La vicenda di Lenny Belardo, salito al soglio pontificio con il nome di Pio XIII, primo papa americano della storia. La sua elezione sembra utilissima per avviare un’efficace strategia mediatica. Ma non è così facile piegarlo, né ai voleri della Curia né di chiunque tenti di manipolarlo.
I primi due episodi della serie (che ne prevede dieci) offrono già la possibilità di riflettere sul complesso di un’opera che si prefigura, se manterrà le promesse ma non c’è motivo di dubitarne, come uno dei vertici della filmografia sorrentiniana. Innanzitutto perché la misura ampia di scrittura che la serialità consente fa sì che lo sceneggiatore Sorrentino sembri aver trovato lo spazio ideale in cui dispiegare la propria visionarietà ma anche la ricchezza quasi inesauribile di occasioni di riflessione che la durata di un film, per quanto ampia, non consente. Quasi a contraddire quanto appena scritto (ma la contraddittorietà produttiva di senso è al centro del comportamento di Lenny/Pio XIII), la materia che viene sviluppata viene sintetizzata così da Sorrentino: “I segni evidenti dell’esistenza di Dio. I segni evidenti dell’assenza di Dio. Come si cerca la fede e come si perde la fede. La grandezza della Santità, così grande da ritenerla insopportabile”.
È ovviamente uno sguardo laico quello che ci viene proposto ma profondamente intriso di sapere sia sul piano teologico che su quello delle dinamiche interne alla curia. Se Moretti ci aveva proposto un pontefice che sentiva come troppo gravoso il peso dell’incarico conferitogli, Sorrentino ce ne propone uno che, come ci suggerisce la prima inquadratura (grazie anche a un sempre più intenso Luca Bigazzi), tenta di emergere da un’infanzia che ancora lo segna profondamente tanto da spingerlo a individuare nella suora che lo accolse in passato un sostituto ancora valido della figura materna. Il Santo Padre ha ancora un assoluto bisogno per sé di un padre con entrambe le iniziali (maiuscola, nei cieli e minuscola sulla Terra). La sua ironia, la sua apparente determinazione, il suo atteggiamento, a tratti sprezzante e a tratti disponibile all’ascolto, hanno un pensiero alla loro base: “Dio è come l’uomo: non cambia”. Frase che può essere interpretata sia su un piano di pessimismo cosmico sia su quello di una certezza, di una pietra angolare su cui edificare un’idea di Chiesa.
Sorrentino, come il suo papa interpretato con grande aderenza da Jude Law, è abilissimo nello spiazzare lo spettatore quando sembra spingere sul pedale della satira anticlericale ritraendosi però al momento giusto per suggerire la possibilità (mai ovviamente la certezza) di un ‘oltre’ che vada al di là degli intrighi e della pochezza di uomini che vorrebbero essere di Dio. In fondo Pio XIII non è così lontano da chi lo ha creato: entrambi amano la ritualità perché offre loro innumerevoli possibilità di sconvolgimento concettualmente che per Sorrentino, anche quando pensa al cosiddetto piccolo schermo, è sempre e comunque Cinema.
 
 
La ferita del giovane papa potrà diventare una poesia
di Massimo Recalcati

«CHI è Dio?», «Dov’è Dio?», «Cos’è Dio?». Sono le domande incalzanti che risuonano insistenti in The Young Pope, l’ultimo grande film di Paolo Sorrentino trasmesso per Sky nella forma del serial televisivo che oggi si conclude. Domande che il giovane papa, Pio XIII, interpretato da un intensissimo Jude Law, non cessa di porsi sebbene sia stato nominato inaspettatamente dal Conclave erede di San Pietro. Domande che costituiscono uno dei centri più forti della narrazione di Sorrentino sullo sfondo della triste fenomenologia della degradazione morale del clero e delle sue gerarchie vaticane, dei giochi di potere, del cinismo e del carrierismo narcisistico.
Nel suo sembiante Pio XIII si presenta come un papa che non conosce la subdola minaccia del dubbio. Il suo magistero viene impostato come anti-illuminista e anti-conciliare. Il suo programma restauratore è quello di rovesciare ogni forma patetica di evangelizzazione per ripristinare la verticalità assoluta di Dio in totale controtendenza rispetto al nostro tempo. Appare spietato, persino sadico, coi suoi nemici cardinali e un abile stratega nel rapporto col potere temporale. In contrasto con la sua giovane età si presenta come il difensore implacabile e severo dei principi più dogmatici della dottrina, antagonista al multiculturalismo ipermoderno, contrario ad ogni forma di liberalizzazione, integralista, sostenitore della fede senza incertezze e dell’infallibilità assoluta del pontefice. Con la stessa ira di Cristo, vuole cacciare i mercanti dal tempio, rifiuta di offrire la sua immagine alla logica del marketing, è ostile ad ogni processo di umanizzazione della Chiesa. Vuole restare invisibile, nell’ombra, testimone dell’assenza.
Il suo carisma non è quello francescano del servo di Dio, dell’umiltà e della compassione amorevole. Incarna piuttosto, nella sua durezza scontrosa, l’inaccessibilità di Dio. La sua teologia è anti-umanistica e Dio-centrica: non è l’uomo che conta, ma l’alterità assoluta di Dio. Ecco di cosa non dovremmo mai dimenticarci, ammonisce nel suo primo discorso pronunciato dal balcone di San Pietro di fronte ad una folla che si rivelerà sempre più smarrita. Il suo non è il volto del papa buono che sorride alla luce della luna, ma quello che richiama la tempesta, che decide di stare nell’ombra, di rimanere invisibile, di sottrarre la propria immagine umana agli occhi dei fedeli. Nessun movimento verso il popolo, nessuna empatia; non ristora, non rassicura, non consola, ma avverte che la vita dell’uomo senza la vita di Dio è vita morta. Il suo discorso è uno schiaffo deciso ad ogni versione populistica e biecamente utilitaristica della religione. Riabilita il Dio giudaico, pre- cristiano, quello della violenza redentrice, come quando nel discorso rivolto ai cardinali, al limite del delirio, presenta Dio come il costruttore dell’inferno.
Da dove viene questa teologia non Cristo-centrica ma Dio-centrica? Questa fede che vorrebbe rigettare ogni forma di dubbio, questa rappresentazione di Dio come sguardo impassibile? Ecco l’altro grande centro della narrazione di Sorrentino che viene esposto con una sensibilità per nulla estranea alla cultura psicoanalitica. Lo sguardo di Dio è lo stesso che ritorna negli incubi del papa nella forma dello sguardo freddo e distaccato della madre che da bambino lo abbandona in un orfanotrofio.
Il segreto di Pio XIII, papa-padre, simbolo più alto della Legge, è quello di essere stato un figlio scartato, abbandonato e, dunque, smarrito, profondamente incerto sulla fede nell’Altro, minato dall’incertezza. Il desiderio dei suoi genitori non gli ha attribuito alcun valore. Egli ha fatto così esperienza prematura della morte. La sua vita è stata svuotata di senso dal fallimento del primo e fondamentale amore. Per questo nella sua vita non ha fatto altro che ricercare affannosamente in Dio un amore sicuro. Grande tema sorrentiniano — presentissimo in tutta la sua opera — dell’esperienza irreversibile e originaria della perdita. Ecco il segreto della fede, al limite del fanatismo, di Lenny: restaurare l’amore ferito, recuperare l’oggetto impossibile da recuperare. È il dramma che abbiamo incontrato anche in Jep, il protagonista della Grande bellezza, confrontato lui stesso con un primo amore tanto perduto quanto indimenticabile. Lo stesso incontro d’amore con una ragazza che travolge per una settimana un giovanissimo Lenny prima della sua entrata in
Seminario. Traccia indelebile della perdita che raddoppia quella dei genitori. Amori che lasciano ceneri che non smettono di spurgare sangue.
È dalla ferita inguaribile dell’orfananza che scaturisce la sua scissione più drammatica: il custode della fede è alla ricerca tormentata della fede, il padre della Chiesa è un figlio smarrito, traumatizzato dalla perdita dei suoi genitori. Il volto austero di questo Dio lontano protagonista della teologia Dio-centrica di Pio XIII incarna lo spirito di vendetta del figlio abbandonato verso i suoi genitori colpevoli di non averlo amato? Oppure il problema è ancora un altro, ovvero che l’amore umano è sempre imperfetto, fonte di dolore e di pena, destinato all’agonia, mentre la salvezza può darsi solo nell’amore imperituro per Dio. Solo Dio, infatti, risponde, non abbandona, solo il suo amore è definitivo.
Eppure, come l’assenza inspiegabile dei suoi genitori, anche Dio resta per Lenny un mistero inaccessibile. Diventare prete è stato un modo per continuare a restare figlio? La fede è davvero una vigliaccheria? Cercare lo sguardo di Dio è cercare lo sguardo perduto della propria madre? Non è così che si chiude lo straordinario racconto di Sorrentino. Il giovane papa diventa uomo e il Dio inaccessibile si trasforma in un Dio del sorriso. L’immagine di Pio XIII potrà rinunciare finalmente al rifugio dell’ombra. La sua ferita saprà diventare una poesia?
in “la Repubblica” del 18 novembre 2016