Europa Il bene primario è vivere insieme
di Angelo Scola*

Per uscire dal vicolo cieco in cui l’Europa sembra essere caduta, Milano e la Lombardia comprese, diviene necessario domandarsi se essa sia in grado di incarnare ancora un’idea politica forte, quale è stata quella che negli anni Cinquanta è riuscita ad aggregare i primi Stati membri. È necessaria una nuova visione dell’Europa che, da una parte, valorizzi quella molteplicità culturale che da sempre la caratterizza e, dall’altra, permetta agli stessi Stati di ritrovare la necessaria unità per rispondere alle sfide dei tempi, prime fra tutte l’immigrazione e la sicurezza. Ritorna così di un’attualità quasi imbarazzante il monito lanciato poco prima di morire da Jean Monnet: «Se dovessi rifare tutto quanto, comincerei dalla cultura».
Da sempre l’identità europea ha presentato tratti paradossali e quelle precedentemente descritte non sono certo le prime emergenze con cui si è trovata a fare i conti. Se, da una parte, la storia del nostro continente fa emergere il dato incontrovertibile di una comune appartenenza, dall’altra è altrettanto evidente come il patrimonio condiviso da almeno 1.700 anni si sia sempre declinato in una tale pluralità di forme, di culture, di lingue da rendere assai difficile, in un certo senso, il riferimento a una qualche unità originaria.
A ogni modo, occorre riconoscere che, stante la complessità dei processi in atto, oggi nessuno Stato nazionale è in grado di affrontarli da solo: l’Europa non è un’opzione, ma una vera e propria necessità. D’altra parte sono convinto che non si possa rinunciare a un ideale comune che, in qualche modo, funga da principio unificatore e riesca a far evolvere l’incipiente declino in un benefico travaglio.
La strada percorsa all’inizio storico delle attuali istituzioni europee (con la costituzione della Ceca) individua un metodo con cui, anche nel radicalmente mutato scenario odierno, è possibile perseguire l’unità. Si tratta, inoltre, di un metodo congeniale alla storia e al temperamento dinamico e operoso dei milanesi.
Siamo chiamati a partire dalla realtà, nelle sue urgenze concrete, per lasciar emergere l’ideale. L’ideale, non l’utopia, vale a dire un senso (significato e direzione) per un cammino comune europeo. Come allora sembrava esserci sproporzione tra gli obiettivi fissati (produzione comune del carbone e dell’acciaio) e gli ideali di pace e di prosperità dell’intero continente (il carbone e l’acciaio erano la materia prima dell’industria bellica), così anche oggi servono nello stesso tempo grande realismo e grandi ideali.
In quest’ottica non basta, anche se è necessario, guardare alle radici dell’Europa che conosciamo bene. Al di là dei tanti innegabili apporti che nel corso dei secoli hanno contribuito a modellarne il volto – penso a Gerusalemme, Atene e Roma, fino alle istanze illuministiche di libertà e uguaglianza e a quelle moderne circa il peso del soggetto – mi sembra che elementi decisivi di queste radici possano essere oggettivamente reperiti nel nucleo del cristianesimo inteso secondo il criterio della ‘secondarietà’ individuato da Rémi Brague. Senza tener conto delle ‘implicazioni’ antropologiche, sociali e culturali contenute nella rivelazione trinitaria – dalla singolare visione della dignità della persona e dell’insuperabilità della differenza sessuale, alla concezione della libertà e del suo rapporto con la verità, fino alla salutare distinzione tra società civile e dimensione religiosa e al riconoscimento del valore della sussidiarietà e della solidarietà – è difficile dar conto di cosa intendiamo con la parola Europa. In questo quadro invece tutte le differenze etniche, nazionali e linguistiche finiscono per consolidare, non per corrodere, un patrimonio comune nel senso etimologico del termine.
Un sano rapporto tra reale e ideale come metodo per edificare una comune casa europea mostra che in Europa siamo attrezzati per affrontare l’inevitabile tensione tra identità e differenza e tra unità e pluralità che, a ben vedere, anche se con caratteri diversi, ha connotato ogni epoca. E lo siamo proprio grazie alla radice cristiana delle nostre culture. Infatti il principio della differenza nell’unità vive, per eccellenza, nel mistero della Trinità. Tale principio trapassa nella storia in forza dell’incarnazione di Gesù Cristo per diventare principio di comprensione e valorizzazione di ogni differenza, da quelle costitutive di anima- corpo, uomo-donna, individuo-società, persona-comunità, a tutte le diversità etniche, culturali e religiose.
Questo non significa che l’Europa possa, in modo quasi indolore, trovare facili accomodamenti tra i diversi soggetti in campo. Il ‘meticciato di civiltà’ è un processo e non un programma prescrittivo; ma gli europei, oserei dire soprattutto i cristiani, hanno tutti gli strumenti culturali per raccogliere la sfida della pluralità. Si tratta di ripensare gli assiomi su cui poggiano le nostre democrazie procedurali e il principio di laicità sul quale intendono reggersi. In una società plurale, per sua natura tendenzialmente conflittuale, la laicità è tale solo se crea le condizioni per garantire la narrazione di tutti i soggetti personali e sociali che la abitano, in vista del reciproco riconoscimento . Solo così è possibile una convivenza tendenzialmente armonica che generi vita buona. L’espressione «Europa famiglia di popoli», ripetuta da papa Francesco nei discorsi rivolti all’Europa, dice bene il compito storico che la attende: non un superstato né una raffinata tecnocrazia, ma una convivenza delle diversità, capace di farle collaborare e di integrarle nell’orizzonte di senso proprio di un umanesimo personalista.
Per raggiungere tale complessa armonia è necessario il riconoscimento pratico dei beni da condividere. Come già diceva Maritain nel 1947 all’Unesco, non si tratta di elaborare a tavolino un accordo tra diverse mondovisioni, è necessario dare valore politico, attraverso precise procedure, al bene sociale pratico primario del vivere insieme. Questo dato sociale deve essere elevato al rango di bene politico da tutti e promosso dalle istituzioni. Per essere fondato non richiede alcun accordo ideologico preventivo. All’interno di questo spazio, garantito a tutti, potrà esercitarsi il dinamismo del riconoscimento dialogico tra i soggetti sui singoli contenuti di valore, in un confronto, serrato e sempre aperto, tra mondovisioni diverse. Elaborando, in modo adeguato, questa comune decisione, il bene pratico politico dell’essere in società potrebbe costituire quell’universale politico che il processo di secolarizzazione nel corso della modernità ha fatto smarrire.
*cardinale, arcivescovo di Milano
 
 
Scola: le emergenze dell’Europa e il ruolo dei cristiani
di Andrea Tornielli

Gli attentati fondamentalisti nel cuore del Vecchio Continente, la Brexit e i populismi nazionalistici «ci costringono a chiederci: quale Europa vogliamo?». Ma la domanda «potrebbe essere considerata ingenua», perché ci siamo «tranquillamente assuefatti» alla crisi e siamo di fronte ad «emergenze per le quali» l’Europa «non sembra avere sufficiente pensiero, né forza politica». Per questo i cristiani sono chiamati «a partire dalla realtà per lasciar emergere l’ideale, un senso per un cammino comune europeo». Nel tradizionale discorso alla città nella vigilia della festa di sant’Ambrogio il cardinale Angelo Scola si interroga sul futuro dell’Europa e di Milano.
L’arcivescovo analizza in prospettiva storica il cammino comune europeo dal dopoguerra, notando come «la scelta di uno strumento economico per raggiungere un’integrazione anche politica nel tempo non poteva non provocare qualche disfunzione». È difficile, infatti, «non accorgersi che quella economica è rimasta la prospettiva prevalente con cui la Comunità si è progressivamente avvicinata a tutti i settori che entrano nella sua sfera d’azione». Con il Trattato di Maastricht, dice ancora il cardinale, è iniziata «una seconda tappa dell’avventura comunitaria nel processo di integrazione: raggiunto l’obiettivo del mercato unico nel 1992, si cerca ora di procedere ad integrare politiche ulteriori a quelle economiche, iniziando a intaccare il nucleo forte della sovranità nazionale. Ed ecco allora che gli ideali posti alla discussione diventano più chiaramente quelli della democrazia e dei diritti , toccando materie delicatissime, di politica estera ed interna».
Un «passo avanti», certo, ma anche una difficoltà, perché «il nuovo viene gestito secondo le regole del diritto internazionale» e «fa regredire il nobile sforzo di Europa Unita ad una – sia pur ampia e sofisticata – organizzazione internazionale». Lo sviluppo nell’integrazione all’inizio del millennio è stato soprattutto caratterizzato dalla moneta unica, ma l’assenza di comunanza politica ha determinato alla lunga la crisi che stiamo vivendo.
Scola fotografa quindi il declino dell’Europa attraverso quattro emergenze: il terrorismo, l’ondata migratoria, la crisi finanziaria e la crisi politica. Si tratta, ha osservato della punta di un iceberg «ben più imponente» e vanno considerate come «indicatori sintomatici ed interconnessi di una degenerazione progressiva e come segnali di allarme per innescare un pensiero e un’azione comuni e lungimiranti». All’ondata migratoria provocata anche dalla destabilizzazione del Medio Oriente si risponde «con un approccio reattivo e in ordine sparso»: si assiste all’«incapacità di pensare anzitutto in termini di accoglienza», e alla spinte che «vorrebbe legittimare il diritto di escludere».
Ci sono poi la crisi finanziaria che dal 2008 non allenta la sua presa, e la crisi politica. «I luoghi del potere sono oggi più diffusivi, meno identificabili, più anonimi. L’esempio dei poteri reali delle tecnologie e delle comunicazioni documenta in modo eloquente quanto profondamente ed estensivamente si siano alterati i rapporti sociali e i rapporti tra società e poteri pubblici». A queste quattro emergenze va aggiunta, per il cardinale, «la gravissima situazione demografica in cui versa il nostro paese: solo nell’ultimo quadriennio abbiamo perso il 15% dei nati. Senza decise politiche a medio e lungo termine che favoriscano radicalmente la famiglia non si vede come si possa fare fronte a questa ancora inavvertita tragedia».
È necessaria dunque, continua l’arcivescovo di Milano, «una nuova visione dell’Europa che, da una parte, valorizzi quella molteplicità culturale che da sempre la caratterizza e, dall’altra, permetta agli stessi Stati di ritrovare la necessaria unità per rispondere alle sfide dei tempi, prime fra tutti l’immigrazione e la sicurezza». Nessuno Stato nazionale è in grado di affrontare questa situazione da solo, «l’Europa non è un’opzione, ma una vera e propria necessità». E non si può rinunciare «ad un ideale comune che, in qualche modo, funga da principio unificatore e riesca a far evolvere l’incipiente declino in un benefico travaglio».
«Siamo chiamati – afferma Scola – a partire dalla realtà, nelle sue urgenze concrete, per lasciar emergere l’ideale. L’ideale, non l’utopia, vale a dire un senso (significato e direzione) per un cammino comune europeo». Servono «nello stesso tempo grande realismo e grandi ideali». È necessario guardare alle radici dell’Europa, ma «non basta». Il cardinale cita l’apporto fondamentale del cristianesimo e spiega: «Senza tener conto delle “implicazioni” antropologiche, sociali e culturali contenute nella rivelazione trinitaria – dalla singolare visione della dignità della persona e dell’insuperabilità della differenza sessuale, alla concezione della libertà e del suo rapporto con la verità, fino alla salutare distinzione tra società civile e dimensione religiosa e al riconoscimento del valore della sussidiarietà e della solidarietà – è difficile dar conto di cosa intendiamo con la parola Europa. In questo quadro invece tutte le differenze etniche, nazionali e linguistiche finiscono per consolidare, non per corrodere, un patrimonio comune nel senso etimologico del termine».
Certo, ammette il cardinale, «questo non significa che l’Europa possa, in modo quasi indolore, trovare facili accomodamenti tra i diversi soggetti in campo. Il “meticciato di civiltà” è un processo e non un programma prescrittivo; ma gli europei, oserei dire soprattutto i cristiani, hanno tutti gli strumenti culturali per raccogliere la sfida della pluralità». Si tratta – aggiunge – di «ripensare gli assiomi su cui poggiano le nostre democrazie procedurali e il principio di laicità sul quale intendono reggersi». «L’espressione “Europa famiglia di popoli”, ripetuta da papa Francesco nei discorsi rivolti all’Europa , dice bene il compito storico che la attende: non un superstato né una raffinata tecnocrazia, ma una convivenza delle diversità, capace di farle collaborare e di integrarle nell’orizzonte di senso proprio un umanesimo personalista».
Quale compito dunque per i cristiani? Occorre rivolgere loro «l’invito ad annunciare e vivere i misteri della fede cristiana quale principale contributo ad una società plurale dal volto umano. In questo senso, potremmo affermare che, nell’odierno contesto storico europeo, ripensare la forma della fede è la preoccupazione cruciale, senza la quale la possibilità di proporre a tutti le implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche dei misteri cristiani è destinata alla sterilità o, peggio ancora, a determinare non una cristianizzazione del mondo, ma una mondanizzazione del cristianesimo».
in “La Stampa-Vatican Insider” del 6 dicembre 2016