoria del Gender
La “Gender Theory” sostiene che – a parte il significato anatomo/fisiologico dell’essere maschio e dell’essere femmina – nulla si può dire sul dimorfismo sessuale che non dipenda da una convenzione socioculturale. Se le cose stessero così, è vero che sarebbe destituita di credibilità qualunque teoria/prassi discriminatoria (in quanto costitutivamente rinegoziabile), ma sarebbe altrettanto vero che diventerebbe impossibile fondare la pratica educativa su riferimenti credibili, senza contare – l’ho considerato all’interno del paragrafo precedente – che l’indifferenza andrebbe contro la strutturale relazionalità dell’essere umano.
Ritengo tuttavia che sia discutibile proprio l’assunto di fondo, secondo cui non ci sarebbe – per quanto attiene alle identità maschile e femminile – alcun significato metaculturale. Sostengo questa convinzione attraverso un’argomentazione ricavata dall’antropologia culturale. Lo studio delle tradizioni culturali correlate alle mitologie antiche fa incontrare frequentemente un mito delle origini che ricorre in culture molto diverse. Si tratta della riconduzione dell’origine della vita all’incontro tra la Terra-Madre e il Cielo-Padre, di cui permane una traccia linguistica – sia nelle lingue latine che in quelle nordiche, per quanto concerne la tradizione europea – riconoscibile nel fatto che gene- ralmente il termine “terra” è femminile, mentre il vocabolo “cielo” è maschile. Che cosa hanno fatto i nostri lontani antenati quando hanno elaborato questo tipo di spiegazione? Hanno dato una lettura simbolica del loro essere sessuati come maschi e come femmine. Infatti, tra l’accadere della copula tra uomo e donna, e l’esistere – fianco a fianco – di terra e cielo non c’è nulla di simile sul piano descrittivo. L’affinità è riconosciuta nel generare la vita: que- sto spiega la proiezione dell’unione sessuale sui fattori ambientali. Da questa osservazione possiamo ricavare due elementi fondamentali. Anzitutto che l’interpretazione offerta dal mito in parola esprime l’oltrepassamento del puro e semplice accostamento descrittivo alla sessualità. Questo significa che i nostri progenitori hanno letto simbolicamente la loro sessualità oltrepassando il livello puramente descrittivo del loro essere maschio e femmina. Che cos’è, infatti, un simbolo? Lo spiega bene Cassirer: “Nessun animale arriva fino al punto in cui si compie la caratteristica trasformazione del movimento prensile in gesto indicativo. L’’afferrare a distanza’, come viene denominato l’accennare con la mano, anche negli animali più evoluti non è andato oltre il primo e imperfetto abbozzo iniziale. Già da questo fatto della storia dell’evoluzione risulta che in questo ‘afferrare a distanza’ si trova nascosto un tratto di tipico e universale significato spirituale. È questo uno dei primi passi con cui l’io che sente e che desidera allontana da sé il contenuto rappresentato facendone in tal modo per la prima volta un ‘oggetto’, un contenuto ‘oggetti- vo’. (…) L’afferrare fisico-sensibile diventa interpretazione sensibile, ma in quest’ultima vi è già il primo spunto per una superiore funzione significativa quale si manifesta nel linguaggio e nel pensiero”. (5)  Il simbolo è ciò che unifica realtà diverse (dal verbo greco symballo, “metto insieme”) non fermandosi alla descrizione pura e semplice dei fatti. Questo significa che l’essere umano – di fronte al dimorfismo sessuale – non si è limitato a restituirlo in chiave meramente funzionale, ma l’ha decodificato attribuendogli un significato orientan- te al di là della sua configurazione strumentale.
A questo è collegata la seconda considerazione che intendo fare. Questo tipo di interpretazione si è espresso in epoca arcaica e in luoghi molto distan- ti tra loro: quale spiegazione ne può dare la “Gender Theory”? Solamente questa: che si tratta del costituirsi contemporaneo della medesima conven- zione socio-culturale, ma è credibile? Possiamo invocare la casualità per spiegare il costituirsi di una interpretazione ricorrente e complessa come questa? Non credo: ritengo che questo tipo di spiegazione lo respingeremmo in qua- lunque altro ambito e non vedo perché dovremmo accoglierlo in questo. L’alternativa che propongo è la seguente: riconoscere nel costituirsi di questo mito delle origini l’emergere di un costrutto antropologico profondo (per certi versi, analogo al tabù dell’incesto come ne parla Levi-Strauss) costituente la base su cui poggiano le stesse convenzioni socioculturali che, quindi, esi- stono e vanno valutate (come sostiene la teoria del Gender), ma non esauri- scono totalmente l’ambito semantico relativo alla sessualità umana. Questa, al contrario, può riconoscere una base comune in quanto metaculturale, su di essa è possibile fare leva sia per semantizzare l’essere uomo e l’essere donna sia per ispirare l’educazione sessuale ossia l’educazione a diventare uomo e a diventare donna. Su questo ora intendo soffermarmi.
 

4. La risemantizzazione delle identità maschile e femminile

La motivazione che guida gli esponenti della “Gender Theory” è condi- visibile: vincere qualunque discriminazione tra uomo e donna. Invece la interpretazione che forniscono e la strategia conseguente sono del tutto improprie. La ricchezza simbolica delle identità maschile e femminile non può essere ri(con)dotta alla pura convenzione socioculturale non perché questa non esista, ma perché esiste in dipendenza da una identità antropolo- gica originaria (che ho richiamato attraverso la lettura simbolica della propria sessualità che ha portato i nostri progenitori ad attribuire l’esistenza delle cose all’unione tra il Cielo-Padre e la Terra-Madre) e – per questa ragione – transculturale. Occorre quindi procedere in direzione diversa, pur ricono- scendo il problema posto dalla “Gender Theory” la cui soluzione però non deve comportare il sacrificio della peculiare connotazione relazionale del- l’essere umano. È quello che intendo fare ora.
Dall’argomentazione precedente possiamo ricavare che le polarità maschile e femminile:
a) sono suscettibili di una interpretazione simbolica che va oltre il piano descrittivo;
b) possono essere ricondotte – relativamente al loro significato – ad un costrutto originario che permette di valutare e orientare le convenzioni socioculturali.
Come possiamo dare un significato alle loro differenze alternativo al livellamento perseguito dal “politicamente corretto”? Le possiamo interpre- tare come alterità fatte per incontrarsi ed esprimere comunione. Uomo e donna, in quanto persone, sono fatti per incontrarsi e vivere la relazione reciproca, quindi per esprimere non indifferenza, ma la differenziazione che sostanzia l’incontro tra alterità. Del resto, senza differenziazione non c’è nemmeno identità. Ma proprio questo accade quando si annulla lo spessore simbolico della condizione sessuata, il cui riconoscimento è essenziale anche allo scopo di orientare la pratica educativa.
L’indagine relativa ai profili maschile e femminile prende forma dalla configurazione più esplicita dell’“essere uomo” e dell’’“essere donna” consistente nel diventare padre e madre, con una priorità di quest’ultima condizione sulla precedente perché – sul piano fenomenologico, cioè di come viene percepito il nostro venire al mondo – la prima esperienza di relazione tutti l’abbiamo con nostra madre. Che cosa connota la maternità? Essenzialmente l’identità con il diverso, la disposizione alla comunione con l’alterità. Questo significa che il “genio femminile” – come lo chiama Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem (15.8.1988) – si esplica essenzialmente nella capacità di comporre ciò che è separato. (6)  Non è casuale – sul piano storico – che il Novecento sia contemporaneamente il secolo in cui la donna ha conseguito la maggiore esposizione pubblica e quello in cui la pace è diventata il riferimento comune rispetto alla guerra, considerata un fenomeno “eccentrico”. È il contrario di ciò che si è pre- valentemente professato prima – sin dai Romani che ritenevano che si doves- se preparare la guerra per perseguire la pace (“Si vis pacem, para bellum”) – ossia che la pace fosse un fenomeno “residuale”… Ritengo che si tratti di un effetto positivo del contributo femminile alla società.
Se questo connota la femminilità che cosa possiamo associare alla mascolinità? La paternità si esplica in forma speculare rispetto alla maternità: non comunione ma separazione, non identità ma alterità, non identificazione ma differenziazione. Così accostato, il profilo maschile appare connotato dalla tensione e dalla distinzione, più conflittuale e oppositivo che comunionale e unitivo. Ma non per questo meno essenziale: una cultura nella quale venisse rimosso il vettore maschile/paterno sarebbe condannata alla indifferenza, all’omologazione e alla indeterminatezza; problemi contrari avrebbe una cultura nella quale il “genio femminile” non potesse esprimersi compiutamente: andrebbe incontro alla divaricazione, alla lacerazione, alla dissolu- zione. Si tratta, evidentemente, di un difficile equilibrio, sempre precario anche perché dipende dall’esercizio della libertà umana. Inoltre, occorre puntualizzare che – trattandosi di un significato di fondo – non esaurisce l’identità di uomini e donne nella loro singolarità che risente anche delle variabili congiunturali legate a luoghi, tempi, esperienze… Il profilo che sto tratteggiando, va assunto secondo la logica “idealtipica” weberiana che abbraccia una pluralità di “tipi” concreti riconducendoli a uno schema “ideale” comune ricavato dilatando un tratto che non pretende di rappre- sentare compiutamente i soggetti concreti che lo condividono solo in parte. Permette tuttavia di orientare in una direzione, la qual cosa è essenziale sul piano pedagogico.
 

5. Educazione sessuale e sfida pedagogica

Tutto ciò che riguarda la vita umana è passibile di descrizione, ma non si può mai esaurire in chiave descrittiva. Infatti, essendo l’essere umano libero, lo identifica un intrinseco dinamismo che non si esprime mai in forma puramente funzionale perché è sempre collegato alla domanda in merito al senso cioè alla direzione che va imboccata liberamente cioè oltrepassando il quadro deterministicamente configurato dai condizionamenti. Questo vale anche rispetto alla sessualità umana che domanda un orientamento e non semplicemente una descrizione fenomenica: in questo consiste l’educazione sessuale che – interpretando il “dato” come “mandato” – respinge il puro e semplice assecondamento delle pulsioni che appiattirebbe la sessualità umana su quella animale. Essere liberi infatti significa non limitarsi a reagire agli stimoli (come accade a qualunque animale), ma saper agire ossia essere assertivi, riconoscere significati e praticare comportamenti che esprimono il “governo di sé”. Ho già colto il limite antropologico della “Gender Theo- ry” nel riconoscere l’unico significato originario della sessualità nella descrizione anatomo/fisiologica. Si tratta – a maggior ragione – di un limite anche sul piano pedagogico perché offre come unico orientamento quello della funzionalità che è tipico dell’animale, ma non della persona. Quando Aristotele osserva che l’érgon – cioè il compito dell’uomo – consiste nell’agire “bene”, associa l’espressione all’agire del “saggio” che rimanda ad una dimensione etico-pedagogica, prima che tecnico-descrittiva. (7)
Dal momento che l’educazione è una pratica prospettica e orientativa, cioè che guarda al futuro, risulta chiaro che non può assumere un profilo “neutrale”. Non si esplicita infatti nell’assecondamento dell’esistente, ma nella sua interpretazione come sfida che rimanda a uno sviluppo: per questa ragione le è stata spesso associata l’espressione di Pindaro: “Divieni ciò che sei”. (8)  Il dinamismo educativo porta alla manifestazione delle potenzialità che domandano però sempre l’adesione intenzionale di colui che cresce. Per quanto concerne l’identità sessuale, il bambino e la bambina vengono orientati a diventare uomo e donna alla luce del riconoscimento delle peculiarità maschile e femminile che prima ho identificato prendendo le mosse dalla lettura simbolica del dimorfismo sessuale. Sappiamo come non ci sia sempre la piena identificazione tra identità sessuale fenotipica e identità sessuale percepita, in coerenza con l’“idealtipo” come prima l’ho connotato. Ma questo è sufficiente per destituire di credibilità l’associazione alla identità maschile oppure femminile in coerenza con il corpo sessuato? Così sostiene la “Gender Theory” secondo la quale ogni identificazione è aleatoria, ma – se dovessimo assumere il criterio dell’autopercezione come dirimente in merito alla identificazione – tutto diventerebbe non solo incerto, ma variabile in coerenza con le fluttuazioni della conoscenza di tipo percettivo. Per questa ragione respingo la moltiplicazione dei generi, oggi divulgata dalla “Gender Theory”, mantenendo l’idea che siano solo i due tradizionalmente accolti: quello maschile e quello femminile (9)  – non possiamo estendere ciò che si può verificare in pochi casi (ad esempio, nell’ermafrodito) all’universo dei soggetti in questione –. Già Aristotele identificava la “verità pratica” associandola a ciò che accade “per lo più”, (10)  in considerazione del fatto che il mondo della prassi risente di variabili che non permettono mai di avere una totale corrispodenza tra ciò che viene riconosciuto come orientativo e ciò che di fatto acca- de. D’altro canto, se si abbraccia una prassi educativa – per ciò che riguarda la sessualità – dove non si distingue più tra tendenze diverse, ciò che accade è educare surrettiziamente alla bisessualità: un esito totalmente discutibile per il fatto che tratta il dimorfismo sessuale come se fosse privo di distinzio- ne significativa, mentre è precisamente questo ciò che ho evidenziato alla luce della interpretazione simbolica dei profili maschile e femminile.
 

6. Gender e omosessualità

Prima ho sottolineato come la “neutralità” rispetto all’educazione ses- suale esplicitamente orientata in senso eterosessuale esprima – di fatto – una educazione alla bisessualità conseguente alla indifferenza tra gli orienta- menti sessuali del tutto coerente con il “politicamente corretto”, ma non con il profilo relazionale dell’essere umano, quello che porta don Milani a dire: “I care” – “Mi interessa”, non: “Mi è indifferente”. Prima di concludere, con una sintetica riflessione relativa all’omosessualità, intendo chiarire il concetto di fondo: le persone vanno sempre rispettate – dalla prospettiva cristiana: amate – a prescindere da come praticano la sessualità. (11)  Questo deve accade- re perché, in realtà, non ci sono “omosessuali” o “eterosessuali”, ma uomini e donne che praticano la sessualità, conseguentemente la loro dignità di persone è anteriore e ulteriore rispetto a qualunque valutazione morale dei loro atti che – come tali – sono sempre suscettibili di giudizio. Qualche anno fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha derubricato la omosessualità dal novero dei comportamenti patologici e questo ha indotto alcuni a dedurne la sua equiparazione all’eterosessualità. Ma è una conclusione affrettata: in realtà, quello che se ne può ricavare è che l’omosessualità viene restituita all’ambito della moralità – cioè dei comportamenti umani – e, per questa medesima ragione, viene considerata suscettibile di valutazione esattamente come ogni altra prassi.

Non è possibile chiarire univocamente l’origine della omosessualità. Le principali teorie che si sono divise il campo – quella genetica e quella ambientale – non sono riuscite a conseguire esiti univoci. Infatti abbiamo gemelli monozigoti (ossia con il medesimo patrimonio genetico) che pratica- no comportamenti diversi, esattamente come questo accade a soggetti cresciuti nello stesso ambiente. Una cosa però la possiamo affermare alla luce del riscontro storico: che – almeno sul piano simbolico – la omosessualità tende a diffondersi in correlazione alla diffusione di un immaginario che la equipara all’eterosessualità. Questo possiamo ricavare dalle fonti documen- tarie antiche – greche e della romanità grecizzata –. Per questa ragione, quando si parla di equiparare queste pratiche (come nel caso del cosiddetto “matrimonio gay”) mettendo davanti l’esigenza di ordinare situazioni esi- stenti, non bisogna dimenticare che l’eventuale decisione di rivedere la pras- si oggi vigente non riguarda solo le situazioni pratiche, avendo anche rica- dute sulla mentalità e sul comportamento.
Ritengo, quindi, che ci voglia cautela e che non ci si debba lasciar fuor- viare da motivazioni di tipo funzionale che non tengono nel dovuto conto l’insieme delle questioni sollevate. Il riconoscimento delle originalità maschile e femminile conduce a respingere l’appiattimento su una generica “neutralità” professato dal “Politically Correct” esattamente come il misco- noscimento del significato antropologico della sessualità perseguito dalla “Gender Theory”. L’inderogabilità della educazione sessuale volge nella direzione di riconoscere il carattere orientativo della prassi eterosessuale, coerente con l’esistenza dei due generi, fatto salvo il rispetto e l’amore che vanno espressi verso tutti per il fatto che sono uomini e donne, cioè persone connotate da una dignità inalienabile al di là delle loro condotte, escluden- do evidentemente quelle che implicano violenza o sopraffazione. Così acco- stata, l’omofobia va decisamente respinta (come ogni altra “fobia”), ma non può diventare il “cavallo di troia” attraverso il quale passa il livellamento delle pratiche sessuali su una grigia indifferenza che è radicalmente incoe- rente con il profilo strutturalmente relazionale della persona la quale domanda sempre il riconoscimento della “alterità”, cioè della “differenza”, nell’ottica di una comunicazione e – conseguente – comunione che sa “distinguere per unire”, come dice Maritain.
 

NOTE

1 Cfr., fra i testi tradotti in italiano: J. Lorber, L’invenzione dei sessi, Milano, Il Saggiatore, 1995, che offre una panoramica efficace della “Gender Theory”.

2 Cfr. il volume di W. Reich La rivoluzione sessuale, risalente agli anni Trenta, ma pubblicato in Italia nel 1972 (Milano, Feltrinelli). Sono stati rilevanti, in ordine a questa tematica, i cosiddet- ti “Rapporti Kinsey” (Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948; Il comportamento sessuale della donna, 1953) tradotti in italiano: Milano, Bompiani, 1955.
3  J. Butler, La disfatta del genere, Roma, Meltemi, 2006, p. 81.

4  Aristotele, in proposito, afferma: “la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (e, in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per espri- mere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori” (Politica, I, 2, 1253a 10-20). Secoli dopo, A. Schopenhauer riprende il concetto in questi termini: “La voce degli animali serve soltanto a esprimere la volontà nei suoi eccitamenti e movimenti; invece la voce umana serve a esprimere anche la conoscenza” (Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, Milano, Adelphi, 1993, p. 125). Analoga riflessione troviamo in E. Cassirer: “l’analisi del linguaggio mostra (…) che ogni espressione linguistica, lungi dall’essere una mera copia del mondo della sensazione o dell’intuizione che ci è dato, racchiude, invece, in sé un carattere determinato di ‘significazione’” (Filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, 1961, vol. I, p.51).

5 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit., vol. I, pp. 150-151.
6 Cfr. inoltre Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, 31.5.2004.
7 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, I, 7, 1097 b 25.
8 Pindaro, Pitica, II, 131.
9 Cfr. C. Atzori, Il binario indifferente. Uomo e donna o GLBTQ?, SugarCo, Milano 2010.

10 Cfr. Aristotele, Metafisica, VI, 2, 1026b 25-35.
11 Cfr Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali, 1.10.1986.
GIUSEPPE MARI, Ordinario di Pedagogia generale (Università Cattolica del Sacro Cuore), Rivista Lasalliana 81 (2014) 3, 389-398