Il rapporto del teatro con la morale
Il teatro, come ogni forma d’arte, in sé non ha rapporti con la morale. In questo aveva ragione Benedetto Croce che, distinguendo le categorie dello spirito, attribuiva alla morale il compito di dover distinguere il bene dal male e all’arte quello di distinguere il bello dal brutto. Dal che consegue che il bello non può esser tale perché bene e il brutto tale perché male. Se, di contro, così fosse, dovremmo pensare che i dipinti di Caravaggio siano brutti perché a eseguirli è stato l’assassino di Ranuccio Tomassoni, o che Il ratto di Ganimede del Correggio debba essere bollato come un brutto dipinto perché racconta la storia di un rapporto omosessuale, zoofilo a rovescio.
Dunque il teatro non ha alcun rapporto con la morale di un tempo? Ovviamente no. Non lo ha, se per rapporto intendiamo ciò che fin qui abbiamo sinteticamente inteso. Non lo ha nemmeno, in maniera profonda, se per rapporto intendiamo una relazione sul piano contenutistico.
Sostenere che il compito dell’arte in generale e del teatro in specie, sia quello di affrontare tematiche, argomenti, insomma contenuti che ci lascino un bell’insegnamento morale per migliorare i nostri comportamenti quotidiani, significherebbe ricadere in quella confusione di ambiti di cui abbiamo appena detto o, nella migliore delle ipotesi, accontentarsi di un ruolo destinato più a mettersi a posto la coscienza che a pensare di poter realmente incidere sulla storia.
 
Ma, allora, di che rapporto deve intendersi?
A mio avviso, il contributo che il teatro (ma, insisto, qualsiasi forma d’arte nel proprio specifico) può dare a un rinnovamento della morale è sul piano formale.
Il teatro è forma d’arte povera, per citare Grotowsky. Esso, cioè, rimanda sempre all’essenziale, diffida del superfluo, accetta ogni contributo come utile ma nessuno come indispensabile. A costruire un evento teatrale contribuisce la parola, l’azione, la luce, il suono, il costume, la scenografia, lo spazio teatrale, la regia, il trucco, gli effetti speciali e potremmo continuare ancora. Se, però, poi, andiamo a compiere l’azione contraria a quella di sommare tutti gli elementi che possono comporre l’evento teatrale, se, cioè, andiamo a sottrarre, ci accorgiamo che il teatro continua a sussistere anche senza quasi tutti gli elementi che abbiamo appena elencati.
Sì, perché il teatro non ha bisogno di spazio scenico, poiché può esser fatto ovunque, non ha bisogno di costumi o di luci, né di regia e nemmeno di un testo scritto perché può essere improvvisato. Non ha bisogno nemmeno di parole perché può essere anche soltanto agito e neppure di tanti attori e di tanti spettatori, perché il teatro si dà nell’incontro di uno spettatore con il corpo di un attore: questa relazione minima è sufficiente affinché l’evento teatrale accada. Essa è sufficiente e, al tempo stesso, indispensabile, poiché se togliamo questa relazione minima il teatro scompare.
Ecco dunque che, dalla forma teatrale, vale a dire dall’accadere di un evento soltanto nella relazione fra due corpi, riusciamo a trarre un contributo, semplice ma profondissimo, per una rifondazione della moralità per l’oggi: la relazione fisica è imprescindibile. Essa è alla base di qualsivoglia costruzione ulteriore che può ricoprirla fino a farla, quasi, scomparire; ma non può annullarla. Questo ci dice ogni spettacolo teatrale se rettamente inteso. Non così per il cinema, per esempio, che vive dell’assenza della relazione fra spettatore e attore.
Ma la relazione fisica, radice di ogni evento teatrale, apre a un’altra prospettiva: la caducità della relazione stessa. L’evento teatrale è costituzionalmente esposto all’errore, alla fallibilità. Il cinema, la pittura, la scultura, possono correggere l’errore, cancellarlo fino a rendere l’immagine di un prodotto finale puro, libero dall’errore. Il teatro (e tutti gli spettacoli dal vivo) no. L’attore convive con la contingenza e, dunque, con la fallibilità. L’attore è istruito a reagire all’errore quando esso, com’è naturale, accade. Il perfettismo, insomma, è espunto dalla pratica teatrale. Chi pratica il teatro sa che ogni tentativo di pensare l’uomo infallibile è destinato esso stesso a fallire e, dunque, compie il grande atto d’umiltà di convivere con la fallibilità, nel convincimento profondo che errare è inevitabilmente connesso con il camminare, cioè con l’accettare la sfida del cambiamento.
Riconoscere il proprio limite, accettare la fallibilità, ammettere l’errore, ripartire da esso per non ripeterlo, sapendo che sarà inevitabile che questo accada e cominciare nuovamente da capo: queste sono parole d’ordine imprescindibili per qualsiasi uomo di teatro. Come cambierebbe la morale contemporanea se esse fossero assunte anche fuori del contesto teatrale?
Dunque non è il coacervo di tematiche che il teatro può proporre a costituire un contributo al rinnovamento della morale, ma la sua natura più intima, la sua forma specifica che, purtroppo, per tanti motivi, continua a essere la meno visibile.
 
di Giancarlo Loffarelli