Ai nostri giorni, riflettere sul concetto di democrazia sembra condurre il pensiero verso una rilettura di una situazione dal sapore paradossale. Infatti, in questo ventunesimo secolo, da una parte, sia a livello politologico sia a livello di senso comune, la democrazia viene considerata la forma di governo che quasi nessuno osa mettere in discussione; sebbene interpretata e realizzata in maniere differenti nel mondo, talvolta, lungi rispetto al paradigma europeo, è percepita come un modello a cui assurgono le più svariate posizioni ideologiche.
D’altro canto, però, proprio in Europa, la culla dell’archetipo politico democratico, questo modello di governo passa una fase difficile, caratterizzata da sentimenti di sfiducia e disagio che attraversano verticalmente il tessuto sociale. Una difficoltà questa che si è percepita in modo crescente negli ultimi anni e che, in quest’ora segnata dal dramma della pandemia del covid-19, pare acuirsi non solo nei confronti del sistema politico nazionale, ma in modo ancora più evidente nei confronti degli organismi sovranazionali verso i quali, forse mai come in questo tragico momento storico, si percepisce un senso di diffidenza e discredito molto forte.
Il doloroso frangente con cui l’umanità si sta misurando ha riportato a galla la necessità di tornare a riflettere sulla crisi contemporanea dell’ideale democratico.
La “crisi della democrazia” è una tematica che, con sempre maggior frequenza negli ultimi anni, è stata al centro di numerose discussioni che hanno cercato di leggere e interpretare l’attuale situazione politica globale e dei singoli paesi.
La problematica relativa allo stato attuale della democrazia è oggetto di autorevoli studi accademici, ma, parimenti, è anche divenuta un contenuto molto gettonato dai rotocalchi televisivi dedicati ad accesi dibattiti che vorrebbero parlare di politica, nonché argomento di scontro nello spazio virtuale dei social network, dove troppo spesso la comunicazione rimane meramente emotiva e poco riflessiva. Il risultato è che la densità socio culturale della questione è andata a liquefarsi e conseguentemente anche ad essere sempre più banalizzata, tanto che parlare di “crisi della democrazia” è diventato una sorta di slogan dai contenuti indefiniti, che tenta di leggere lo scenario politico contemporaneo senza spiegare niente e muovendo solo emozioni, che si sono consolidate in sentimenti negativi e astiosi. Il tema di stringente attualità non può certamente rimanere una riflessione accademica, ma non deve neppure essere banalizzato.
In tutto questo emerge la necessità di un pensiero formato per affrontare una questione tanto urgente. Questo pensiero non nasce dal nulla, ma si può costruire attraverso una proposta pedagogica che aiuti a riscoprire l’impegno civile e la responsabilità politica.
Si tratta di una sfida pedagogica che tutte le agenzie educative devono recepire come priorità. Questa priorità educativa affonda le sue radici in una visione antropologica capace di rimettere al centro della teoresi e della prassi paidetica un umanesimo integrale. In questo orizzonte diventa, oggi più che mai, importante ridefinire i fini stessi dell’educazione. In questo processo il fondamento è reperibile nel riconoscimento della dignità della persona umana e della sua eccedenza trascendente.
Si tratta di un percorso arduo, che, però, può trovare nella bimillenaria tradizione dell’educazione classica e cristiana una risposta sempre valida, in cui l’educazione è teleologicamente orientata alla formazione di uomini e donne capaci di vivere in una prospettiva di autonomia di giudizio, in cui la superficialità e l’indifferenza possono essere superati. Un’autonomia che può essere raggiunta nella scoperta della libertà, che ontologicamente compete alla persona e che deve essere supportata da un processo educativo ordinato assiologicamente: «L’educazione deve formare nell’uomo quello che unicamente dipende da lui, che è precisamente la sua azione: in quanto è libera. La norma morale non dipende dall’uomo in questo senso: gli è, in un certo senso, anteriore, e gli si presenta perciò l’obbligo di un adeguamento ad essa. Ma tale adeguamento non può non essere libero. E di esso deve essere reso capace. In questo appunto consiste il compito dell’educazione»[1].
L’educazione si compie nel condurre, dunque, un soggetto a raggiungere il proprio sviluppo integrale nella scoperta dell’autentica libertà. Si tratta di introdurre la persona nella realtà del cosmo, dove è possibile rintracciare un ordine ontologico, che determina l’ordine morale e mette l’uomo di fronte alla gerarchia dei beni e dei valori, in altre parole di fronte alla verità.
Il relativismo etico contemporaneo, frutto di una visione antropologica ridotta all’immanenza dei fenomeni sensibilmente esperibili, che porta a ritenere inesistente un criterio oggettivo e universale per riconoscere la corretta gerarchia dei valori, è diventato il fattore di rischio maggiore per la sopravvivenza dei sistemi politici democratici. Già Giovanni Paolo II metteva in luce questo pericolo: «Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo e il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forze politiche democratiche, e che quanti sono convinti di conoscere la verità e aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere»[2].
Se la crisi attuale dei sistemi democratici è in corso da anni ed è quanto mai palpabile ai tempi del covid19, prima che l’edificio politico dell’autentica democrazia crolli, occorre recuperare un paradigma pedagogico che metta al centro lo sviluppo pieno di ogni individuo attraverso un’educazione nella ricerca, nel discernimento della verità e tout court del bene. I giovani devono essere educati ad utilizzare e fruire la libertà di intraprendere un cammino in cui possono crescere e svilupparsi come persone pienamente umane. Ormai da troppo tempo questo fine dell’educazione pare essersi eclissato da tante parti e, tendenzialmente, si considera lo scopo dell’educazione in termini eccessivamente utilitaristici.
Aver messo al centro il successo economico ha condotto alla nascita di una competitività esagerata e ha fatto prevalere preoccupazioni decisamente egoistiche, dando vita a quella che Papa Francesco chiama la “cultura dello scarto”. Uscire da questa entrasse può essere possibile se si guarda ad un paradigma educativo che possa essere in grado di promuovere tutto ciò che è pienamente umano. Questo può essere attuato anzitutto dalla famiglia e poi dalla scuola. Proprio nella scuola occorre rivedere quegli approcci pedagogici che hanno accantonato l’imparare ad essere qualcuno a favore del saper fare qualcosa.
Bisogna ripartire da una didassi che prendendo le mosse dall’esperienza umana metta l’accento sulla ricerca e sulla scoperta dei modelli, dei rapporti, dei fatti, degli interrogativi, delle concezioni, delle conclusioni, dei problemi, delle soluzioni, delle implicazioni che ogni disciplina può mettere in luce riguardo a ciò che significa, nella sua piena accezione, essere una persona umana. Si deve ripensare ad un’educazione alla libertà nella verità, che non può sussistere perché un soggetto rimanga in uno stato solipsistico, ma perché questo soggetto possa vivere al meglio la propria umanità, che è fatta di relazione nella società: «La persona, infatti, si svolge e si perfeziona non nell’egoismo, ma nel compimento dell’atto sociale. L’uomo, entrando a far parte della società e donandosi ai fratelli e alla comunità, crea le condizioni per poter ricevere dalla società un ricambio moltiplicato. L’uomo che, vivendo in società, riceve da essa molti benefici ed ausili, è moralmente tenuto a far confluire la sua attività all’accrescimento del patrimonio comune. Egli non può sottrarsi al compimento di questo preciso dovere. Perché è proprio nel compimento di questo dovere, che è un dovere ispirato dall’amore, che egli consegue un perfezionamento personale e avanza verso la sua perfezione»[3].
In questo orizzonte antropologico e valoriale, che costituisce una ratio pedagogica basata nella radice trascendente dell’uomo, si può prospettare un nuovo impulso educativo teso a formare i giovani nella giustizia. Questo ha il suo incipit nel rispetto della libertà, del diritto e del potere che persone e comunità hanno di procurarsi una vita autentica: questo significa un impegno della comunità educante a fornire ai giovani le ragioni testimoniate della ricerca di una vita faticosa, ma di qualità, in cui è possibile sperimentare la gioia di condividere con altri la propria vita, scoprendo che ciò che sono vale più di ciò che hanno e apprezzando quanto gli altri siano il loro più ricco tesoro.
In questi lungi giorni di pandemia, in cui il mondo si è fermato, può essere necessaria una sosta anche per chi è impegnato nell’arduo campo dell’educazione. Una sosta per valorizzare le tante iniziative di bene, che hanno messo in discussione stili di vita ormai insostenibili, e per riflettere su percorsi educativi da porre in essere per far crescere nei giovani il desiderio di bene comune. Proprio dalle macerie di questa potente ondata di sofferenza adulti e giovani potranno riscoprire la bellezza di un impegno autentico nella polis ed adoperarsi, affinché possa trovare nuova linfa la democrazia, ricordando che: «Un’autentica democrazia non è solo il risultato di un rispetto formale di regole, ma è il frutto della convinta accettazione dei valori che ispirano le procedure democratiche: la dignità della persona umana, il rispetto dei diritti dell’uomo, l’assunzione del “bene comune” come fine e criterio regolativo della vita politica»[4] .
 
Luca Raspi
[1] G. Corallo, Pedagogia I, Armando Editore, Roma 2010, p. 189.
[2] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Centesimus annus, n. 46.
[3] G. Nosengo, La persona umana e l’educazione, La Scuola, Brescia 2006, p. 203.
[4] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 407