Il problema dell’immigrazione è sotto gli occhi di tutti e, nonostante l’attenzione che i mass media riservano ad esso possa oscillare in modo anche poco coerente e consono all’individuazione di soluzioni eque ed efficaci, una delle questioni che, a mio giudizio, riveste maggiore importanza per comprendere questo fenomeno nella profondità dei suoi aspetti, è quello riguardo alla diversità delle credenze religiose. Tale situazione non è certo nuova nella storia dell’umanità ma oggi forse assume una particolare forza all’interno di un contesto geo-politico quale è quello globalizzato, che tende inevitabilmente a ridurre i tempi e gli spazi che in passato potevano ancora tenere in qualche modo lontane tradizioni culturali differenti.
La sfida a cui sono chiamate le comunità religiose del mondo contemporaneo è quella di chiedersi se le diverse concezioni dottrinali presenti possano costituire un ostacolo insormontabile oppure una  preziosa occasione ai fini della cooperazione umana. Se è vero che in molte situazioni del passato le opposizioni religiose non sembrano affatto aver contribuito alla pacificazione degli uomini quanto piuttosto aver acuito e aggravato i loro conflitti, non è meno vero che l’unica salvezza possibile per l’umanità sia quella di concorrere alla realizzazione di uno stesso bene comune da parte di tutte le famiglie spirituali, secondo relazioni di buona intesa e mutua comprensione. L’orizzonte entro il quale è possibile configurare il raggiungimento di un simile obiettivo è quello che Jacques Maritain, più di sessant’anni fa, aveva delineato, prendendo a prestito il termine inglese fellowship, nell’idea di amicizia o amore fraterno di chiara derivazione evangelica[1]. Lungi dal confondere questa accezione con quella più debole e indeterminata di “tolleranza”, questo tipo di rapporto evoca l’idea di compagni di viaggio che si trovano a camminare su strade diverse per raggiungere una meta comune ovvero il servizio dei fratelli alla luce dell’amore di Dio.
Il percorso che viene così a delinearsi non vuole rimuovere certo le difficoltà e gli inciampi che esso può comportare per tutti gli uomini di buona volontà, nella consapevolezza che ogni prospettiva religiosa è centrata nel proprio universo di pensiero, irriducibilmente eterogeneo a quello altrui, senza poter contare su un minimo comune denominatore di identità dottrinale. Su cosa poter fare leva allora per realizzare una felice convivenza tra soggetti umani di diverse credenze spirituali? La risposta è forse più semplice e, allo stesso tempo, più difficile di quanto si possa immediatamente pensare, chiarendo subito che la soluzione di questo problema non è riscontrabile nell’ordine dell’intelletto e delle idee, ma solo del cuore e dell’amore. L’amore autentico non è rivolto a essenze, qualità o idee astratte, ma a persone vive e concrete che incarnano nella loro unica irripetibilità la presenza divina infinitamente polifonica. In questo senso, le convinzioni nelle quali ognuno si trova, a torto o a ragione, non impediscono un’amicizia tra gli spiriti, dando vita ad un dialogo fraterno nel quale occorre una specie di perdono e di remissione che concerne non già le idee – esse non meritano, infatti, alcun perdono se sono false – ma lo stato di colui che è in cammino con noi verso la Verità. Lungi dall’essere un “gioco al ribasso”, questa proposta non richiede un venir meno all’integrità dottrinale o una diminuzione di ciò che è dovuto alla Verità, ma, invece, una disponibilità a credere che ciascuno viva nel massimo di fedeltà alla luce che gli è mostrata, riconoscendo in ogni credenza diversa dalla propria ciò che comporta di dignità e di valori divini e umani. Secondo uno spirito di reciproca comprensione che non chiede di rinunciare sovradogmaticamente alla nostra fede, quanto di uscire empaticamente dalla nostra soggettività per andare coraggiosamente incontro all’altro, è possibile scoprire, anche in chi ha convinzioni diverse, la medesima chiamata di Dio alla felicità eterna che avvertiamo nel cuore. Per fare ciò l’amore naturale basato sulla spontanea simpatia però non basta, perché le possibili cause di divisione sono troppo forti: occorre un amore di origine più alta, quello che la teologia cattolica chiama soprannaturale, un amore in Dio e per Dio, che da una parte fortifichi nel loro dominio le diverse componenti naturali e dall’altra parte le trascenda all’infinito. Ben diverso dalla semplice benevolenza umana, già molto nobile in se stessa, ma in definitiva inefficace, la carità sola, come notava Henri Bergson, può allargare il nostro cuore all’amore di tutti gli uomini, perché venendo da Dio, che ci ama per primo, vuole per tutti lo stesso bene divino[2]. Alla luce dell’assenza di un’identità dottrinale comune è dunque decisivo sottolineare l’assoluta centralità dell’amore fraterno nell’opera di purificazione di ogni fede religiosa dall’istintiva tendenza all’intransigente egoismo e alla soggettiva chiusura cui può essere soggetta: solo in questo modo sarà possibile valorizzare l’unità fondamentale della natura umana, facendo convergere tutte le comunità religiose del mondo unite, pur nelle differenze, nella cooperazione verso il raggiungimento del bene comune universale.
 
NOTE
[1]J. MARITAIN, Chi è il mio prossimo?, in Per una politica più umana, trad. it. di A. Pavan, Morcelliana, Brescia 1979, pp. 93-116. L’articolo fu pubblicato per la prima voltain «La vie intellectuelle», LXV, 1 agosto 1939, pp. 165-191.
[2]H. BERGSON, Le due fonti della morale e della religione, trad. it. di M. Perrini, La Scuola, Brescia 1996, pp. 238-254.
 
Paolo Gava