C’è contrapposizione fra “buona morte” e “dolce morte”? E allora: dove comincia e dove finisce la dignità del vivere e del morire? In Europa e nel mondo sono in crescita i Paesi che hanno approvato una legge sull’eutanasia e sul suicidio assistito. Il “diritto alla vita” presume anche un “obbligo alla vita”? E con quale prerogativa – affermano i fautori dell’eutanasia – la società vieta a uno di voler morire se liberamente lo sceglie? Monsignor Paglia – uno dei più autorevoli esponenti della Chiesa di Francesco, consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio e Presidente della Pontificia Accademia per la Vita – affronta con estrema delicatezza e lucidità tutti gli aspetti legati al “fine vita” che continuano a suscitare aspri confronti in Italia e nei paesi europei. L’autore insiste sulla necessità di allargare gli orizzonti evitando gabbie ideologiche o ambigue urgenze legislative. Sono in campo profonde dinamiche affettive, culturali e spirituali e sarebbe riduttivo trattare i problemi al di fuori di una visione umanistica e sapienziale. Paglia non disdegna di mettere in guardia un Occidente che pare aver posto nel dimenticatoio alcune grandi verità: ogni persona, unica e irripetibile, è patrimonio dell’umanità; gli anziani e i morenti possono insegnarci qualcosa fino all’ultimo respiro; a nessuno piace morire dimenticato; solo accettando il traguardo della morte – che tutti ci affratella – potremo avere una vita intensa, feconda di relazioni personali autentiche e di valori umani condivisi, una vita degna di essere vissuta, fino alla fine.
 
 
Descrizione
Autore: Vincenzo Paglia
Titolo: Sorella morte. La dignità del vivere e del morire
Editrice: Piemme
Pagine: 276
Costo: 17,50
Anno: 2016
 
 
Eutanasia Non decida il «caso limite»
di Vincenzo Paglia

È convinzione diffusa ormai che il dibattito sull’eutanasia sia segnato da imprecisioni, ambiguità e confusione. Ci troviamo in una vera e propria “babele” di significati, sino a poter dire che non c’è termine più ambiguo di “eutanasia”. Eppure la sua etimologia è chiara. Da più di duemila anni è intesa in questo senso: dal suo apparire, nel mondo greco-romano, il termine eutanasia ha sempre significato “buona morte” e mai l’atto di soppressione di un malato da parte di un medico (anche quando il suicidio era ammesso senza tanto scandalo).
La richiesta dell’eutanasia si accompagna spesso a casi che appassionano e dividono l’opinione pubblica e all’enfasi del caso estremo di profonda sofferenza, solitudine e insopportabile angoscia, che richiede appunto l’intervento per evitare tanto dolore. La paura della morte in condizioni difficili commuove l’opinione di tanti: come non essere compassionevoli davanti a casi così drammatici? Certo, i casi estremi toccano tutti, fanno riflettere, sconvolgono i cuori, rendono pensosi e richiedono partecipazione e molta, molta attenzione. Le esperienze – come riportate sia da medici sia da infermieri – manifestano una pluralità di situazioni talora anche contrastanti. Nessuno deve considerare freddamente i molteplici casi drammatici che oggi in particolare si pongono. Ciascun caso è da considerare a sé.
Va evitata una classificazione generale. Molti operatori comunque invitano a non cedere a una “pietà pericolosa” – per riprendere la vicenda narrata nel romanzo di Stefan Zweig L’impazienza del cuore– perché porterebbe a derive drammatiche. Sulla spinta di casi estremi è sempre difficile fare una buona legge per sua natura generale. È utile porre attenzione alle riflessioni del noto chirurgo Lucien Israël che ha svolto per molti anni il suo servizio con i malati terminali di tumore. Nella sua lunga esperienza egli dice che una sola volta gli è capitato di ricevere da un malato in maniera determinata e continua la richiesta di eutanasia. A suo parere, l’affermarsi di quella che lui chiama la “moda dell’eutanasia” deriva, più che da un sussulto di compassione, dal crollo di quella cultura umanistica che di fatto sostiene le relazioni umane nella società occidentale: «L’eutanasia legalizzata rappresenta la rottura del legame simbolico tra le generazioni. Figli, nipoti e, ormai, pronipoti, visto che stiamo per diventare una società a quattro generazioni, sapranno che ci si può sbarazzare dei vecchi. Nel momento in cui una simile prospettiva dovesse essere am-È messa e diventare oggetto di una forma di consenso sociale, i più giovani non potrebbero fare a meno di vedere i più anziani come oggetti da gettar via. Quando i “vecchi” non serviranno più, che siano depressi o che ancora non abbiano trovato il reparto medico in grado di non farli soffrire, si deciderà che è tanto semplice, e persino più caritatevole, sbarazzarsene. In queste condizioni, i legami tra le generazioni, che già al giorno d’oggi, per diverse ragioni, diventano sempre più fragili, si indeboliranno ancora di più» (Contro l’eutanasia).
Mi pare particolarmente lucida l’analisi di Israël nel cogliere anche la deriva verso cui conduce una cultura eutanasica. Si mina in radice quel contratto sociale che fonda la comunità umana. E purtroppo avviene quasi in maniera banale, non riflessa. Lucien Israël aggiunge: «Bisognava aspettarselo che la richiesta di esecuzione medica diventasse quasi una banalità. Per quanto mi riguarda, in tutto ciò vedo il riflesso di un indebolimento dei legami esistenti sia tra gli individui che tra le generazioni e i gruppi sociali. Al giorno d’oggi, proprio quei valori che rendono possibile la società sono in pericolo. Esiste un non detto indispensabile alla coerenza di una società; rivelatore di questo non detto è il rispetto dovuto alla vita e la necessità di estendere fino alla fine gli sforzi per prolungarla». L’esaltazione dei casi limite portati per giustificare disposizioni legislative rischia di innescare processi che conducono allo scardinamento della vita anche associata. Tutti concordiamo che la sofferenza può far paura più della stessa morte. E va ricercato ogni rimedio per eliminarla. E qui si apre la questione di quanto la società si impegni nella ricerca per abbattere il dolore, per sostenere le cure palliative, per favorire un coinvolgimento della stessa società perché nessuno venga lasciato solo nei momenti di sofferenza. E così oltre. Non mi pare ragionevole neppure la posizione di chi ritiene sufficiente anche un solo caso per proporre la legge. E non è saggia la tesi di chi sostiene che l’eutanasia va legalizzata perché comunque riguarderebbe solo chi la chiede. È ovvio – si dice da parte di costoro – che non può essere imposta. E insistono dicendo che esiste il diritto alla vita, non l’obbligo, per cui chi desidera vivere fino alla morte naturale, può ovviamente farlo, ma non si può vietare di morire a chi liberamente lo sceglie. Per confermare questa tesi si aggiunge: se – in Italia – il tentato suicidio non è penalizzato, perché dovrebbe essere penalizzata l’eutanasia? È vero però che, nel martellamento propagandistico, si stia realizzando una vera “newspeak orwelliana”: la morte per eutanasia viene presentata come un evento positivo che risponde alla richiesta di morire in maniera dignitosa. Purtroppo, ancora una volta, avviene un pericoloso slittamento: “aiutare” un malato vuol dire sempre di più “aiutarlo a morire” più che “aiutarlo a vivere”. E affermare che bisogna “morire in modo degno” significa sempre di meno “morire in modo naturale” (considerato spesso indegno, specie se la morte si fa aspettare) e sempre più ottenere la morte per via medicalmente indotta.
in “Avvenire” del 3 settembre 2016
 
 
«Paradiso e inferno sono qui tra noi»
intervista a Vincenzo Paglia

Per Francesco d’Assisi, ormai alla fine dei suoi giorni, era la benvenuta, al punto da sentirla sorella. Sorella morte è il titolo che don Vincenzo Paglia ha deciso di dare al suo nuovo libro (Piemme), che affronta il tema più scandaloso della vita. «Più dolce sarebbe la morte se il mio sguardo avesse come ultimo orizzonte il tuo volto», fa dire Shakespeare ad Amleto. In questa vicinanza e in questa condivisione è forse la ragione stessa del libro, nato prima dall’esperienza diretta e dalla conseguente riflessione con gli amici della Comunità di Sant’Egidio: «Ci siamo trovati per anni di fronte a situazioni liminari, con i malati di Aids quando la loro condanna era inevitabile, o con i tanti anziani accompagnati sino alla fine dei loro giorni. Abbiamo sentito il bisogno di affrontare il tema dell’eutanasia che appare una cesura violenta e problematica: di qui, via via, la discussione si è allargata non solo alle questioni che riguardano la legge e la medicina ma all’intero mistero della morte e della vita».
In genere, di fronte al morire si rimane senza parole: il suo libro sfida il tabù.
«In effetti, affrontando la questione della morte, si è come sbattuti di fronte a un mistero impenetrabile e che tuttavia ci coinvolge in maniera drammatica. E non si trovano parole. Il credente deve ripartire da Gesù. Sono le pagine centrali del libro che mi hanno permesso di dialogare con le diverse sensibilità, anche laiche, alla ricerca di parole che accomunino. È il tentativo di trasmettere un po’ di speranza, contro il rischio di banalizzare la vita e di occultare la morte. Oggi la morte è diventata la nuova pornografia. Deve essere nascosta e guai a “svelarla”. E invece è necessario, per dire, toglierle il burqa».
Il teologo Karl Barth ricorda che il buon cristiano dovrebbe avere sempre in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale. È un invito a confrontarsi con il cambiamento…
«Sì, il giornale significa la storia. I credenti debbono confrontarsi con essa. La fede è per sua natura “sociale”: il Vangelo chiede ai cristiani l’impegno per trasformare la storia. Viviamo una singolare contraddizione: da una parte occultiamo la morte e dall’altra, rassegnati, ne mostriamo la violenza nei conflitti e nelle ingiustizie. Perché riguarda altri e non noi. La fede cristiana, e anche il buon umanesimo, non fa restare neutrali. La Bibbia, che è una storia di liberazione dal male e dalla morte, costringe i credenti a entrare nella storia per liberarla perché sia più giusta, più pacifica, più solidale».
Non le pare che spesso il mondo cattolico sia prigioniero delle dichiarazioni dottrinarie di principio e che fatichi a percepire il cambiamento?
«Certo, anche noi cristiani dobbiamo ripensare le questioni ultime: l’oltre dopo la morte, l’Inferno, il Paradiso, il giudizio, la salvezza. Dobbiamo ripensarle nel cuore della storia, e non come una cosa solo a venire. Nel Credo affermiamo di credere nella “vita eterna”, non semplicemente nell’“aldilà”. La fede va legata alla vita, all’oggi. Ad esempio, l’inferno inizia già da questa terra: la Siria, la Nigeria, i bambini che muoiono di fame, i naufraghi nel Mediterraneo, non stanno vivendo l’inferno? Anche il Paradiso inizia qui: ogni volta che facciamo un gesto d’amore… Mi ha colpito il racconto di suor Emanuelle, una donna che trascorse la sua vita nel quartiere dell’immondizie del Cairo: lei mette in parallelo la morte triste di Onassis, abbandonato in una clinica, e quella consolata di un povero raccoglitore di immondizia circondato dall’amore di chi gli voleva bene».
Come si può liberare dal male un mondo che conosce lo sterminio quotidiano, le tragedie del mondo, il naufragio di massa dei migranti nel Mediterraneo, la morte per fame dei bambini, la violenza cieca del terrorismo islamico?
«Il Signore della creazione è il nemico irriducibile del male e della morte: combatte l’una e l’altra e non sopporta che si abbattano sugli uomini. E chiama i credenti a combattere. Certo, appare una battaglia impossibile, ma la fede è anche lotta (agonia). San Paolo invita a sperare contro ogni speranza (una frase che piaceva molto anche a Pannella), e aggiunge che la speranza non delude. L’amore è la chiave della fede e della vittoria sulla morte, è l’arma contro lo sterminio quotidiano che continua proprio perché manca l’amore. Mentre crescono muri e diffidenze. La morte inizia il suo lavoro più distruttivo là dove non c’è l’amore e l’uomo resta solo».
È nell’idea di uomo come essere «relazionale» che si innestano i suoi dubbi sull’autodeterminazione?
«Certo. La libertà individuale, che resta una grande conquista, se è sciolta da qualsiasi vincolo ci getta nella fossa della solitudine con un illusorio delirio di onnipotenza. Guai a sentirci padroni assoluti della nostra vita, a sentirci come Dio. L’amico Giuseppe De Rita ha ragione nel parlare di “egolatria”, di un nuovo culto, quello dell’Io, sul cui altare sacrifichiamo tutto, noi stessi e gli altri, in ambito privato e in ambito pubblico. Pensiamo ad Aleppo. Sugli altari degli interessi individuali delle diverse parti si sacrificano bambini, donne, gente inerme con la sola colpa di stare ad Aleppo. In una cultura iperindividualista, l’interesse individuale prevale sempre su quello pubblico. Ma siamo tutti interdipendenti, persone e popoli. La dimensione della relazionalità va riconquistata.
Un capitolo del suo libro si intitola con un verso di John Donne: «Nessun uomo è un’isola».
«Rispetto alla autodeterminazione nel campo individuale, nel libro riporto la reazione di Luciana Castellina di fronte alla decisione di Lucio Magri di darsi la morte in una clinica. Mi ha colpito la sua riflessione. Lei, anche se favorevole alla legge sull’eutanasia, ha affermato di non riuscire a perdonarlo: “Vuol dire che i legami di amicizia non servono a fermarti e che il tuo dolore conta più del dolore che procuri”. Sento una grande preoccupazione di fronte all’aumento dei suicidi. È sempre una sconfitta. Di tutti».
È difficile rendere conto agli altri di ogni tuo gesto intimo. Come possiamo condannare il suicidio di Pavese o di Primo Levi o di tanti altri che hanno voluto andarsene per ragioni insondabili?
«La scelta suicida non è mai un valore. Sempre lascia inevasa una disperata domanda di amore, di senso, di un futuro diverso. È come voler passare a una vita migliore senza il ponte: si cerca con un salto — drammatico — di raggiungere l’altra sponda. Per questo guardo quel dolore con misericordia e persino con tenerezza. E mi interrogo: noi dove stavamo? E se mi viene chiesto, da sacerdote celebro sempre il funerale. A chi si è tolto la vita desidero offrire quella sponda che non ha trovato prima. Dio ascolta quella scintilla d’amore. Non è né sordo né distratto».
Nel libro ricorre la metafora del tenersi per mano.
«È la metafora della vita e della morte. Siamo gli uni legati agli altri, tutti, la solitudine è contro natura. Chi non sa stendere le mani per gli altri è un “misantropo” nel senso più deteriore della parola. Dio stesso sentì il bisogno di mani amiche, soprattutto nei momenti drammatici della sua morte. Pensiamo ai baci di quella donna mentre gli ungeva i piedi. E poi è la scena dell’orto degli ulivi e della croce che ci dicono il bisogno di amore. È il filo che unisce le pagine di questo libro».
Lei è contrario alla legge sul testamento biologico?
«Non è proprio così. Sulla questione delle dichiarazioni anticipate di volontà ci sono molte domande di diversa natura, compresa quella sul suo valore giuridico. Non dico che non si debbano scrivere le proprie volontà, scriviamole pure, ma deve sempre prevalere la relazione affettiva, appassionata, anche dialettica, tra coloro che sono coinvolti. Fare credito all’amore degli altri è un modo per sfidare la morte, per non lasciarle l’ultima parola. Anche la morte va affrontata assieme, come la vita».
Si ha sempre l’impressione che quando si parla di questi temi si formino i soliti schieramenti ideologici o fideistici e che nessuno sia disposto davvero ad ascoltare l’altro.
«Nel libro cito più volte il presidente Mitterrand, uomo di profonde convinzioni laiche, per il coraggio di ricercare risposte alla morte e alle questioni ultime. È un esempio straordinario di umanista. Sarebbe utile che laici e credenti moltiplicassero dibattiti e confronti su questi temi. È uno degli obiettivi che mi propongo con questo libro. Del resto, il radicarsi della mentalità consumista, che nega nei fatti ogni dimensione agonica della vita, porta ad anestetizzare l’esistenza. La dittatura dell’Io porta a disinteressarsi della comunità. Hannah Arendt individuava nell’atomizzazione della società il miglior alleato dei totalitarismi».
Fatto sta che la scienza permette sempre più di sottrarre la morte ai ritmi naturali e di consegnarla alla scelta del singolo per evitare una sofferenza prolungata e penosa.
«Credo sia indispensabile suscitare una nuova cultura della vita, come anche un impegno più deciso per favorire le terapie contro il dolore. Comunque non mi pare saggio legiferare sulle questioni ultime, essendo privi di pensiero e di parole condivise sulla vita e sulla morte. Oltretutto, come dice Gustavo Zagrebelsky, di fronte alle questioni ultime siamo sempre penultimi. Resta infatti aperto il progresso della scienza, la possibilità di nuove medicine, e così via».
Qual è il suo obiettivo come presidente dell’Accademia per la Vita, nominato di recente dal Papa?
«Dialogare, creare ponti, anche in maniera dialettica, creare un nuovo umanesimo. È una prospettiva su cui papa Francesco non cessa di insistere. Solo i ponti permettono di passare da una parte all’altra. Il fondamentalismo è assenza di ponti: esistono solo pilastri lontani gli uni dagli altri. La verità è “dialogica”: essa cerca di unire non di separare. Anche noi cristiani dobbiamo rimetterci in discussione e senza timori percorrere anche le frontiere più delicate. A chi lo accusava di essere troppo rivoluzionario, Giovanni XXIII rispondeva: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio”».
Lei è stato presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia: che relazione c’è tra il sentimento della morte e i cambiamenti della famiglia?
«È il tema di oggi e di domani. Ed è una sfida da affrontare proprio mentre la morte è occultata e la famiglia bersagliata. C’è già una voragine tra la famiglia e la morte: alcuni decenni fa i bambini stavano intorno al letto del nonno morente. Oggi, invece, vanno accuratamente tenuti lontani (anche se poi li vediamo vittime innocenti delle guerre senza reagire come si dovrebbe!). Questa separazione è una violenza: oscurando la morte, si cancella il senso stesso delle generazioni. Un riverbero è l’abisso che stiamo ponendo tra giovani e anziani. Va recuperata l’alleanza tra le generazioni. La morte fa parte del programma. Cancellarla significa eliminare la coscienza della continuità della vita, del passaggio del testimone».
Abbiamo cominciato accennando all’esperienza diretta: che cosa si prova accompagnando qualcuno verso la fine?
«Seguire il morente è un’esperienza profondamente umana: costringe ad amare, a pensare agli altri e anche a se stessi, alla propria fragilità e al bisogno di aiuto. Tra i tanti ricordi mi viene in mente ora Pietro Scoppola, a dieci anni dalla sua morte. Intuendo che il nostro sarebbe stato l’ultimo incontro, mi volle vedere vestito e seduto sulla sedia: voleva benedirmi. Tante riflessioni avevamo avuto tra noi, anche vivaci, sulla Chiesta, sul Paese, sulla vita umana, ma quella volta, come da una cattedra, volle dirmi parole di benedizione. È difficile dimenticare incontri come questi. Altre volte le situazioni sono più drammatiche e magari il pianto prevale ma stare comunque accanto a chi muore e tenersi per mano, vale la vita».
a cura di Paolo Di Stefano, in “Corriere della Sera” del 3 settembre 2016
 
 
Finire in buona compagnia
di Gianfranco Ravasi

Le riflessioni di Vincenzo Paglia per aiutare chi sta per congedarsi, e noi ad accogliere il comune destino
Già Gilgamesh era costretto a scoprire l’ineluttabilità del morire, nonostante la vana terapia col vegetale marino dell’isola dei Beati, mentre l’antico Arpista egiziano faceva fremere le corde del suo strumento intonando lo stesso canto amaro. Eppure non aveva torto neppure la Beauvoir della Morte dolcissima quando confessava che «non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è naturale, perché la sua presenza mette in questione il mondo». Proprio per questo è saggia quella dose di cautela e di umiltà che suggeriva in un suo articolo Zagrebelsky: «Su queste questioni ultime si è sempre penultimi. Sono discorsi “allo stato” delle proprie attuali riflessioni. Guai alla sicurezza. Nelle questioni di questo genere, la problematicità è un dovere».
Pur con un necessario e fondato bagaglio di certezze, mons. Vincenzo Paglia, figura ecclesiale che non esige note biografiche perché non ha mai esitato ad affacciarsi oltre le frontiere del perimetro sacrale, ha adottato il consiglio del giurista non credente. È così che egli può parlare a tutti con il suo libro che ha già avuto una ricca batteria di recensioni e che ora vorrei riproporre in maniera molto libera e semplificata, nella convinzione della validità del numquam satis latino, cioè della permanente insufficienza del discorso attorno a questa “sorella” ingombrante che reca un nome divenuto spesso impronunciabile persino nelle prediche, Morte. Paglia, a sorpresa, pur ricorrendo nel titolo a Francesco d’Assisi, decide di aprire il suo discorso con La morte moderna, un romanzo dello svedese Carl-Henning Wijkmark pubblicato nel 1978 ma tradotto da noi solo nel 2008 da Iperborea. Si tratta di una sorta di parabola sulla «deriva totalitaria del sistema democratico se dimentica il primato intangibile della persona umana».
È un po’ questo l’orizzonte entro cui si deve collocare anche la questione del morire, evitando ogni eccesso di dogmatismo ideologico da qualsiasi punto di vista si affrontino le domande. Certo è che, ai nostri giorni nei quali la stessa semantica della parola “eutanasia” ha subito una torsione eufemistica rispetto a quella prima comunemente adottata, la cautela a cui sopra accennavamo sembra sempre più attenuarsi, introducendo un “eutanasiasmo” senza esitazioni. Come osservava Daniel Lamb nel suo saggio Down the Slippery Slope del 1988, pare che «i moribondi finiscano in una situazione in cui sono costretti a esprimere il loro “desiderio di morire” come l’adempimento di un ultimo dovere di buona creanza verso i viventi». Non bisogna, invece, dimenticare che in realtà quando il filosofo Bacone nel suo Progresso della conoscenza (1605) rispolverava il vocabolo greco-latino euthanasía lo usava come appello ai medici perché non abbandonassero alla morte i malati inguaribili, ma li aiutassero a sedare le loro sofferenze (in pratica un ricorso anche alle cure palliative).
Paglia si colloca naturalmente sull’altro versante rispetto a quello che ha avuto come svolta emblematica il Manifesto sull’eutanasia, pubblicato da una quarantina di scienziati (tra i quali i Nobel Monod, Pauling e Thompson) sulla rivista The Humanist del luglio 1974. Tuttavia lo fa senza sdegni polemici, cercando di registrare e analizzare anche quella spinta che sembra allargare sempre di più il consenso spesso istintivo ed emotivo su tale pratica. È un panorama che accoglie anche un teologo come Hans Küng che al tema ha dedicato molte pagine fino all’ultimo Morire felici? (Rizzoli 2015), attento però a evitare il termine Euthanasie (echeggiante l’infame programma nazista «Aktion 14» denominato anche «programma eutanasia») e a usare la parola Sterbehilfe, “aiuto alla morte”, attestandosi più sulla frontiera della vita. Un panorama che accoglie sempre più attori ed eventi inattesi: il libro di Paglia è da poco uscito ma già si deve allegare la testimonianza sorprendente dell’arcivescovo anglicano Desmond Tutu e la decisione belga dell’eutanasia per un minorenne.
Ebbene, l’analisi condotta dal vescovo Paglia non esita a sfogliare tutti i petali di questo fiore incandescente, partendo però da una visione antropologica generale, così da tenere sempre fissa la barra di un approccio personalistico, evitando – come dicevamo – ogni accanimento non solo terapeutico ma soprattutto ideologico. Tanto per esemplificare, si pensi all’oscillazione tra il “diritto” e il “dovere” di vivere e morire, all’individualismo isolazionista, alla solitudine del morente (peccato che non si citi quel capolavoro che è la Morte di Ivan Il’i? di Tolstoj, del quale è però evocato uno splendido passo di Guerra e pace), alla dignità del morire, alla questione delicata dell’autodeterminazione col relativo testamento biologico, alla medicina palliativa fino al morire accompagnati. Un’analisi condotta anche sulla scorta di una vasta bibliografia, segno di uno scavo prolungato, capace pure di tener conto delle curve di attenzione del lettore non specialistico, attraverso l’intarsio sapiente di esempi e citazioni e un dettato molto limpido.
Ma il percorso non si esaurisce nell’indagine e nella valutazione critica delle componenti molteplici e spesso roventi del problema. Il cristianesimo ha una sua ermeneutica della vita e della morte che mons. Paglia sintetizza in un capitolo ma che ramifica anche nella mappa della sua disamina generale (si veda la sezione sulle “realtà ultime”). Forse si sarebbe potuto organizzare meglio l’impianto globale del saggio, sviluppando ulteriormente questo specifico orizzonte cristiano che ha una sua originalità rispetto ad altre impostazioni religiose. Certo è che alla radice c’è sempre una particolare fisionomia assegnata alla persona umana, còlta nella sua trascendenza ma anche nell’immanenza della sua relazione con se stessa e con l’altro, per cui la morte è “intima” (come dice il titolo del bel libro di Marie de Hennezel nell’originale francese, divenuto “morte amica” nella versione italiana di Rizzoli) ma è pure comunitaria perché «nessun uomo è un’isola, intero in se stesso». È persino mistero, come già faceva balenare un agnostico, il filosofo Jankélévitch nel suo testo dal titolo lapidario, La morte (Einaudi 2009).
Un mistero che è inscindibile da quello della vita, come scriveva la dottoressa inglese Iona Heath, autrice dei Modi di morire (Bollati Boringhieri 2008): «Se distogliamo gli occhi dalla morte, pregiudichiamo anche la gioia di vivere: meno avvertiamo la morte e meno viviamo». Solo così si plasma la propria interiorità fino a conquistare la capacità di aiutare chi sta per congedarsi dalla vita e di accogliere con coraggio anche il proprio morire. Dalla «morte per pietà» si ritrova la «pietà per chi muore».
Vincenzo Paglia, Sorella morte. La dignità del vivere e del morire , Piemme, Milano, pagg. 275, € 17,50
in “Il Sole 24 Ore” del 27 novembre 2016