Una integrazione che non è più rinviabile visto l’accentuarsi del fenomeno migratorio che porterà verso una società plurale, interculturale e multireligiosa. Si tratta di cambiamenti inevitabili anche all’interno della nostra società, legata a un’identità europea precedentemente consolidata. È solo attraverso l’interazione autentica tra etnie e religioni, come ha sottolineato anche Bauman, e attraverso il superamento della stigmatizzazione degli “altri” gruppi sociali ritenuti per natura negativamente “diversi” da noi (i “normali”), che si potrà giungere a un’inclusione sociale e a un’integrazione vera. Ed è solo un’integrazione vera che ci porterà a superare questa fase storica così difficile, ad affrontare le nostre paure e anche le suggestioni che ne derivano.
“E’ una sfida importante e che ci riguarda tutti ma che soprattutto parla al nostro mondo, il mondo della scuola, considerato una risorsa, un motore propulsore di un percorso di integrazione che può coinvolgere positivamente l’intera società. Il 9% degli studenti italiani (a giugno 2015, 802.000 studenti di 174 nazionalità diverse e 14 religioni differenti) è rappresentato da alunni di nazionalità non italiana. Sono 300 mila, in particolare, gli studenti musulmani (+ 371% rispetto al 2001) che rappresentano il 38% del totale degli alunni stranieri. Si tratta della presenza culturale più massiccia e anche in maggiore crescita. E la nostra scuola è impegnata in Italia sempre di più su questi temi. Attraverso l’impulso del ministro Giannini, lo scorso anno è stata istituita un’apposita Commissione ministeriale proprio sul tema del pluralismo religioso nella convinzione che un’educazione alla conoscenza delle religioni di cui si compone l’Europa – storicamente luogo di grandi processi di integrazione – volta al pluralismo e al confronto, debba necessariamente essere tra le priorità del Miur.”
da: http://www.dire.it/30-03-2016/45952-le-sfide-del-pluralismo-religioso-ruolo-propulsore-della-scuola/
“E’ una sfida importante e che ci riguarda tutti ma che soprattutto parla al nostro mondo, il mondo della scuola, considerato una risorsa, un motore propulsore di un percorso di integrazione che può coinvolgere positivamente l’intera società. Il 9% degli studenti italiani (a giugno 2015, 802.000 studenti di 174 nazionalità diverse e 14 religioni differenti) è rappresentato da alunni di nazionalità non italiana. Sono 300 mila, in particolare, gli studenti musulmani (+ 371% rispetto al 2001) che rappresentano il 38% del totale degli alunni stranieri. Si tratta della presenza culturale più massiccia e anche in maggiore crescita. E la nostra scuola è impegnata in Italia sempre di più su questi temi. Attraverso l’impulso del ministro Giannini, lo scorso anno è stata istituita un’apposita Commissione ministeriale proprio sul tema del pluralismo religioso nella convinzione che un’educazione alla conoscenza delle religioni di cui si compone l’Europa – storicamente luogo di grandi processi di integrazione – volta al pluralismo e al confronto, debba necessariamente essere tra le priorità del Miur.”
da: http://www.dire.it/30-03-2016/45952-le-sfide-del-pluralismo-religioso-ruolo-propulsore-della-scuola/
Il passaggio verso una società plurale, interculturale e multi religiosa è un processo inarrestabile che si accentuerà nei prossimi anni. Sonio molto interessanti le percentuali sopra riportate.
La scuola deve farsi carico dell’educazione religiosa perché costituisce un passaggio obbligato verso una nuova cultura capace di affrontare il confronto con il pluralismo.
Sarebbe utile e interessante comunicarci le esperienze che in questo senso si stanno facendo nei diversi contesti educativi e scolastici.
Potremmo intanto rispondere a questi interrogativi:
Quali difficoltà incontriamo?
Come stiamo rispondendo?
Quali buone pratiche sono risultate efficaci?
“Il pluralismo religioso nelle scuole c’e’ e non va inventato”. Lo ha detto a margine del convegno‘ Scuola e pluralismo religioso’ all’istituto Leopoldo Montini di Campobasso, il professor Alberto Melloni, docente dell’Universita’ di Modena e Reggio Emilia e studioso del Cristianesimo e delle religioni. “La scuola e’ il luogo nel quale storicamente si incontrano le differenze: di classe, ideologiche e, oggi, anche religiose. Se noi non inseriamo il sapere in questo contesto- ha aggiunto il professore- noi ci troveremo ad essere dominati dalle paure”. E la paura “e’ una cattiva consigliera e fa prendere quasi sempre decisioni sbagliate”. Piu’ che ore di religione, secondo Melloni, nelle scuole e’ necessario “inserire una quantita’ di conoscenza maggiore nell’insieme del percorso scolastico. Non e’ un’oretta aggiunta qua o la’ che puo’ servire”. Servono, quindi, insegnanti “piu’ capaci a mostrare i contenuti che ci sono nei nostri programmi: insegnare ai bambini, ad esempio che lo zero, e’ un numero arabo e se non piace l’Islam, devono imparare a contare senza lo zero e’ molto difficile”, oppure “imparare che l’interpretazione e’ una virtu’ ebraica e se non piace l’ebraismo sara’ complicato imparare qualsiasi cosa”. E ancora, “la pazienza e’ una virtu’ cristiana”.
Panebianco insegna sistemi internazionali comparati presso la facoltà di scienze politiche dell’università di Bologna. Non è cattolico. È di impostazione teoretica liberale.
E sono questi i principi che definisce “non negoziabili”:
– “la laicità, a sua volta fondata sulla capacità di distinguere fra il sacro e il profano, fra il regno di Dio e il regno di Cesare”;
– “l’uguaglianza giuridica fra gli individui a prescindere da sesso, religione o altro”,
– “il principio della libertà individuale”.
Questi principi secondo Panebianco costituiscono “l’anima” dell’Europa. E l’Europa dovrebbe difenderli “con particolare accanimento” quando “si andrà a negoziazioni aperte o tacite con le comunità musulmane immigrate”, negoziazioni a cui “ci si andrà senz’altro”, dato che “solo le comunità musulmane possiedono le risorse culturali per riportare alla ragione tutti quei loro giovani (ma non solo) che oggi simpatizzano per l’estremismo”.
Altro che multiculturalismo. Nel negoziare “occorrerà pronunciare degli inequivocabili ‘no’ di fronte alle eventuali richieste, se non di sospendere, quanto meno di attenuare la validità e l’applicabilità di tali principi in presenza di cittadini musulmani”.
Ricorrono i 35 anni di Servizio del centro Astalli dei Gesuiti per i rifugiati in Italia. Il rapporto 2016 del centro Astalli descrive i numeri dell’accoglienza dello scorso anno: 21mila nella sede di Roma, che diventano 36mila se si considerano le sette sedi dell’associazione, con la distribuzione in dodici mesi di 70mila pasti, cioè 250 al giorno. Tutto grazie alla passione di 554 volontari, 17 giovani del servizio civile, 49 operatori professionali e a 2,8 miliardi di impegno economico complessivo; finanziamenti per il 25% raccolti grazie alla generosità dei privati. L’impegno di 14 congregazioni religiose inoltre – diventeranno 23 quest’anno – sono diventate nella Capitale «comunità di ospitalità» per 70 persone.
La sfida più grande da vincere per l’Italia resta l’accoglienza, ancor più di fronte all’aumento del numero dei profughi che hanno raggiunto le nostre coste – 153mila a fine 2015 – e all’aumento conseguente delle domande d’asilo. Poco meno di 84mila, infatti, le richieste di protezione presentate nel corso dell’anno, con un incremento di circa 20mila domande rispetto al 2014 (+30%).
«I migranti sono un dono, non un peso» di papa Francesco e Alessia Guerrieri
in “Avvenire” del 20 aprile 2016
La visita del Papa a Lesbo lo scorso 16 aprile è stata in tal senso l’occasione per lanciare un appello al mondo intero e in particolare all’Europa. Parlando ai migranti e ai rifugiati, provenienti in gran parte dalla Siria lacerata dal conflitto, Francesco ha affermato: «Voglio dirvi che non siete soli. In questi mesi e settimane, avete patito molte sofferenze nella vostra ricerca di una vita migliore. Molti di voi si sono sentiti costretti a fuggire da situazioni di conflitto e di persecuzione, soprattutto per i vostri figli, per i vostri piccoli. Avete fatto grandi sacrifici per le vostre famiglie. Conoscete il dolore di aver lasciato dietro di voi tutto ciò che vi era caro e – quel che è forse più difficile – senza sapere che cosa il futuro avrebbe portato con sé».
A parlare è un uomo che comprende il dolore, che s’immedesima nella condizione dello sradicamento e in quella forse ancor più gravosa della sfida costituita dalle incognite dell’immediato futuro. È però anche la voce del Pastore che risveglia le coscienze assopite: «Sono venuto qui con i miei fratelli, il Patriarca Bartolomeo e l’Arcivescovo Ieronymos,… per stare con voi e richiamare l’attenzione del mondo su questa grave crisi umanitaria e implorarne la risoluzione. Come uomini di fede, desideriamo unire le nostre voci per parlare apertamente a nome vostro. Speriamo che il mondo si faccia attento a queste situazioni di bisogno tragico e veramente disperato, e risponda in modo degno della nostra comune umanità». Il fondamento di quest’appello accorato è l’appartenere tutti alla stessa famiglia umana: «Dio ha creato il genere umano perché formi una sola famiglia; quando qualche nostro fratello o sorella soffre, tutti noi ne siamo toccati. Tutti sappiamo per esperienza quanto è facile per alcune persone ignorare le sofferenze degli altri e persino sfruttarne la vulnerabilità. Ma sappiamo anche che queste crisi possono far emergere il meglio di noi».
Il richiamo è alla grande casa europea, che sta mostrando da una parte segnali di straordinaria generosità e accoglienza, dall’altra chiusure tristi e grette, tendenti a difendersi dall’altro come fosse un pericolo o un danno. Parole chiare, dirette, di fronte alle quali non si può essere sordi, pena il fallimento della propria umanità: riusciranno a capirlo i grandi dell’Europa unita?
Ma non è il caso di fare il processo all’Austria attuale, bensì di imparare, prima che sia troppo tardi, la lezione che essa oggi ci dà. È impressionante che lo straordinario successo dell’estrema destra abbia avuto luogo in un Paese tranquillo, in cui le forze politiche che lo hanno governato danno tutte le garanzie di pacifica stabilità: il Partito popolare cristiano-sociale è una tipica forza moderata che ha avuto e dovrebbe aver la fiducia dei cittadini giustamente amanti dell’ordine e della sicurezza e il partito socialista è completamente scevro di ogni immaturità barricadiera, di ogni prurito rivoluzionario e di ogni ingenuità sentimentale. Si tratta di due partiti che, da soli o coalizzati offrono l’immagine di una politica concreta, realista, non vagamente emotiva anche nei confronti del tremendo problema dell’immigrazione. Se sono stati sconfitti così clamorosamente, ciò significa che il pericolo di un’Europa barbarica è reale e che questo campanello d’allarme austriaco va ascoltato e non semplicemente e moralisticamente deplorato.
L’Europa di oggi sembra assomigliare progressivamente a quella degli ultimi anni Venti, con le crescenti insicurezze d’ogni genere, lo spettro e la realtà della disoccupazione, l’assenza di ogni progetto del futuro, la debolezza delle organizzazioni e istituzioni internazionali, a cominciare dall’Unione Europea. Tanti decenni fa quella crisi ha creato, in molti Paesi d’Europa, regimi terroristici, tirannici e populisti di ogni genere, mentre a Oriente si consolidava il terrore sovietico.
All’origine della violenza c’è spesso la paura, come oggi la paura dell’immigrazione che pure, entro precisi ma ampi limiti, è necessaria in un’Europa sempre più vecchia e sempre più povera di figli e dunque pure di forza lavoro.
La paura dell’immigrazione nasce certo da stolidi e feroci pregiudizi, che vanno combattuti e sfatati, ma anche da un problema reale, ossia dal numero dei dannati della terra, ognuno dei quali ha il diritto di vivere umanamente e non vale meno di ognuno di noi, ma il cui numero potrebbe diventare materialmente, concretamente, insostenibile, non per idioti odi razzisti ma per impossibilità oggettiva.
Conciliare la solidarietà umana e la considerazione realistica del problema sembra la quadratura del circolo. Se non sarà risolta, l’Europa di domani potrà assomigliare a quella orribile degli anni Trenta.
da, Troppo facile condannare l’Austria: ci tocca capire di Claudio Magris, in “Corriere della Sera” del 26 aprile 2016
L’ansia e le paure sul tema immigrazione – quelle stesse che hanno portato alla vittoria un partito di estrema destra, almeno al primo turno delle presidenziali in Austria – sono assolutamente comprensibili in un Paese come l’Italia che viene da 7 anni di recessione, ma non necessariamente giustificate. E questo perché fondate su una serie di pregiudizi. Il primo e più importante è che gli stranieri «tolgono lavoro agli italiani». Secondo la visione che accompagna questo slogan, bisognerebbe, prima, occupare tutti i nostri disoccupati e, poi, nel caso, fare arrivare lavoratori dall’estero. In realtà, come abbiamo spiegato più volte, non sono certo gli stranieri che hanno tolto e tolgono lavoro agli italiani, ma semmai le politiche macroeconomiche sbagliate della Ue post-crisi finanziaria. Mentre la libera circolazione dei lavoratori è invece un pilastro fondamentale per lo sviluppo sostenibile nella globalizzazione.
… questi pregiudizi rendono difficile valutare con serenità i dati di realtà. Come quelli che ci dicono che nel 2015 abbiamo perso circa 140mila italiani (come saldo negativo tra morti e nati) sostituiti da non più di 40mila immigrati. Che la differenza tra contributi versati e contributi percepiti dagli stranieri crea nelle casse dell’Inps un saldo di quasi 5 miliardi di euro pagando di fatto le pensioni di circa 600mila italiani. Che pezzi molto importanti del nostro apparato produttivo (dai distretti di Prato, alla cantieristica di Monfalcone alle filiere agricole della Puglia e della Sicilia) hanno resistito alla delocalizzazione grazie all’importazione di manodopera straniera. Che interi paesi e campagne non sono morti grazie al ripopolamento di artigiani e pastori stranieri
Integrare ci fa bene (anche al portafoglio) di Leonardo Becchetti, in “Avvenire” del 26 aprile 2016
i flussi migratori sono difficili da misurare e le stime che abbiamo a disposizione sono imperfette. I migliori dati disponibili a livello mondiale, raccolti dalle Nazioni Unite nel quadro dei World Populations Prospects pubblicati a fine 2015, consentono tuttavia di stabilire alcuni ordini di grandezza.
La prima cosa che constatiamo è che il flusso migratorio in entrata nell’Unione Europea (al netto delle uscite), fra il 2000 e il 2010 era mediamente dell’ordine di 1,2 milioni di persone per anno. La cifra può sembrare enorme, ma se la rapportiamo a una popolazione complessiva di oltre 500 milioni di abitanti, vediamo che rappresenta poco più dello 0,2 per cento annuo. In quell’epoca non remota, l’Unione Europea era la regione più aperta del mondo (il flusso migratorio negli Stati Uniti era di circa 1 milione di persone l’anno) e la questione non rappresentava un problema serio: in Europa l’occupazione cresceva e i senza lavoro diminuivano, almeno fino all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.
È questa crisi – e soprattutto le catastrofiche politiche di austerità seguite dall’Europa successivamente, che hanno provocato un’assurda ricaduta dell’attività economica nel 2011-2013 (si veda: «2007-2015: una recessione lunghissima ») – che spiega l’ascesa della disoccupazione e della xenofobia nel nostro continente, con i flussi migratori ridottisi a un terzo dei livelli precedenti, circa 400.000 ingressi all’anno dal 2010 al 2015, secondo le Nazioni Unite. Tutto ciò proprio nel momento in cui l’evoluzione della situazione geopolitica in Medio Oriente e la crisi dei profughi avrebbero richiesto un’Europa più aperta.
Europa, i migranti respinti dall’austerity di Thomas Piketty, in “la Repubblica” del 23 aprile 2016
“il pluralismo influenza credenti singoli e comunità religiose a distinguere tra il nucleo della fede e gli elementi meno centrali. Inevitabilmente l’interazione con quelli che hanno condizioni religiose diverse, specialmente laddove condividiamo un discorso secolare comune, relativizza la mia fede. Io definisco questo processo “contaminazione cognitiva”. Esso mi porta a entrare in un processo di contrattazione: posso arrivare a non ritenere essenziali alcuni degli elementi della mia fede, mentre il nucleo rimane non negoziabile. Il pluralismo mi costringe a discernere cosa veramente sta al cuore della mia fede, liberandomi dalle false enfasi su quanto è meno decisivo. Dovremmo apprezzare il modo in cui il pluralismo ci può portare a quello che, alla fin fine, veramente interessa di più per la nostra fede”.
Berger Siamo pluralisti, grazie a Dio, di Peter L. Berger, in “Avvenire” del 14 settembre 2016
Le religioni illuminano le periferie del mondo
di Gian Mario Gillio
in “www.riforma.it” del 22 settembre 2016
«All’incontro internazionale di Assisi del 18-20 settembre, uno schieramento impressionante di esponenti di varie religioni del mondo e delle varie confessioni cristiane hanno unanimemente dichiarato che mai il nome di Dio può giustificare la violenza e che solo la pace è santa, mai la guerra. Lo hanno fatto senza sincretismi e senza relativizzare le loro radici e differenze, ma sono stati capaci di pregare e impegnarsi gli uni accanto agli altri, gli uni per gli altri. Come dovrebbe avvenire in ogni luogo del mondo», così ha rilevato (sul sito ufficiale della Chiesa valdese http://www.chiesavaldese.org) il moderatore della Tavola valdese, pastore Eugenio Bernardini, tra gli ospiti di «Sete di pace – religioni e culture in dialogo»…
Il moderatore Bernardini ha preso parte alla tavola rotonda «I rifugiati ci interpellano» martedì 20 nel Teatro Metastasio e ha ricordato l’esperienza dei «Corridoi umanitari», il progetto pilota promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), dalla Tavola valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio (tra i promotori dell’incontro «Sete di pace» insieme alla Diocesi di Assisi e alle Famiglie Francescane di Assisi).
Un progetto che ha portato in Italia circa 300 profughi dal Libano in modo legale e sicuro grazie al rilascio di visti umanitari.
25 rifugiati, 10 dei quali giunti in Italia grazie ai «corridoi umanitari», hanno avuto la possibilità di partecipare al pranzo con papa Francesco nel refettorio del Convento di San Francesco … Il pastore Bernardini alla rubrica Protestantesimo di Raidue ha immediatamente ribadito l’importanza di quel pasto condiviso: «un momento importante che ha restituito ai rifugiati la loro dignità umana».
Il viaggio apostolico che il vescovo di Roma intraprende oggi per il Caucaso, terra in cui si incontrano le “periferie” di Europa e Asia, è a completamento di quello compiuto a giugno in Armenia.
Un viaggio quindi all’insegna dell’incontro e della pace e con una spiccata dimensione ecumenica e interreligiosa. Sarà la seconda volte che un Pontefice visiterà i due Paesi. San Giovanni Paolo II si recò nel 1999 in Georgia – nazione di antichissime radici cristiane e dove i cattolici sono il 2,5% – e nel 2002 in Azerbaigian, Paese a stragrande maggioranza islamica e poche centinaia di fedeli alla Chiesa di Roma. La dimensione ecumenica di questo 16° viaggio internazionale di papa Francesco si esprimerà nell’incontro con il patriarca Ilia II. Alla celebrazione eucaristica, presieduta dal vescovo di Roma, assisterà per la prima volta una delegazione della Chiesa ortodossa, ma non il patriarca, e non ci sarà una preghiera comune con il Papa. Quella georgiana è tra le Chiese ortodosse più intransigenti a ogni presunto cedimento di carattere ecumenico soprattutto se intrapreso nei confronti della Chiesa di Roma. Basti pensare che, anche per questo motivo, non ha partecipato al Grande Concilio panortodosso di Creta (dove era assente anche il patriarcato di Mosca). E basti ricordare che nel 2003 proprio per l’opposizione della Chiesa georgiana saltò all’ultimo minuto la firma di un accordo bilaterale tra Stato e Santa Sede.
Francesco in Caucaso la sfida del dialogo, di Gianni Cardinale, in “Avvenire” del 30 settembre 2016
“I giovani radicalizzati non hanno più pietà perché sono stati svuotati dell’amore”, intervista a Latifa Ibn Ziaten, a cura di Marie-Lucile Kubacki, in “www.lavie.fr” del 28 settembre 2016 (traduzione: http://www.finesettimana.org)
Latifa è la madre di Imad, assassinato a Tolosa nel marzo 2012, una delle vittime di Mohamed Merah.
Lei va dappertutto in Francia con la sua associazione per intervenire nelle scuole.
” … Oggi, ho fatto una conferenza in un istituto professionale davanti ad un centinaio di studenti e la maggior parte aveva le lacrime agli occhi. Do loro dei consigli, dico loro di mettersi in cammino, di aver fiducia in se stessi, di non aspettare che le soluzioni si presentino da sole. Mi dicono: “Abbiamo bisogno di lei”. L’anno scorso, ho visto più di 9000 studenti. C’è molta sofferenza e mancanza di speranza.
In tutte le città della Francia, i giovani che abitano nelle periferie soffrono della mancanza di eterogeneità sociale negli istituti scolastici. Di adulti che possano dar loro una speranza, ce ne sono pochi oggi. Per molto tempo ho sentito dei genitori che contavano sulla scuola per aiutare i loro figli a cavarsela. Oggi, le idee sono cambiate. Molti considerano le scuole come dei posti dove “parcheggiare” i figli. Non se ne occupano.
I professori non possono più contare sul sostegno dei genitori. Fanno ciò che possono, ma non hanno strumenti, non possono ottenere risultati da soli. Questo fenomeno riguarda maggiormente gli ambienti poveri, già fragili. A Saint-Étienne-du-Rouvray, nel quartiere del Château-Blanc, c’è anche una sofferenza da ghetto. In tutte le città, si trovano nelle periferie dei giovani che si sentono rifiutati, emarginati, che si domandano perché sono obbligati ad andare nella loro scuola di periferia e non possono andare in quelle del centro. Mi dicono: “Sono diverso”. Dicono che lo Stato li ha dimenticati, che non sanno più chi sono. Hanno bisogno di aiuto, di inquadramento, di speranza.
“…. La mescolanza sociale è importante, ma è soprattutto un problema di speranza in senso ampio. Oggi, non c’è la speranza, ed è questo che è preoccupante. Quando sento che Daesh lava il cervello dei giovani, trovo che sia un’analisi insoddisfacente. Per me, la radicalizzazione ha le sue radici nella sofferenza, nell’oblio in cui è lasciata questa generazione che sta crescendo. Con Daesh, questi giovani vedono arrivare persone che propongono loro del denaro, una funzione, una forma di riconoscimento, e cadono nel tranello perché pensano che finalmente viene proposto loro un futuro, una speranza.”
Questi giovani, devono essere seguiti fin dalla scuola materna. Alle medie, è già troppo tardi. Le assicuro che se ognuno facesse la sua parte, non saremmo a questo punto oggi. È un lavoro in profondità, un lavoro da formiche. Bisogna guarire la cicatrice prima che si amplii. È la stessa cosa nelle prigioni. Forse che si fa qualcosa perché i prigionieri escano più onesti, leali e rispettosi?”.
“… Oggi, i giovani hanno sete di religione. Vogliono imparare e cercano su internet. Io spiego loro che non si impara così, che bisogna comperare dei libri, andare alla moschea, discutere con gli imam… Oggi, Daesh è fatto di giovani che non parlano arabo e che non hanno la capacità di giudicare quello che trovano. Sono ragazzini che citane delle sure, delle briciole di un testo che non conoscono. Daesh prende ragazzi fragili, non ragazzi strutturati e colti. Si interessa dei giovani abbandonati a se stessi. Un giorno, parlavo con tre ragazzi e dopo qualche minuto ho detto loro: “Volete lavorare con me?”. Senza riflettere, mi rispondono: “Sì, quanto ci paga?”. Neppure mi conoscono! Mi sono detta: questi giovani sono pronti a partire con chiunque. Ho continuato: “Ma voi non mi conoscete, non sapete che tipo di lavoro intendo darvi!”. Risposta: “Ma Signora, lei ci sta tendendo una mano, non rifiutiamo di certo!” E se è Daesh che tende loro la mano, che cosa succede secondo lei?”
La percezione dello “Spirito di Assisi” nel mondo ebraico, di Lisa Palmieri-Billig*, in “La Stampa-Vatican Insider” del 29 settembre 2016
“… Il rabbino David Rosen, Direttore Internazionale per gli Affari inter-religiosi dell’AJC – l’American Jewish Committee – ha affermato che i testi sacri dell’ebraismo, così come quelli delle altre religioni, «possono essere usati come veleno o come una medicina salvifica, a seconda delle loro interpretazioni». E come ha ripetuto molte volte, «la religione deve diventare parte della soluzione, non parte del problema».
Tutti si sono trovati d’accordo nell’affermare che la religione può essere utilizzata, come lo è spesso oggi in maniera perversa, come arma di morte e distruzione invece di trasmettere i suoi veri valori spirituali. Tutti i testi sacri richiedono interpretazione, e spetta ai leader spirituali di tutte le religioni di trasmettere il vero messaggio ai loro fedeli. Questi pensieri sono stati condivisi dai 500 leader religiosi, culturali e della società civile provenienti da oltre 60 Paesi: rappresentanti delle diverse denominazioni della Cristianità; delle maggiori religioni orientali – indù, sikh, jainisti, buddisti; leader musulmani arabi, indonesiani e africani, tra cui il Vice Rettore dell’Università Sunnita di Al Azhar del Cairo; ebrei israeliani e dalla diaspora.”
*Lisa Palmieri-Billig è Rappresentante in Italia e di Collegamento presso la Santa Sede dell’AJC – American Jewish Committee.
Al Azhar organizzerà una conferenza sulla pace con le Chiese d’Oriente nel 2017
di Redazione, in “La Stampa-Vatican Insider” del 3 ottobre2016
“L’Università islamica di al-Azhar organizzerà nei primi mesi del 2017, in cooperazione con il Consiglio islamico degli Anziani, una Conferenza internazionale sulla pace, la convivenza e il dialogo interreligioso, a cui prenderanno parte attiva anche i rappresentanti delle Chiese cristiane d’Oriente.
La notizia, come riferisce l’Agenzia Fides, è stata rilanciata dalla stampa egiziana in margine a un incontro avvenuto a metà della scorsa settimana tra Hamad bin Isa al Khalifa, monarca del Bahrein, e lo sheikh Ahmed al Tayyeb, Grande Imam di Al Azhar.
Il Consiglio Islamico degli Anziani è un organismo internazionale indipendente creato nel luglio 2014 come strumento per promuovere la pace tra le comunità islamiche. La sua sede è situata ad Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti), e tra i suoi obiettivi figura anche il proposito di «porre fine al settarismo e alla violenza che affliggono da decenni il mondo musulmano».
L’impegno diretto di al-Azhar sul terreno del dialogo interreligioso a favore della pace e contro ogni forma di violenza è stato confermato anche dalla partecipazione dello stesso Imam al Tayyeb all’incontro svoltosi a Ginevra dal 30 settembre al 1 ottobre, che ha visto riuniti insieme una delegazione del Consiglio mondiale delle Chiese (WCC) e rappresentanti del Consiglio islamico dei saggi. “
Prudenza non è chiusura precauzionale, di Dominique Greiner, in “La Croix” del 3 novembre 2016 (traduzione: http://www.finesettimana.org)
“L’afflusso dei rifugiati provenienti dall’Iraq e dalla Siria non è una minaccia per la cultura cristiana del continente europeo? La risposta di papa Francesco alla domanda che gli è stata rivolta durante la conferenza stampa nel volo che lo riportava a Roma martedì pomeriggio, fa dei distinguo e merita di essere letta integralmente. Ha riaffermato la necessità di mantenere la distinzione tra rifugiati e migranti, ha ridetto che l’emigrazione è un diritto, ma un “diritto che deve essere regolato”, e ha ricordato che “l’Europa si è fatta di migrazioni”, con un’integrazione permanente di molte culture. “Credo che in teoria non si possa chiudere il cuore a un rifugiato. Ma c’è anche la prudenza dei governanti, che devono essere molto aperti a riceverli ma anche a fare il calcolo di come poterli sistemare, perché non solo un rifugiato lo si deve ricevere, ma lo si deve integrare», ha proseguito il papa. Affermazioni che sono state subito interpretate da alcuni come un’inflessione salutare di una posizione giudicata fino ad ora poco realistica e perfino ingenua.
Ma sulle labbra di papa Francesco, prudenza non è sinonimo di chiusura precauzionale… Il governo prudente non è quello che decide di chiudere le frontiere, per paura, per egoismo, per convenienza, senza considerazione per le persone, ma quello che sa unire, da un lato, “rettitudine e severità” e dall’altro “bontà e dolcezza”, e soprattutto è quello che “calcola”, cioè accetta di guardare al di là del presente immediato per preparare il futuro. La prudenza non è una virtù che si può invocare per giustificare il ripiegamento in se stessi. È un principio di azione esigente.”
Ma con quale argomento si può convincere l’opinione pubblica europea, preoccupata dalle ondate migratorie e spesso fagocitata da leader populisti?
«L’Europa cambi strategia: prevenire i flussi di rifugiati e aiutare i Paesi più esposti», intervista a Filippo Grandi a cura di Paolo Valentino
«Il nostro fallimento è di non aver capito abbastanza presto che le angosce di gran parte dell’opinione pubblica, di fronte alla globalizzazione e alle sue conseguenze, sono reali e non si possono ignorare. Non abbiamo sviluppato una cultura della spiegazione. Ma c’è ancora tempo e abbiamo il dovere di farlo. Ci sono tre aree di ansietà: la minaccia al posto di lavoro, alla sicurezza, all’identità. Occorre trovare le parole giuste, fuori dal lessico degli iniziati. Dobbiamo essere precisi nell’analisi: ci sono dati e studi che dimostrano come la presenza degli immigrati nel lungo periodo sia un vantaggio dal punto di vista economico, ma dobbiamo tradurli in un linguaggio chiaro e comprensibile. È falso che l’arrivo degli immigrati danneggi le comunità e ne abbiamo tanti esempi concreti».
“L’Europa ha bisogno di leader che vadano avanti”
intervista a papa Francesco, a cura di Domenico Agasso jr
in “La Stampa-Vatican Insider” del 7 dicembre 2016
Terrorismo e fondamentalismi
«Nessuna religione come tale può fomentare la guerra. Perché in questo caso starebbe proclamando un dio di distruzione, un dio di odio. Non si può fare la guerra in nome di Dio o in nome di una posizione religiosa. Non si può fare la guerra in nessuna religione. E perciò il terrorismo, la guerra non sono in relazione con la religione. Si usano deformazioni religiose per giustificarle, questo sì. Voi siete testimoni di questo, lo avete vissuto nella vostra patria. Ma sono deformazioni religiose, che non riguardano l’essenza del fatto religioso, che è piuttosto amore, unità, rispetto, dialogo, tutte queste cose… Ma non in quell’aspetto, ossia, che in ciò bisogna essere tassativi, nessuna religione per il fatto religioso proclama la guerra. Alcune deformazioni religiose sì. Per esempio, tutte le religioni hanno gruppi fondamentalisti. Tutte. Anche noi. E da lì distruggono, a partire dal loro fondamentalismo. Ma sono questi piccoli gruppi religiosi che hanno deformato, hanno “ammalato” la propria religione, e da qui combattono, fanno la guerra, o fanno la divisione nella comunità, che è una forma di guerra. Ma questi sono i gruppi fondamentalisti che abbiamo in tutte le religioni. C’è sempre un gruppetto…».