Eco e la fede L’enigma del distacco
di Vittorio Messori
Incontrandolo, intervistandolo, leggendolo, non potevo sfuggire a una sorta di rammarico. Proprio perché molto ne ammiravo l’intelligenza, la cultura, lo stile, l’ironia, il savoir vivre, sentivo (e glielo dissi anche, una volta, ricavandone un sorriso enigmatico), sentivo il dispiacere del credente davanti a un uomo che ti parlava della sua «definitiva apostasia» da ogni fede religiosa, a cominciare ovviamente da quella cattolica. Un giovane che fu tra i dirigenti della Giac, la Gioventù di Azione cattolica, che sino all’università si nutrì di credenti antichi e moderni, un uomo da comunione quotidiana e da confessione settimanale e che scelse san Tommaso per la sua tesi pensando alla fede da difendere e non a una laurea da conquistare. Ed ecco che invece dello straordinario apologeta del cattolicesimo, dello scintillante polemista che i credenti avrebbero avuto in dono, ecco che dall’ateneo torinese uscì l’Umberto liberal. Un Eco divenuto sì apologeta, ma prima dell’agnosticismo e poi — come ammise — di un relativismo ateo (nomina nuda tenemus), affermato con la consueta leggerezza dall’apparenza svagata, ma in realtà non scalfibile.
La delusione non mi ha impedito, per quanto mi riguarda, l’affetto sincero e ora il dispiacere perché non avremo più battute come quella che gli sentii dire nel nostro primo incontro: «Se Pascal abitasse nel mio condominio ci saluteremmo con educazione ma non ci frequenteremmo proprio. Se, invece, sul mio pianerottolo ci fosse Tommaso d’Aquino, alla sera giocheremmo a briscola, ma finiremmo per litigare e andare per avvocati. E magari mi denuncerebbe alla Digos per sospetto di terrorismo».
Per una mia Inchiesta sul cristianesimo (il titolo del libro che uscì da molti dialoghi, soprattutto con ex credenti, per capire le loro ragioni) passammo insieme un pomeriggio milanese di cui approfittai non per parlare genericamente di cultura, ma di fede, di vita, di morte. A lui che conduceva il discorso verso la filosofia, replicai di lasciare le schermaglie verbali e di venire al concreto. La scommessa per Dio o contro Dio nasce più dal vissuto esistenziale che dall’argomentare teorico. Per quali motivi (ammesso che sia in grado di decifrarli) uno che abbracciava il Vangelo — e con tanto fervore — come il giovane Eco, decide di ritirare la sua speranza nel Cristo? Mi parve, con tutto il rispetto, che gli argomenti della sua risposta non sfuggissero al sospetto di essere stati elaborati post factum, per razionalizzare un ripudio venuto dal cuore e dalla vita più che dalla ragione. Glielo dissi. Fu pronto a replicare, con sincerità: «Le concedo volentieri che, qui, qualunque “prova” o ragionamento serve solo a convincerci di ciò di cui già siamo convinti. È vero: l’aspetto razionale non basta a spiegare la mia storia. Ma non basta neppure quello biografico. Altri che hanno avuto vicende simili alla mia sono rimasti credenti. Mi è parso che la perdita della fede sia stata come l’interruzione di un circuito elettrico. Le cause vere, profonde? E chi può dirlo?».
Parlammo della morte: un dramma che, mi disse, viveva nella carne, da quando suo padre morì in modo inaspettato. «Sono passati tanti anni da allora, ma ci penso ogni giorno. Io non cerco, alla Freud, di vendicarmi di mio padre, ma di vendicarlo. Anche da qui il mio darmi da fare sul piano professionale. Io, un collezionista di onori, come qualcuno dice? No, uno che vuol dare al suo genitore le soddisfazioni che sperava di avere da suo figlio e che non ha avuto».
Eco, gli chiesi, dov’è suo padre? Dove sono tutti i morti? Dove saremo noi pure? Rispose: «Al di là di quelle porte di bronzo c’è il caos, il buio. Oppure c’è il Nulla o un deserto piatto e desolato, senza fine».
La morte, gli ricordai, è la scommessa per eccellenza, aperta a molti esiti possibili. E se avessero ragione coloro che dicono che sarà Gesù il Cristo a venirci incontro? Non sembrò esitare, come chi ci ha più volte pensato: «Senta, se per caso quel Nazareno c’è davvero e vuole imbastirmi un processo, gli dico più o meno le cose che sto dicendo a lei: ho ragionato così e così e sono giunto alla conclusione che non eri tu ad aspettarci. Credo che potremmo giungere a patti ragionevoli. Se invece è il Dio crudele e vendicativo di certe sette protestanti, allora meglio non avere a che fare con lui. Mi mandi pure all’inferno, dove almeno c’è gente per bene». Una pausa e poi: «Ma guardi che sono convinto che se davvero un Dio ci fosse, sarebbe quello di quel san Tommaso con il quale in vita avrei litigato, ma che era un uomo col quale, malgrado tutto, sulle cose che contano si poteva ragionare».
Ora, pure Umberto Eco «sa». E al rispetto che da parte di ognuno merita una vita tanto operosa, i credenti, con discrezione pari alla convinzione, aggiungeranno una preghiera davanti a una bara per la quale — con coerenza, senza ipocrisie — non si è voluto una presenza religiosa.
Corriere della Sera 21 febbraio 2016
 
 
Il cattolico che parlava di quel Dio progressista
di Gianni Vattimo
Non so se nelle commemorazioni pubbliche che si faranno, a cominciare dalla cerimonia annunciata per martedì 23 a Milano al Castello Sforzesco, qualcuno ricostruirà un momento e un aspetto della vita di Eco che rischia di essere oscurato dalla sua immagine, del resto corretta, di grande pensatore laico su cui insistono i media. Non che Eco non sia da annoverare tra i grandi del pensiero laico. Ma è interessante, e storicamente rilevante, ricordare da quale formazione egli provenisse. Quei Ragazzi di Via Po, secondo il titolo del bel libro di Aldo Cazzullo che rievoca quegli anni di storia torinese, ma non solo, si sono formati nel clima di una grande stagione della cultura cattolica italiana.
Nei primi anni cinquanta, Eco, che studiava a Torino e abitava nel collegio universitario di via Galliari (lasciandovi ricordi ancora vivi di fantasiose feste delle – o meglio: alle – matricole), era un dirigente della gioventù studentesca cattolica, un militante della Giac (Gioventù italiana di Azione cattolica) che si era già fatto conoscere in quell’ambiente come una sorta di enfant prodige. All’università di Torino Eco si laureò nel 1954 con una tesi, divenuta presto libro, su Il problema estetico in San Tommaso, preparata sotto la guida di un’altra giovane “promessa” della filosofia italiana, Luigi Pareyson che era appena diventato ordinario di Estetica. Il tema della tesi rivela chiaramente quali fossero gli interessi intellettuali del discepolo, che resterà in tutta la sua carriera un cultore, sia pure ampiamente laicizzato, del Medio Evo e della sua cultura. Insomma, l’Eco degli anni torinesi era un cattolico “impegnato”, come si diceva allora con qualche reminiscenza sartriana. Non solo nella tematica religiosa, ma in quella lotta, di cui fu tra i protagonisti, per svecchiare la cultura cattolica e orientarla a una comprensione più aperta della situazione politica. Chi, come me, frequentava le associazioni cattoliche a Torino in quegli anni, ascoltò spesso interventi e conferenze in cui Eco, mentre illustrava il pensiero di autori come Maritain o Mounier, sosteneva chiaramente che Dio non può che essere di sinistra, perché è di sinistra la creazione, contro l’inerzia della ripetitività e della conservazione. Certo la popolarità di Eco era anche favorita, in modo decisivo, dal suo spirito ironico e dissacrante: come giovane cattolico praticò in maniera sopraffina l’arte di scivolare via dall’ortodossia, e dal fondamentalismo più bieco, attraverso l’ironia e il sarcasmo.
Scriveva già allora quei brevi testi che confluirono poi nel Diario minimo, che con le sue battute e le sue barzellette (peccato che l’arte della barzelletta sia diventata impraticabile dopo Berlusconi e i suoi abusi) resta una delle sue opere essenziali. Lo dico sul serio: c’è un Umberto Eco “minimo” che merita di essere considerato come un grande educatore della gioventù italiana. Oltre al ricordo del suo spirito, in tutti i sensi, dal più alto al più basso, della parola, la lezione di Eco merita di essere ricordata, anche tra laici, per gli impulsi che, insieme ad altri grandi cattolici “adulti” e “non allineati” che lo conobbero (da don Arturo Paoli, teologo della liberazione per anni in Brasile; al medico Mario Rossi che guidò la lotta contro l’integralismo di Pio XII e del professor Gedda; a Carlo Carretto, mitico presidente della Giac anni Cinquanta) seppe dare ai cattolici chiamandoli a una , di cui ancora oggi la Chiesa ha un immenso bisogno. Proprio San Tommaso, ha detto Eco di recente, lo aiutò a liberarsi dalla fede religiosa.
Un altro paradosso di quelli che egli amava? Forse. Ma se è vero come dice il Credo, che Gesù (la Chiesa istituzione?) siede alla destra del Padre, il Padre stesso, come Creatore, è di sinistra. Anche questo ci ha insegnato l’Eco “ragazzo di via Po”.
in “il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2016
 
 
«Prove dell’eternità del mondo. Le ragioni di Tommaso d’Aquino»
di Umberto Eco
(Riproponiamo qui uno scritto di Umberto Eco pubblicato sul Sole 24 Ore Domenica 30 novembre 2014)
L’idea di una eternità del mondo era considerata una pericolosa eresia: infatti, se il mondo fosse eterno allora non ci sarebbe più bisogno di un Dio creatore, e la Bibbia avrebbe mentito quando diceva «In principio Dio creò il cielo e la terra». Tommaso non può asserire che il mondo sia eterno, ma nel suo tentativo di conciliare fede ragione compie nel De aeternitate mundi una operazione quasi spericolata: ragionando secondo onestà e secondo logica, senza farsi influenzare dalla sua fede, arriva a una conclusione sconvolgente.
Egli crede a un mondo creato perché glielo dice la rivelazione, ma filosoficamente non può dimostrare che il mondo non sia eterno. E siccome presumere che il mondo esista da sempre, senza che debba la sua esistenza a qualcosa che possiede l’essere in massimo grado è – sostiene Tommaso – errore abominevole anche per un filosofo, egli tenta una sua soluzione. Infatti sostiene che una cosa è dire che il mondo dura da sempre nel tempo e una cosa dire che dura da sempre per natura.
Tutte le cose di questo mondo, per esempio un fiore, nascono perché nella materia preesistente esse sono in potenza, poi sopraggiunge la forma-fiore e sboccia il fiore come sostanza. Se dunque Dio avesse dovuto imporre le varie forme su una materia preesistente questo significherebbe che il mondo, come materia informe, ovvero pura possibilità, esisteva prima del suo atto creatore, il che è impossibile. Tuttavia Dio ha creato gli angeli senza che ci fosse materia preesistente (infatti l’angelo non ha materia ed è pura forma), quindi non è necessario che Dio crei da una materia preesistente.
Dio, allora, può avere creato qualcosa che era stato da sempre? Si dovrebbe sostenere che ciò non è possibile. Se prima il mondo non c’era e poi Dio l’ha creato, allora il mondo è nato dopo il gesto creatore di Dio. Ma questo è vero secondo il modo di pensare di noi uomini, abituati a vedere la sequenza delle cause e degli effetti che si dispiegano nel tempo: prima c’è il calcio e dopo la pietra rotola per la pianura. Ma ci sono cause che non precedono il loro effetto in termini di durata nel tempo: per esempio la luce, che è sì effetto del sole, ma nel preciso momento in cui appare il sole, c’è la luce. Parimenti il fuoco è certamente causa del calore, ma il calore appare nel preciso istante in cui appare il fuoco. Oppure si immagini un piede che dall’eternità abbia impresso la sua orma nella sabbia, nel senso che non prima ci fosse il piede e poi qualcuno lo abbia posato sulla sabbia, ma che il piede sin dall’eternità sia nato come piede-sulla-sabbia.
La sua orma sarebbe effetto del piede, ma non sorgerebbe dopo che il piede si è impresso sulla sabbia, bensì apparirebbe nel momento stesso in cui apparisse il piede. In questi casi il rapporto tra causa ed effetto, movente e mosso, necessario e contingente, e così via, non dovrebbe essere visto come durata nel tempo, come il prima e dopo di una clessidra. Il tempo è un incidente del mondo, ma non ha nulla a che fare con Dio, che è eterno.
È vero che, se Dio ha deciso che il mondo esista, ciò è dipeso da un moto della sua volontà. Ma non è necessario che un atto della volontà preceda il suo effetto nel tempo. Immaginiamo che Dio a un certo momento abbia ritenuto opportuno creare il mondo. Se si ammette che il mondo sia una perfezione, Dio come essere perfetto sarebbe restato per una eternità privato da questa perfezione e si sarebbe deciso solo dopo a crearla? È impossibile.
Dunque Dio potrebbe aver voluto il mondo sin dall’eternità. Questo sembra cozzare contro l’obiezione che Dio ha creato il mondo ex nihilo, dal niente. Ma dire che lo ha creato dal niente non significa che prima ci fosse niente e poi ci sia stato il mondo. Se fosse stato così, questo niente sarebbe stato eterno, e in qualche modo si sarebbe dovuto decidere se veniva prima o dopo Dio. Creare dal niente non significa che prima c’era il Niente e dopo qualcosa, come se il Niente fosse qualcosa che viene prima di qualcosa d’altro.
Creare dal niente significa che ogni cosa creata riceve il suo essere da altro, senza cui non sarebbe niente, non esisterebbe. Dio ha creato le cose ex nihilo certamente, ma non post nihil, (ossia «dopo un niente preesistente»). E così il mondo riceve il suo essere da Dio, sua causa necessaria, ma coeterna, senza che si debba pensare che prima del mondo ci fosse qualcosa di eterno che si chiamava il nulla. Non è che l’aria sia luminosa perché prima del sole non era nulla. È che senza il sole l’aria non sarebbe niente, non esisterebbe neppure.
Né tiene l’obiezione che se il mondo esistesse da sempre ci sarebbe una infinita quantità di anime, in paradiso o all’inferno. Il mondo può essere esistito dall’eternità senza gli uomini. Pertanto dal punto di vista filosofico non si può negare l’eternità del mondo. Si crede che il mondo non fosse eterno solo per ragioni di fede.
da Il sole 24 ore 20 febbraio 2016
 
 
«Tra i codici dell’Ambrosiana la sua curiosità di bibliofilo appassionato della Bibbia»
intervista a Gianfranco Ravasi
«Ho conosciuto Umberto Eco quando sono venuto a Milano, alla Biblioteca Ambrosiana, che fu il nostro primo “ponte” data la sua nota bibliofilia. E poi siamo diventati amici, sempre in maniera riservata». Il cardinale Gianfranco Ravasi, oggi presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ricorda quelle visite dello scrittore allo scrigno librario milanese, vero tesoro per chi, come Umberto Eco, a sua volta possedeva una raccolta – «davvero impressionante», puntualizza Ravasi – di testi antichi.
Attorno a quali elementi ruotava la vostra amicizia?
«Il primo era naturalmente quello legato alla Bibbia. Eco aveva una vera passione per gli studi biblici, anche se diceva di non averli mai potuti praticare; è noto come si chiedesse perché i ragazzi delle scuole dovessero sapere tutto degli dèi omerici e quasi nulla di Mosè, tutto della Divina Commedia e non del Cantico dei Cantici e degli altri testi biblici che ne sono il palinsesto. Essendo a conoscenza della mia pratica esegetica era sempre pronto a dialogare con me; tra i testi che più lo affascinavano spiccava per esempio il Qohelet».
E poi?
«Il secondo nodo era legato alla letteratura medievale. Tutti conosciamo Il nome della rosa – romanzo nato prima delle nostre frequentazioni all’Ambrosiana, iniziate verso il 1990 –, però la sua passione erano soprattutto due autori. Il primo è ovvio, Tommaso d’Aquino: fece la tesi di laurea sulla sua estetica. Ricordo la sua emozione quando gli mostrai un testo autografo del santo, scritto con una grafia pressoché incomprensibile, oscura, agli antipodi della sua lucidità logica. È invece forse meno noto il suo interesse per Raimondo Lullo, del quale l’Ambrosiana conserva una buona raccolta di codici. Ma la si può capire bene, perché Lullo è una figura capace di stabilire ponti di comunicazione anche con l’islam: conosceva l’arabo, aveva interesse per il dialogo… E poi il filosofo catalano era curioso, passava dalla disputa alla logica, dalla polemica alla cavalleria; fino al Libro del gentile e dei tre savi, quel dialogo tra un pagano e tre sapienti che si interrogava sulle religioni monoteistiche. Insomma, proprio quel grande spettro di curiosità che aveva lo stesso Eco».
Infine c’era il comune amore per il libro…
«Era il terzo elemento della nostra amicizia. Negli incontri ai quali lo invitavo, quasi lo sfidavo a mostrare quanto ne sapesse di codici che erano di norma dominio degli specialisti. La Biblioteca Ambrosiana lo affascinava tanto che veniva sempre quando era chiusa, per poter girare tra le sale in libertà».
Il fatto che lei fosse un ecclesiastico non costituì mai un ostacolo?
«Al contrario, era un legame ulteriore. A parte la sua esperienza religiosa giovanile – una matrice che non aveva mai voluto dimenticare nonostante il suo spirito profondamente laico –, in lui c’era il desiderio di vedere come si potesse vivere l’esperienza di fede pur senza rinunciare a tutte le curiositas culturali. Sempre con grande rispetto per i temi teologici e di spiritualità: ricordo quella volta quando, ritornando insieme in macchina dall’Università di Bologna dove avevamo discusso del Cantico dei Cantici in un incontro voluto dal rettore Ivano Dionigi, riassaporava, gustava, riprendeva il tema dell’amore, così come era letto dal Cantico e dalla tradizione mistica».
Se dovesse sintetizzare la lezione di Umberto Eco, quale parola sceglierebbe?
«Senza dubbio “curiosità”. Pur avendo una propria specializzazione e un proprio rigore, restava convinto della complessità del reale e voleva sempre guardare al di là delle proprie frontiere. D’altra parte la curiositas è, per sua sua natura etimologica, anche cura, passione, preoccupazione per qualcosa: non semplicemente volteggiare sulla realtà come una farfalla, ma anche ricerca di coinvolgimento. Come scriveva Rousseau nell’Emilio, si è curiosi solo nella misura in cui si è istruiti».
Un rigore che oggi non sembra andar per la maggiore…
«Nella cultura contemporanea in molti imperversa il gusto di parlare solo per far vedere che si sanno tante cose… Occorre evitare i due estremi, l’eccesso di specializzazione e l’approssimazione, ma il rischio è sempre in agguato. Ma mi lasci concludere con un ricordo personale…».
Prego.
«Un pomeriggio lo portai dal cardinal Martini, assieme a Beniamino Placido e Aldo Grasso, per consigliare l’arcivescovo nella stesura della sua famosa lettera pastorale Il lembo del mantello: per un incontro tra Chiesa e mass media. Eco, vero affabulatore, parlò e discusse a lungo, il pomeriggio si protrasse fino alla cena, e alla fine il suo ultimo consiglio fu: “Mi dispiace ma io non sono capace di dare suggerimenti per scrivere una lettera pastorale. Piuttosto, preferirei scriverla io…”».
a cura di Edoardo Castagna, in “Avvenire” del 21 febbraio 2016
 
 
Tra saggi e romanzi le domande di Eco
di Alessandro Zaccuri
È morto all’età di 84 anni lo scrittore-semiologo diventato celebre con “Il nome della rosa” La formazione cattolica, gli studi su san Tommaso e i media: «Allontanarsi dalla fede non significa abbandonare la dimensione religiosa».
Era un aneddoto che Umberto Eco raccontava volentieri, perché riguardava il Medioevo, sua grande passione, e anche perché rivelava qualcosa del suo modo di vedere il mondo, di concepire la scrittura. «Mia moglie Renate – diceva – mi rimproverava di non guardare bene le scintille quando accendevamo in campagna dei falò di foglie secche; poi ha letto la mia descrizione dell’incendio nel Nome della rosa e mi ha detto: “Allora le scintille le guardavi!”. E io ho risposto: “No, ma so come poteva vederle un monaco medievale”». Un’immaginazione di secondo grado, che veniva sempre dopo qualcosa, annunciando e in qualche modo completando la fatica dell’erudizione.
Anche quando finiscono (Eco è morto venerdì notte nella sua casa di Milano, all’età di 84 anni, per le conseguenze di un cancro al pancreas), le storie vanno raccontate dall’inizio. Nel caso di Eco, però, il dato anagrafico è indispensabile, ma non sufficiente. Nascita ad Alessandria, il 5 gennaio 1932, da una famiglia di commercianti. Studi al liceo classico locale – il “Giovanni Plana”, al quale rimarrà legatissimo – e militanza nel ramo giovanile dell’Azione Cattolica, di cui diventa uno dei dirigenti nazionali. Il 1954, l’anno in cui si laurea in filosofia all’Università di Torino, è anche quello in cui lascia l’incarico, per valutazioni che al momento riguardano principalmente le scelte politiche dell’allora presidente Luigi Gedda. In realtà è l’inizio di un travaglio destinato a durare fino al 1962 e al termine del quale Eco non è più credente.
L’inizio vero della storia, forse, sta proprio qui, in questi otto anni di passione (Sette anni di desiderio è, com’è noto, il titolo di una sua raccolta di scritti giornalistici apparsa nel 1983) che stanno fra la discussione della tesi su Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, relatore Luigi Pareyson, e la pubblicazione di Opera aperta, il saggio nel quale il metodo dell’Aquinate viene messo a servizio delle avanguardie novecentesche. «La perdita della fede è qualcosa di difficilmente ponderabile – ammetteva Eco in un’intervista ad “Avvenire” del 1994 –. Si potrebbe anche tentare di offrire, provocatoriamente, una teologia alternativa, come a dire: non sono io che ho smesso di credere in Dio, è Dio che ha smesso di credere in me. Resta il fatto che allontanarsi da una religione rivelata non significa abbandonare la dimensione religiosa, la dimensione della domanda».
All’inizio degli anni Sessanta Eco non è solo uno studioso. Appena laureato, entra in Rai nel gruppo dei cosiddetti “corsari”, i giovani intellettuali che hanno partecipato ai corsi di selezione voluti dal direttore generale Filiberto Guala. Con lui ci sono, tra gli altri, Gianni Vattimo, Furio Colombo (che è già stato suo compagno d’avventura nella redazione del “Vittorioso”, il settimanale per ragazzi promosso dall’Azione Cattolica), il critico letterario e futuro direttore di Rai 3 Angelo Guglielmi. È un periodo di straordinaria vitalità culturale. Eco lavora a Milano, nella sede Rai di corso Sempione dove si trova anche il leggendario Studio di Fonologia musicale diretto dal compositore Luciano Berio. «Ci passavano Maderna, Boulez, Pousseur, Stockhausen – ricordava –. La sera, a casa di Berio, mangiavamo la cucina armena di Cathy Berberian e si leggeva Joyce».
Prende corpo quella che Eco stesso, in uno dei suoi interventi di fiancheggiamento alla neoavangaurdia del Gruppo 63, definirà «la generazione di Nettuno»: se i padri, i grandi innovatori affacciatisi all’alba del XX secolo, appartenevano all’operosa stirpe del fabbro Vulcano, i figli e i nipoti sono palombari dell’immaginazione, il loro lavorio, «lento e sotterraneo, emerge solo dopo lunghi tratti». Non accendono il fuoco e neppure lo contemplano, se non attraverso lo schermo della citazione appropriata, del riferimento funambolico. La mescolanza di cultura alta e cultura bassa, si ripete oggi. In realtà, è la cultura alta che si esercita sulla materia vile del pop, dei media, delle canzonette, della tv in particolare. Un contributo sotto ogni aspetto epocale come “Fenomenologia di Mike Bongiorno” (apparso in origine nel 1961 e raccolto due anni più tardi nel fortunatissimo Diario minimo) è espressione di questa complessità. Eco si maschera da entomologo della comunicazione, ma le sue osservazioni sono sostenute da una conoscenza diretta, artigianale, del mezzo televisivo. A differenza dell’amico Gianfranco Bettetini, non pratica la regia dei programmi, ma non per questo ne ignora le malizie. L’impegno in Rai si svolge in parallelo alla marcia di avvicinamento alla cattedra in Semiotica, che lo studioso ottiene all’Università di Bologna nel 1975. Nella sua bibliografia figurano già titoli come Apocalittici e integrati (1964), La struttura assente (1968) e il fondamentale Trattato di semiotica generale . A breve si aggiungeranno Il superuomo di massa (1976), Lector in fabula (1979) e numerosi altri saggi che segnano profondamente lo spirito del tempo.
Docente appassionato e all’occasione severo (valutò negativamente una tesina del suo studente Pier Vittorio Tondelli perché troppo letteraria e non abbastanza scientifica), Eco è il commentatore arguto e sapiente che ogni settimana firma “La bustina di Minerva” sull’“Espresso”, è un bibliofilo impenitente e, nello stesso tempo, una voce molto ascoltata su tematiche politiche e sociali. L’esordio come narratore, in un certo senso, sorprende perfino lui. Il nome della rosa era, nelle intenzioni, poco più di un divertimento accademico che Valentino Bompiani, il suo editore, pubblica nel 1980 in poche migliaia di copie. Il successo è immediato e impressionante: il premio Strega, le traduzioni internazionali, il film interpretato da Sean Connery, le vendite che sfiorano quota dieci milioni.
Ambientato in un Medioevo nel quale le indagini di Sherlock Holmes si intrecciano alle fantasie metafisiche di Borges, Il nome della rosa è anche il libro da cui scaturisce in Italia la polemica sul postmoderno. Eco è accusato di patrocinare una narrativa combinatoria, sfuggente, ordita per soddisfare le esigenze di quell’industria culturale che lo stesso scrittore aveva in precedenza avversato. I romanzi successivi, dal Pendolo di Foucault (1988) a Numero zero (2015), passando per L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000), La misteriosa fiamma della regina Loana (2004) e Il cimitero di Praga (2010) giustificano almeno in parte le critiche. Eco, però sostiene di partire da un assunto diverso. «A quanto pare – dichiarava nella già ricordata intervista del ’94 – senza accorgermene, scrivo sempre romanzi teologici». E ancora: «Non so dire quale sia esattamente l’idea attorno alla quale, per me, tutto ruota. Forse il problema se il mondo esiste». Nel 2012, in una conversazione con “Avvenire” favorita dalla pubblicazione dei suoi Scritti sul pensiero medievale, aggiungeva: «Sono convinto che viviamo sommersi da falsificazioni, dalla menzogna come strumento di potere e di manipolazione del consenso, dalla diffusione di false notizie come arma di destabilizzazione. Questo è il Diavolo».
In che cosa crede chi non crede? è il titolo del suo carteggio con il cardinale Carlo Maria Martini, svoltosi a metà degli anni Novanta e riproposto nel 2014 da Bompiani, la casa editrice che ha in catalogo quasi tutta la sua opera, compresi i saggi dell’ultimo decennio, tra cui andranno ricordati Storia della bellezza, Storia della bruttezza, Vertigine della lista e Storia delle terre e dei luoghi leggendari. Questa lunga consuetudine non gli aveva impedito di unirsi, nel novembre scorso, all’impresa della Nave di Teseo, la nuova sigla editoriale lanciata da Elisabetta Sgarbi in risposta all’acquisizione di Rcs Libri (di cui Bompiani fa parte) da parte di Mondadori. Un’impresa che Eco aveva scelto di sostenere anche economicamente e alla quale aveva voluto contribuire con Pape Satàn Aleppe, una raccolta di scritti sulla società contemporanea la cui uscita è ora annunciata per il 27 febbraio. Titolo beffardo, come nello stile di Eco, ma si sa che tra i saggi ce ne sarà anche uno su papa Francesco. In lui l’esegeta della Summa Theologiae riconosceva un erede dei gesuiti che nel Seicento avevano realizzato le reducciones a beneficio degli indios del Paraguay. Erudizione o non erudizione, questa volta il fuoco Eco lo aveva guardato davvero.
in “Avvenire” del 21 febbraio 2016
 
 
Dio? Filosofo, non ingegnere
Un ‘intervista a Umberto Eco del 1982
Spulcio dal taccuino fitto di note dopo qualche ora di colloquio: «Non credo più in Dio, ma forse Dio crede ancora in me. Dunque, manteniamo un certo rapporto». «Se trovi qualcuno che ama troppo gli altri, sappi che con ogni probabilità è un ateo». «Dio è laureato in filosofia più che in ingegneria». «La scommessa di Pascal va rovesciata: conviene scommettere sull’inesistenza, non sull’’esistenza di Dio».
«A proposito di Pascal, se abitasse sul mio pianerottolo ci saluteremmo ossequiosi ma ci frequenteremmo poco. Se ci fosse invece Tommaso d’Aquino, tutte le sere giocheremmo a briscola assieme ma finiremmo con l’andare per avvocati. E magari lui mi denuncerebbe alla Digos per cercare di incastrarmi». «Se fossi Dio e avessi un Figlio lo manderei a studiare all’università di Harvard e non a quella di Camerino». «Che la Chiesa sia cambiata me ne sono accorto quando i cappuccini di Alessandria mi hanno accolto in convento con mia moglie (donne in clausura!) e mi hanno chiesto che marca di whisky preferivo».
Anche questa volta, Umberto Eco non ha deluso il suo interlocutore: il “signore dei segni”, come lo chiamano, è il contrario del tetro, sussiegoso, spiritoso barone universitario standard.
Questo ex dirigente nazionale di Azione Cattolica, quest’uomo che sino all’università conobbe soltanto il chiuso cattolicesimo preconciliare (dove spesso, per usare una sua espressione, «la santità si accompagnava a una preoccupante mancanza di ormoni»), questo devoto da comunione quotidiana, che scelse san Tommaso per la sua tesi pensando alla fede da difendere e non a una cattedra da conquistare, da ormai un quarto di secolo sembra programmato e aggiornato continuamente da un computer secondo il modulo del perfetto collaboratore de L’Espresso. O, se volete, de L’Express, di Esquire, del New Yorker. O, magari, del nuovissimo FMR, il mensile di Franco Maria Ricci.
Intelligentissimo, coltissimo, furbissimo (nel senso ammirato del termine) sa a perfezione che l’eroe intellettuale radical dell’Occidente postindustriale deve occuparsi con estrema serietà del “frivolo”, dell’”effi-mero”. Dunque, ricco apparato critico e filologico applicato a fumetti, disco-music, juke-box, discipline universitarie un po’ stravaganti, mode culturali “emergenti” e comunque “nuove”. Il criterio di scelta deve infatti ispirarsi alle leggi della “crono latria”, come l’ultimo, un po’ incattivito Maritain chiamava il culto del “giovane”, del “nuovo”, dell’inedito.
In tutto poi, la sterminata erudizione deve mascherarsi dietro una verve un po’ distratta, ironica: il vecchio surtout pas trop de zèle ammonisca e guidi, sì che il tono della commedia non scivoli mai nel dramma sempre inelegante. Magari nel dramma per eccellenza: il prendere troppo sul serio se stessi, il proprio mistero, le domande ultime, quelle che affiorano dentro nel buio solitario della notte, quando il cicaleccio del seminar, del dibattito è sospeso sino al mattino.
Se poi quelle domande continuano a inquietare – se, come è il caso di Eco, si ha ben altra sensibilità, ben altro spessore umano di un Moravia, altro eroe di questa cultura ma afflitto da lugubre superficialità, occupato solo dalla sua senile monomania erotica – allora le si esorcizzi montando una gran macchina di parole per dire che quelle domande sono insignificanti, anzi, che forse non esistono proprio. Il che è avvenuto con II nome della rosa. Che è libro mirabile nel senso etimologico della parola.
Consumatore smodato, quasi maniacale, quale sono, di libri e giornali, quello è il chilo di carta che salverei assieme a pochi altri, estraendolo dal container di roba stampata subita in questi ultimi tempi. Libro tanto più “velenoso” (sarà lo stesso autore a suggerirmi l’aggettivo) quanto più abile, colto, bello. Romanzo che rinnova il programma che fu già di Sartre («Di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare»), ma con diversa levità divertita della saggistica travestita da narrativa de La nausea o de II muro o de II diavolo e il buon Dio.
L’eccellente riuscita de II nome della rosa è proprio nella felicità narrativa che permette anche alle casalinghe di arrivare alla fine divertendosi, appassionandosi alla trama, assorbendone gli umori maliziosi senza neppure accorgersene. In questo senso, perfetto strumento di “cultura di massa”.
La reazione dei critici “cattolici” ha stupito lo stesso Eco. «Se fossi ancora credente, sarei stato ben più severo, ben più intollerante», mi dice l’autore nella sua casa milanese di via Melzi d’Eril, sulla cui facciata campeggia una scritta, un reperto bellico (U.S., Uscita di Sicurezza, del rifugio antiaereo si intende) che richiama curiosamente il titolo famoso di Ignazio Silone.
La delusione di Eco è giustificata: è successo infatti che quei cattolici che scambiano il dialogo con le dimissioni (o che forse non hanno sufficiente acribia o non vogliono crearsi nemici tra la cultura “che conta”) hanno osannato II nome della rosa; come è giusto vista la bravura dell’autore. Ma nel contempo non hanno spiegato al lettore disarmato che quelle pagine erano un’intenzionale – ed efficacissima – mina vagante lanciata dal semiologo-scrittore sulla strada, oggi già così impervia, del continuare a credere.
Per fortuna – anche a conforto di Eco, scontento per la polemica mancata – non tutti dormono anche nella vecchia Compagnia di Gesù. Ecco allora la Civiltà Cattolica uscire con una grossa bacchetta e picchiare a dovere sulle nocche dello scrittore. Già il titolo dell’articolo è esplicito: L’allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco.
Le cinque, fitte pagine di padre Guido Sommavilla s.j. finiscono senza troppi complimenti: «…un altro lampante falso storico, tra i tanti di questo libro: tutto costruito a specchi deformanti in serie sistematica e tattica strisciante, a discredito e derisione (anche se fa poi ridere così poco) di tutti i valori della Chiesa, della religione, dell’etica, della civiltà e della vita».
Un finale forse un po’ scomposto – almeno per i gusti di Eco e miei – ma al quale il padre giunge dopo un circostanziato j’accuse così riassumibile, alla buona: lo sforzo del libro sarebbe tutto teso a dimostrarci che non c’è nulla di vero né di serio, tranne la sua (di Eco) personale verità e la sua ironia; egli (Eco) vorrebbe convincerci che non c’è alcuna differenza tra Cristo e Giuda, tra santo e delinquente, mancando ogni termine sicuro di confronto.
Qui Pilato ancora una volta ghignerebbe il suo quid est veritas? Anzi, scrive padre Sommavilla ritorcendo il boomerang: «Ma se la verità è che tutto è da ridere, è da ridere anche la teoria che afferma che tutto è da ridere, tutta da ridere è dunque anche l’idea centrale di questo libro. È dunque ridicolo sostenere che tutto è ridicolo».
L’accusato – cui ricordo il cahier, – fa la sola cosa che gli è consentita: ride. «Ho l’impressione che il buon padre abbia visto giusto», mi dice, «ha ben individuato la boccetta di veleno del libro, anche se poi ha forse pestato un po’ troppo il pedale. Dimenticando oltretutto di dire che tutto ciò che io metto in bocca a fra Guglielmo, il mio protagonista, non è che un collage di citazioni da quel grande pensatore francescano che fu Occam; e che il mondo della spiritualità medievale, nel libro, è vissuto (mi pare) molto dal di dentro e senza riderci su».
Spiega: «L’assoluta onnipotenza di Dio: ecco la tesi centrale de II nome della rosa. Qui è, paradossalmente, la radice dell’ateismo: un Dio che può giungere sino a violare il principio di non-contraddizione, a far sì che ciò che è avvenuto non sia mai avvenuto, finisce coll’esplodere nel Caos, nel panteismo; nel nichilismo appunto. A differenza di Tommaso d’Aquino, Occam toglie a Dio ogni limite: con questo si dissolve non solo la scolastica, ma la possibilità stessa di un Dio conoscibile, razionale».
Va bene, va bene: i soliti giochi verbali da filosofo, privi di alcuna verifica; chi ci assicura che l’ipotesi su Dio dell’Occam secondo Eco sia più reale di quella del Tommaso secondo i tomisti? Veniamo al concreto, piuttosto: la scommessa per Dio e contro Dio nasce dal vissuto esistenziale, mai da un teorico argomentare. Di recente, Eco ha parlato della sua «meditata apostasia». Gli va dato atto che, a differenza di tanti ex cattolici non ha lasciato la Chiesa per rifugiarsi nella sagrestia di un’altra chiesa, quella del “Partito” con la maiuscola, il comunista.
È rimasto un “cane sciolto” (anche questa è una sua autodefinizione), seppure sempre dentro gli steccati del neoilluminismo. «Illuminista sì ma, prego, illuminista bizantino», mi ricorda, «il semplice illuminista è uno che crede impossibile trovare una spiegazione globale del mondo. L’illuminista bizantino sarebbe d’accordo, ma sospetta sempre che magari non è plausibile neppure quello scetticismo. Che anche quella rete, quel labirinto (non una piramide!) che è l’universo dei segni in cui siamo immersi abbia una nascosta spiegazione».
Ma non gli sembra ormai patetico l’illuminismo con il suo dogma di base, l’inesistenza del peccato? Oggi, poi; quando c’è chi comincia a dire che l’ipotesi cristiana del peccato (a partire da quello “originale”) è la sola verità scientificamente dimostrabile, visto come sta andando la storia di ciascuno e dell’umanità.
«È vero», ammette, «siamo tutti sbagliati, ça ne colle pas come dice un mio amico psicanalista francese: ma non so rispetto a che cosa. E poi sono convinto che alla fine, e anche qui non so come, ce la caveremo». Il che, gli osservo, è la tesi cristiana: il mondo, nel suo complesso, è già salvato, può finire male (inferno?) la storia personale di qualcuno ma non la globalità della storia, che va verso il suo compimento.
«Se vuole», mi concede. «Ripeto: credo che ce la caveremo, ma non so come. Nel ritorno del Cristo, nella Parusia io non credo». Ecco saltare fuori il nome decisivo. Come si arriva a una “meditata apostasia”, per quali motivi uno che accettava il Cristo – e con tanto fervore come il giovane Eco – decide poi di ritirare la sua speranza?
Qui, il filosofo, il semiologo, lo scrittore, si lancia in complesse dimostrazioni che – con ogni rispetto e ammirazione per le agudezas – non sfuggono al sospetto di essere state elaborate post factum, per razionalizzare un rifiuto che ha l’aria di venire (come ogni sentimento vero) più dal cuore che dalla ragione. Due in sostanza gli argomenti di Eco. Primo: scegliendo di far nascere suo Figlio, nel bacino mediterraneo durante la Pax Romana, Dio avrebbe fatto una precisa scelta “etnocentrica”, a favore di una razza, di un popolo, di una cultura; avrebbe cioè valutato «il modello culturale occidentale come il migliore possibile».
Facile obiettare che, se l’Incarnazione aveva da essere, in qualche posto doveva pure realizzarsi. E che è difficile considerare “occidentale” la cultura di Israele: è piuttosto sotto il suo impatto tipicamente orientale che l’Occidente si trasforma sino a identificarsi con categorie che (seppure in varia maniera ellenizzate), in realtà vengono dall’Oriente. Volendo continuare su questa strada, poi, un’occhiata all’atlante ci mostrerebbe Israele come il posto-cerniera per eccellenza tra i tre continenti decisivi per la storia umana: Asia, Europa, Africa.
Passiamo all’argomento due che è il vecchio tema del ritardo della Redenzione. Perché, si chiede Eco, se il male del mondo è così grave, il Liberatore arriva dopo tanti millenni di storia? Se tante generazioni sono nate e morte senza redenzione, «non vuoi forse dire che il peccato agli occhi di Dio non è poi così grave, che Gesù è colui che doveva redimere dalla varicella?».
Anche qui, non sarebbe difficile rinviare a quell’altro argomento cristiano della “pedagogia” divina. Per la fede, il Messia non è un agente dei Nocs o dei Gis, il paracadutista di un commando che fa una repentina apparizione: entrare nella storia significa rispettarne anche i ritmi, assumerne la lunga pazienza.
Ma è chiaro che su questa strada il dibattito sarebbe presto bloccato, con scambio fittamente elegante di reciproci sofismi. Professor Eco, «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Dove sono le radici vere della “apostasia”, meditata o no che sia? Questo filosofo (che per fortuna non è un ideologo) è pronto a concedermi che qualunque “prova o “ragionamento” serve solo a convincersi di ciò di cui si è già convinti.
«Perdere la fede», dice, «è l’interruzione di un circuito elettrico. È vero: l’aspetto razionale non basta a spiegare la mia storia; ma non basta neppure quello biografico. Altri che hanno avuto le mie vicende, la fede l’hanno conservata». Scoprendosi – a tratti – nella sua umanità mi parla della «tragicità della scommessa sull’inesistenza di Dio».
«Chi punta in questo modo deve produrre molto più amore del credente, per giustificare la sua vita e la sua morte». La morte, appunto; il suo dramma, lo scrittore lo vive nella carne, da quando suo padre morì inaspettatamente: «Sono passati tanti anni da allora, ma ci penso sempre. Io non cerco, freudianamente, di vendicarmi di mio padre, ma di vendicarlo». Eco, dov’è suo padre, dove sono gli altri morti, dove saremo noi? Che c’è dietro quelle porte bronzee? «C’è il caos», dice con voce sicura, almeno in apparenza. «Oppure c’è il deserto piatto».
La morte, gli ricordo, è la scommessa per eccellenza, aperta nella sua logica a due esiti possibili. E se avessero ragione coloro che dicono che sarà Gesù, che sarà il carpentiere di Nazareth a venirci incontro? «Guardi», mi dice, «se per caso Cristo-giudice c’è davvero e vuole imbastirmi un processo gli dico più o meno le cose che sto dicendo a lei: ho ragionato così e così e sono arrivato alla conclusione che non eri tu ad aspettarci.
Credo che in questo modo potremmo giungere a patti ragionevoli. Se invece ragionevole non è, se è il Dio crudele e vendicativo che magari ha già deciso in anticipo il mio destino, allora non voglio avere niente a che fare con lui. Mi mandi pure all’inferno, dove almeno c’è gente per bene. Ma se un Dio c’è, è il Dio di San Tommaso e con questo si può ragionare. Abbiamo studiato sugli stessi libri».
Ben trovato, ma non è forse un po’ troppo – come dire – antropomorfo per essere convincente del tutto? Non è un proiettare nei cieli il “Vostro onore” del processo da telefilm o il «non sono d’accordo con il compagno che ha parlato prima» del dibattito al comitato di quartiere? Pur messo a forza dentro categorie aristoteliche, il Dio di Tommaso non ha perso del tutto il ricordo del Dio di Paolo ai Corinti: «Sta scritto infatti: distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove è mai il sottile ragionatore di questo mondo?».
Ma qui dobbiamo fermarci. Anche se — prima di congedarmi per andare a cena con il suo amico Luciano Berio, il musicista d’avanguardia – Eco ha trovato modo di dire tante altre cose, tutte interessanti, che spiace non potere trascrivere. Chissà, pensiamo infilandoci nell’ascensore, se il “bizantino” riuscirà un giorno a prevalere sull’illuminista? Su quella cultura dimezzata, cioè, che da due secoli ci soffoca dicendo che ci libera non riuscendo a vedere che «l’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è una infinità di cose che la superano».
Vittorio Messori
(articolo tratto da www.famigliacristiana.it, pubblicato sul mensile Jesus, n. 4 nel 1982)