E’ ormai chiaro che si è aperta una nuova stagione per l’ecumenismo cristiano e per l’incontro tra le religioni. Non si deve certo dimenticare che l’attuale primavera affonda le sue radici nel lungo cammino ecumenico del secolo scorso che in questi ultimi decenni si è andato progressivamente intensificando. L’attuale insperata apertura è stata determinata non solo dalle scelte ardite di papa Francesco, ma anche dal diffondersi generalizzato di persecuzioni contro i cristiani di ogni confessione. L’ecumenismo del sangue, come lo chiama papa Francesco, continua a unire sempre più i fedeli cristiani in un’unica testimonianza di fede, al di la delle barriere dogmatiche e delle incomprensioni sedimentate lungo i secoli.
Per cercare di capire meglio e diffondere nei processi educativi questo soffio ecumenico raccogliamo alcune riflessioni che ci aiutano nella comprensione.

“Dobbiamo riconoscere tra cristiani siamo ancora divisi, e che divergenze su nuovi temi antropologici ed etici rendono più complicato il nostro cammino verso l’unità. Tuttavia, non possiamo cedere allo sconforto e alla rassegnazione, ma continuare a confidare in Dio che pone nei cuori dei cristiani semi di amore e di unità, per affrontare con slancio rinnovato le sfide ecumeniche di oggi: per coltivare l’ecumenismo spirituale, per valorizzare l’
ecumenismo del sangue, per camminare insieme nella via del Vangelo” (Francesco, 20 novembre 2014)
Se Francesco deve essere considerato un rivoluzionario per la sua agenda ecumenica, va comunque ricordato che si tratta di una rivoluzione cominciata molto prima del suo arrivo e che quasi certamente continuerà a lungo dopo che se ne sarà andato”, scriveva nei giorni scorsi il vaticanista americano John Allen, a commento dei recenti exploit di Bergoglio, che tra pochi mesi volerà in Svezia per celebrare i cinquecento anni della Riforma che sconvolse l’Europa. Poi, di colpo, l’annuncio dato in contemporanea a Roma e Mosca: “La Santa Sede e il Patriarcato hanno la gioia di annunciare che, per grazia di Dio, Sua Santità Papa Francesco e Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutte le Russie, si incontreranno il 12 febbraio”. A Cuba, su un terreno neutrale, a migliaia di chilometri dall’Europa delle lacerazioni, delle guerre di religione e degli scismi. Una prima volta nella storia, dopo più di un millennio di scontri, silenzi e scomuniche reciproche. E’ una svolta o piuttosto il punto d’approdo di un percorso lungo e lento, iniziato decenni fa e portato a compimento con l’avvento del Papa gesuita preso alla fine del mondo? Allen, rimanendo sul fronte luterano, suggeriva d’andare a studiarsi un po’ della storia recente della chiesa, di quella del post Concilio e, perché no, pure i primi – timidi ma sinceri – passi compiuti dai Pontefici del primo quarto del Novecento che sognavano soprattutto la ricomposizione della dolorosa frattura con le chiese ortodosse dell’oriente europeo. Quanto agli ortodossi, c’era l’abbraccio di Paolo VI con Atenagora e le relazioni fraterne di Bartolomeo I di Costantinopoli con Benedetto XVI prima e Francesco poi. Ma mancava sempre Mosca, il cuore dell’ortodossia, la meta tanto agognata da Giovanni Paolo II, che a lungo lavorò per recarsi in visita nello stato ex sovietico. Il Papa argentino si muove ad ampio spettro, guarda alla Russia, parla con Costantinopoli e lancia messaggi alle chiese luterane. La notizia del viaggio autunnale di Francesco in Svezia per commemorare la tremenda spaccatura fomentata dall’agostiniano tedesco cinque secoli fa ha fatto rumore, scandalizzato qualcuno ed entusiasmato altri. E’ altrettanto vero, però, che l’ultimo vescovo di Roma proveniente dalla Germania, Benedetto XVI, su Lutero aveva speso parole non di solo biasimo, anzi. “Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? – questa scottante domanda di Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda, non accademica, ma concreta. Penso che questo sia il primo appello che dovremmo sentire nell’incontro con Martin Lutero”, disse Ratzinger a Erfurt, nel settembre di cinque anni fa. Parole che divisero anche tanti osservatori cattolici, tra gli entusiasti per l’apertura e chi – come alcuni settori più tradizionalisti – accusava quasi esplicitamente il Papa di aver avallato “l’eresia”. Forse, scriveva all’epoca il sociologo Massimo Introvigne, nel commentare quel discorso si sarebbe dovuto in primo luogo tener conto del contesto e poi dar retta ai protestanti, che avevano interpretato il ragionamento del Pontefice come un’esortazione diretta ai luterani contemporanei, assai meno rigorosi del loro capostipite nel considerare indubitabile la resurrezione di Cristo e ben più disinvolti quanto a morale sessuale, come dimostrano le aperture ai “nuovi valori” portati dallo Zeitgeist, lo spirito del tempo che nel corso dei secoli (e dell’ultimo in particolare) ha soffiato così prepotentemente nel cuore dell’Europa riformata. E’ anche per il discorso benedettiano di Erfurt che il professor Giovanni Filoramo, storico delle religioni, invita alla prudenza: “Parlare di svolta ecumenica solo perché Francesco si recherà a Lund è forse eccessivo. Non c’è stato nulla che
annunci una vera svolta, nessun atto”, dice: “E’ un anniversario importante, sono i cinquecento anni dalla Riforma, e quindi è naturale che il Papa debba prendere posizione sul tema, considerando anche i cinquant’anni di dialogo alle spalle”. I problemi, però, “restano tutti e sono notevoli”. Se proprio si vuol parlare di svolta, aggiunge ancora Filoramo in un colloquio con il Foglio, bisogna tornare al 1999, con la “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione”, e poi al 2013 con il documento intitolato “Dal conflitto alla comunione”. Ma è soprattutto l’accordo del 1999 che è rilevante, “perché toccava il tema della giustificazione”. In questo documento, le parti concordarono infatti sul fatto che “l’uomo dipende interamente per la sua salvezza dalla grazia salvifica di Dio”. Di conseguenza, “quando i cattolici affermano che l’uomo, predisponendosi alla giustificazione e alla sua accettazione, ‘coopera’ con il suo assenso all’azione giustificante di Dio, essi considerano tale personale assenso non come un’azione derivante dalle forze proprie dell’uomo, ma come un effetto della grazia”.
Se sul punto ci si strinse la mano, “sul tavolo sono rimasti altri problemi non da poco, come la cena eucaristica, per fare un solo esempio”, dice Filoramo. Anche se “il vero pomo della discordia resta il ruolo del Pontefice”, un po’ come con gli ortodossi russi. Ed ecco che forse solo un Papa come Francesco, “che è un po’ un ‘dissacratore’ su tanti aspetti”, osserva con ironia il nostro interlocutore, “può riuscire a gettare ponti stabili e duraturi con le realtà luterane”. L’errore da non fare è di considerare gli eredi del monaco di Erfurt come un monolite che marcia su un unico binario: “Una parte della chiesa luterana è aperta al dialogo, un’altra no. Questo Pontefice potrebbe muovere diversi passi sul piano teologico, anche se il vero abisso è tutto ecclesiologico e cioè ha a che vedere con la natura sacrale della chiesa”.
Eppure, la strada per tentare di ripianare le discordie Bergoglio l’ha indicata, pochi mesi dopo l’elezione al Soglio petrino, in un’udienza generale del giugno 2013: “L’unità è superiore ai conflitti. L’unità è una grazia che dobbiamo chiedere al Signore perché ci liberi dalle tentazioni della divisione, delle lotte tra noi, degli egoismi, delle chiacchiere”. E ancora, parlando delle “divisioni tra noi, ma anche le divisioni fra le comunità: cristiani evangelici, cristiani ortodossi, cristiani cattolici”, Francesco si chiedeva: “Perché divisi? Dobbiamo cercare di portare l’unità. Vi racconto una cosa: oggi, prima di uscire da casa, sono stato quaranta minuti, più o meno, mezz’ora, con un pastore evangelico e abbiamo pregato insieme, e cercato l’unità”.
Un passaggio fondamentale per comprendere l’attitudine del Papa regnante sulla questione lo si ritrova in una risposta data a braccio durante la visita dello scorso novembre alla chiesa luterana di Roma. A una domanda sulla possibilità di partecipare alla comunione eucaristica tra cattolici e luterani, Francesco sottolineava che “se abbiamo lo stesso battesimo dobbiamo camminare insieme”, benché in seguito si mostrasse assai più prudente nell’approcciare quello che rimane uno dei punti più delicati nelle relazioni tra le due confessioni cristiane, l’intercomunione appunto. Il pastore luterano di Roma, Jens-Martin Kruse, ha però colto la palla al balzo per passare dalla teoria ai fatti, parafrasando la risposta del Pontefice in modo che dalle parole di Bergoglio risultasse un chiaro via libera alla comunione congiunta: “E’ un obiettivo realistico soprattutto con questo Papa, perché egli ha capito che esiste il grave problema di quelle coppie miste che non possono partecipare insieme alla Cena del Signore”. E poi, chiariva, “nella concezione dell’eucaristia non c’è grande differenza tra cattolici, luterani e anglicani: tutti pensiamo che il pane e il vino siano il corpo e il sangue di Gesù Cristo”. Secondo Kruse, insomma, Francesco con quella risposta avrebbe invitato ciascuno a “prendersi le proprie responsabilità davanti a Dio, per decidere secondo coscienza se è possibile la partecipazione insieme, tra cattolici e protestanti, all’eucaristia”. Anche perché “non esistono ragioni teologiche per cui questo non possa avvenire”.
La Congregazione per la dottrina della fede, guidata dal cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, non pare dello stesso avviso, visto che solo un mese dopo la visita di Francesco alla chiesa luterana romana, chiariva al National Catholic Register che si era trattato di un “fraintendimento”. Troppe le distanze e soprattutto il fatto che “vi è una diversa comprensione di quel che è la chiesa da parte di cattolici e protestanti”. Differenze che, notava Müller, “non sono solo di carattere teologico- concettuale, bensì di natura confessionale” e che “il Papa come capo della chiesa” non può essere argomento di discussione. Sul resto si può trattare, discutere. La scorsa estate, la chiesa evangelica
tedesca, attraverso le parole del vescovo Petra Bosse-Huber, aveva ammesso la distruzione di centinaia di opere d’arte cattoliche, conseguenza della furia iconoclasta che s’abbatté in tutte le realtà toccate dalla Riforma. “Da molto tempo le immagini sono diventate espressione di pietà protestante”, aveva aggiunto Bosse-Huber, rievocando implicitamente la distruzione di reliquie, statue e vetrate in chiese, piazze, monasteri palazzi. Solo perché, dicevano, il Pentateuco e i Dieci comandamenti prescrivevano d’agire così. Vi sono tanti modi di rendere efficace nella pratica l’ecumenismo, traducendolo dai corposi testi teologici e dai documenti bilaterali sempre di moda. Uno, che sta particolarmente a cuore al Papa, è quello che ha definito “l’ecumenismo del sangue”. Davanti alla mattanza dei cristiani tra il vicino e medio oriente, con l’esodo di migliaia di profughi costretti ad abbandonare la propria terra a causa dell’avanzata jihadista, non v’è distinzione tra ortodossi e cattolici e protestanti, come dimostra quotidianamente il grido corale delle gerarchie episcopali siro-irachene, accomunate dal dolore provato nel vedere ridursi, giorno dopo giorno, la presenza cristiana in terre da loro abitate per millenni. Un anno fa, nell’omelia per i Vespri della Conversione di san Paolo, nella basilica ostiense di Roma, Francesco sottolineò tale esperienza concreta di comunione: “In questo momento di preghiera per l’unità, vorrei ricordare i nostri martiri di oggi. Essi danno testimonianza di Gesù Cristo e vengono perseguitati e uccisi perché cristiani, senza fare distinzione, da parte dei persecutori, tra le confessioni a cui appartengono. Sono cristiani e per questo perseguitati. Questo è, fratelli e sorelle, l’ecumenismo del sangue”. Un tema non a caso ribadito, solo un mese fa, dal Patriarca Kirill nel suo messaggio di Natale, in cui parlava di persecuzione dei cristiani. Senza puntualizzare se questi fossero sudditi del Papa romano o fedeli a Mosca.
di Matteo Matzuzzi, in “Il Foglio” del 6 febbraio 2016