Nascosta dietro la becera, rabbiosa, insensata, ignoranza di chi demolisce statue e di chi lo giustifica c’è la folle convinzione di chi rivendica una giustizia ideale che non può esistere perché i simboli rappresentano epoche e uomini con le loro glorie e i loro errori. 
Ancor più nascosto o sotteso c’è il desiderio di demolire i fondamenti della nostra cultura e civiltà Occidentale.
“Non comprendiamo il valore del simbolo, del segno, ci sfugge la virtù della figura, l’ostensione della forma e il suo rispecchiamento. Non percepiamo l’invisibile, dilaniati da una superficialità ghignante. Attendiamo, forse, a una nuova iconoclastia”?
 
Vogliono demolire il canone Occidentale
 
Chi butta giù una statua di Colombo o di Roosevelt o di chi vi pare commette un errore di fondo. La statua – se non è quella divulgativa di un regime – non rappresenta un uomo, ma un tempo. E quel tempo, quel momento storico, non puoi sradicarlo buttando giù una statua. È perfino frivolo ricordare che nessuna statua si salverebbe da questa specie di pulizia etica: Giulio Cesare e Kennedy, Marco Aurelio o Churchill, Ottaviano Augusto o Colombo o Montanelli, tutti, in quanto uomini, in quanto rappresentanti di un potere, hanno ucciso o permesso l’uccisione di innocenti, hanno detto delle menzogne, non sono stati assolutamente irreprensibili. Altrettanto frivolo è ricordare che l’uomo non è buono: che sia bianco, nero, giallo o verde. Per questo, i paladini della pulizia etica mi fanno paura – mi linceranno, mi lapideranno, perché io non sono buono, non sono moralmente integro, io vivo, mordo, mangio animali morti, sono cattivo. Ulteriormente banale è ricordare che Gesù, in qualsiasi raffigurazione lo contempliamo – occidentale, ortodossa, sudamericana, giapponese – non rappresenta un uomo di nome Gesù. È un tramite. Troppa carnalità razionalista ci ha fatto male: non comprendiamo il valore del simbolo, del segno, ci sfugge la virtù della figura, l’ostensione della forma e il suo rispecchiamento. Non percepiamo l’invisibile, dilaniati da una superficialità ghignante. Attendiamo, forse, a una nuova iconoclastia.
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Come era ovvio, gli avvoltoi dell’etica – al posto di igienizzare il passato, si pensi, piuttosto, a non ripeterne gli errori, altrimenti a atto di forza sarà necessario attendersi una difesa più vasta –, i cavalieri della purezza, ora attaccano “Il Canone Occidentale”, forgiato parecchi anni fa – era il 1994 –, con lungimiranza, da Harold Bloom. L’architettura di Bloom, narrata con scintillio intellettuale, è, invero, banale. Bloom ci ricorda che l’Occidente lo hanno creato i grandi scrittori, che la nostra identità si fonda su Dante, Shakespeare, Cervantes, Montaigne, Tolstoj, Walt Whitman, Emily Dickinson e via giganteggiando. Certo, il Canone di Bloom è anglocentrico, parziale, a tratti improbabile: non chiede che di essere ‘giocato’, vissuto, esplicitato. Nonostante l’eclettico narcisismo del suo autore, il Canone Occidentale è un fatto – cosa fa d’altronde Dante, nel suo viaggio, se non costruirsi un ‘canone’? – che non va preso come la Bibbia, perché la vita è mobile mentre il dio è impassibile. Disconoscere un Canone significa propugnare lo sterminio dei maestri. Su “The American Scholar”, però, Robert Zaretsky, in un articolo, The Bloom Has Faded, auspica la fine del Canone, “forse dovremmo respingere l’insegnamento del Canone”, scrive, “forse è tempo di cambiare radici e potare rami”. La sintesi è fatale: “dobbiamo trattare gli scritti delle minoranze emarginate e oppresse non per ‘integrare’ il Canone Occidentale, ma come essenziali rappresentazioni delle nostre tradizioni politiche, sociali, culturali”. L’idea di fondo, al di là della glassa buonista, è che la letteratura, l’arte, non sia importante di per sé ma solo se coerente alle idee vigenti, vincenti, come ancella dell’ideologia. Che la costruzione di un Canone sia una prepotenza è ovvio – l’arte è tirannica, esclude, ammette solo ciò che è esclusivo. Il resto, il residuo, le macerie sono materia per gli storici, per quelli che ‘delineano il contesto’, per i contestatori del talento individuale, per i sociologi, per i politici. L’arte non si pone ambizioni elettorali – proprie di chi invoca la distruzione del Canone Occidentale – ma l’esecuzione di una forma, imperiale e schiacciante, che perturba. Chi vede tra le sue anse l’ombra di una verità, buon per lui.
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Il primo obbiettivo dei detrattori del Canone, delle iene del genio, è stata Flannery O’Connor. Installata nella Library of America tra gli scrittori più rappresentativi di sempre dell’identità americana, la O’Connor è stata oltraggiata, accusata di razzismo, da una micidiale articolessa di Paul Elie sul “New Yorker”, di cui ho parlato qui (fate attenzione a testate e autori e cultori della cultura perché si stanno costituendo diversi, inattaccabili ‘fronti’: insomma, è in atto, per deficit d’apocalisse, una guerra culturale senza quartiere tra i quartieri alti dell’intelligenza americana). Come si dice, il dibattito è esploso. Amy Alznauer – che ha scritto, tra l’altro, The Strange Birds of Flannery O’Connor. A Life – su “The Bitter Southerner” ricorda a Paul Elie che da mo’ si scrive su Flannery e il dilemma razziale, si informi, e che pure Toni Morrison, sventolata ovunque come simbolo di ‘correttezza’ letteraria, ha detto, nel 2016, che “c’è una donna sola che amo, ostile, eccezionale: Flannery O’Connor”, che forse ciò che davvero fa paura di Flannery è “la rivelazione che il potere è brutale e putrefatto, che analizzare il grottesco del Sud degli Stati Uniti è penetrare il cuore dell’essere umano, la sua natura, di merda e stelle”. Su “First Things”, invece, Jessica Hooten Wilson (prof alla University of Dallas) ci ricorda How Flannery O’Connor Fought Racism“Dovere di uno scrittore cristiano, pensava la O’Connor, è smascherare i demoni che ci possiedono. Se eliminassimo tutti gli scrittori che hanno lottato contro il peccato, la colpa, i lati oscuro dell’uomo, non ne resterebbe nessuno. Se iniziamo a criticare la O’Connor molto presto finiremmo per respingere anche molti scrittori che hanno combattuto il razzismo: Mark Twain, William Faulkner, Dostoevskij. Mentre facciamo progressi per sradicare il bigottismo di questa nazione, cecando giustizia per chi ha sofferto ingiustamente, dovremmo vedere Flannery O’Connor non come un ostacolo, ma come uno dei rari che ci ha consentito di fare molta strada”.
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Il difetto delle repliche è equivalente all’idiozia dell’accusa. Si continua a pensare che la letteratura debba essere utile al ‘progresso’ umano, che – peggio ancora – aiuti a non essere razzisti. La letteratura è forma, il luogo della libertà assoluta, abbacinante, dove tutto è possibile, dove tutto è permesso. Soprattutto il sopruso, la crudeltà, l’orrore. (d.b.)
Pangea, 30 giugno 2020