La disamina di Bauman sulle caratteristiche della società contemporanea è ormai ampiamente accolta anche in contesti da “non addetti ai lavori” e spesso citata, anche a sproposito, per definire tratti di un mondo che, appunto, sguscia dalle mani dei nostri tentativi di determinarlo.
Anche la famiglia, ovviamente, rientra in questo schema di lettura della società, anzi essa appare una delle strutture sociali maggiormente corrispondenti a tutto ciò che la liquidità sta a simboleggiare: rapporti instabili, affetti mutevoli, legami deboli e così via.
L’aver colto, nella società contemporanea in genere e nella famiglia contemporanea in specie, queste caratteristiche porta a pensare che esse si contrappongano alle modalità con cui si sono costituite in passato. E questo, in moltissimi casi, è vero sia per la società che per la famiglia.
Se, però, proviamo a lasciarci guidare dal teatro in una sorta di viaggio nel passato, ci accorgiamo che esso, quando ha messo al centro delle proprie storie la famiglia, ce l’ha descritta con tratti non dissimili a quelli che essa presenta oggi.
Ciò non deve stupire. Le famiglie, in epoche passate, si basavano senz’altro su strutture più stabili e rigide, ma non mancavano le eccezioni. Eccezioni che, probabilmente, stavano lì a significare che la fluidità era una tendenza sotterranea imbrigliata da costumi, convenzioni e leggi alle quali alcune famiglie si sottraevano esponendosi a esiti drammatici e spesso tragici.
Il teatro, che è essenzialmente dramma, cioè azione (δρᾶμα), derivante dal verbo δράω (agisco), inevitabilmente va ad attingere a situazioni che possano produrre azione. Ciò che è statico e rigido non interessa al teatro. Esso ha, e ha sempre avuto, antenne sofisticatissime per intercettare ciò che è dinamico, in continuo movimento e, se vogliamo nuovamente scomodare Bauman, fluido.
La tragedia greca è in gran parte costruita su racconti mitologici che illustrano il processo di autodistruzione delle famiglie, si pensi al ciclo ambientato a Micene, tutto imperniato sulle vendette e sul disfacimento della famiglia degli Atridi o a quello Tebano in cui la famiglia regnante su Tebe, quella di Laio e Giocasta, Edipo e i suoi figli Eteocle, Polinice e Antigone, lungo tre generazioni produce la propria distruzione.
Non sono da meno in quest’opera di incessante disgregazione, le tragedie shakespeariane, Romeo e Giulietta e Amleto fra le prime.
Ma anche la drammaturgia novecentesca non è stata da meno. Per limitarsi a un solo esempio, fra i più noti e popolari, basterebbe pensare alla potenza del dramma di Eduardo De Filippo Filumena Marturano. Ma molto del teatro eduardiano trova nella fluidità dei rapporti familiari la propria fonte ispiratrice, da Natale in casa Cupiello a Il sindaco del rione Sanità.
Ecco perché il teatro, ancora oggi, può costituire un importante contributo per leggere e interpretare la contemporaneità e la famiglia in questo contesto. Perché per sua intima costituzione esso è allenato a cogliere la dinamicità esplicitandone le tensioni e le opposizioni.
C’è una cosa che, come sempre l’arte, il teatro non è mai riuscito e non riesce a dare: soluzioni. Perché se cercasse di offrire soluzioni (e spesso, incautamente, ci ha provato) tradirebbe la propria vocazione e il proprio compito che, per citare ancora una volta Shakespeare “sia all’inizio che adesso, era ed è quello di reggere lo specchio alla natura, di mostrare alla virtù il suo proprio volto, al vizio la sua propria immagine e alla stessa età e allo stesso corpo la sua forma e la sua impronta.” (Amleto, Atto Terzo, Scena Seconda).
Non è una soluzione, ma se un insegnamento il teatro può dare è quello di spingerci a guardare in negativo ciò che questo suo esser specchio offre. Forse era il senso originario della catarsi di cui parla Aristotele nella Poetica.
di Giancarlo Loffarelli